Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Una recensione. E qualche divagazione regolatoria (Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi, Einaudi, Torino, 2015, pp. XI-292). (di Simone Lucattini)


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SOMMARIO:

1. Libertà e potere - 2. Inquisitori e Regolatori - 2.1. Geometrica perfezione - 2.2. Fredda governance - 3. Rivalità vs apatia - NOTE


1. Libertà e potere

Ogni libro si trova al centro di «un sistema di rimandi ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi: il nodo di un reticolo» [1] e «il passaggio da un libro a un altro libro si compie attraverso la vita» [2], attraverso la vita pratica dell’esperienza [3]. Leggere un libro significa allora addentrarsi all’interno di questo vitale groviglio che, nel caso del volume di Zagrebelsky, appare estremamente complesso, vario e cangiante; dalla grande letteratura alla critica letteraria, dalla filosofia politica alla sociologia, intrecciate in un saggio in forma di variazioni [4], che muove dalla fine analisi ermeneutica del racconto dedicato alla Leggenda del Grande Inquisitore incastonato ne I fratelli Karamazov [5]. Di fronte alla vastità di questi orizzonti (ma tutti alla fine servono per indagare l’uomo, convergono sull’uomo) [6], si avverte quasi naturalmente il bisogno di reimmettersi su sentieri più familiari e rassicuranti, entro lo spazio concluso delle proprie specifiche conoscenze e, financo, pratiche quotidiane. Ebbene, il libro di Zagrebelsky parla, essenzialmente, di libertà e di potere; innumerevoli sono dunque le suggestioni per il cultore del diritto amministrativo, da sempre percorso dalla tensione tra i paradigmi dell’autorità e della libertà. Il potente ossimoro Liberi servi esprime tutta questa tensione, lambendo – e superando – il paradosso dello schiavo volontario di John Stuart Mill, secondo cui «il principio della libertà non può ammettere che si sia liberi di non essere liberi: non è libertà potersi privare della libertà» [7]. Ma il Grande Inquisitore si muove in un orizzonte più rarefatto, dai contorni e dalle partizioni meno nette e definite (in politica, in filosofia) rispetto alle geometriche costruzioni dello stato liberale: una «strana atmosfera. Non siamo mai stati così liberi; al tempo stesso, non siamo mai stati tanto oppressi. Siamo liberi dall’arbitrio, ma siamo schiavi della situazione» [8]. È questa parvenza di libertà il nucleo tematico da cui si dipanano Oppressione del presente (capitolo IV), Nichilismo (capitolo V), Governo pastorale (capitolo VI) per raccontare un presente economico schiavo della crescita [9]; un [continua ..]


2. Inquisitori e Regolatori

«L’Inquisitore è un pianificatore; a suo modo è uno scienziato sociale», ma «la sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana secondo una qualche dottrina, secondo qualche dogma, secondo qualche morale, ma se la rispetta così com’è, la blandisce, la lascia sfogare» [16]. Un pianificatore, dunque, ma senza criteri d’azione né orientamenti teleologici: nessun fine, solo governo. Nella suggestiva rappresentazione del potere dell’Inquisitore s’intravedono alcune delle principali tentazioni dei detentori di ogni potere pubblico, specie dei poteri neutrali. Da un lato, la pretesa, quasi sempre vana, di pianificare o tutto (voler) regolare, fino all’entropia; dall’altro, la tendenza all’arretramento, alla chiusura tecnicista: accertamento e scelta tecnica piuttosto che bilanciamento tra interessi e valori.


2.1. Geometrica perfezione

La prima tentazione è il delirio della ragione razionalizzatrice, tipica di «quelli che Dostoevskij denomina gli “euclidei”, gli “uomini del due più due”, gli uomini che non lasciano spazio ad altro che alla loro aritmetica, alle loro tabelle che contengono fino a 108 000 logaritmi e alla loro geometria applicate alla vita e alla società» [17]. Gli uomini della ragione calcolante, alla ossessiva ricerca di perfezione, determinatezza, calcolabilità, per lo più sordi alla «voce [del diritto] che viene su dalle cose» [18], all’«intrinseca categoricità» dei fatti [19] e alla non sempre lineare «geometria della natura» [20]. Si viene qui a toccare uno dei punti centrali del discorso di Dostoevskij (e di Zagrebelsky) sul potere e la libertà. Nella sua requisitoria contro Cristo l’Inquisitore si scaglia contro il dono divino che appare il più dannoso per l’uomo, la libertà («Tu hai scelto tutto ciò che v’è di più difforme, di più misterioso e di più indefinito») [21]. L’Inquisitore vuole così denunciare la mancanza di calcolabilità e di determinatezza dell’agire umano. A tale riguardo si è acutamente osservato che, nella concezione di Dostoevskij, una caratteristica del demoniaco è proprio «la volontà di determinatezza, la pretesa di calcolare esattamente qualcosa nello spazio e nel tempo, l’eliminazione di ogni carattere ipotetico, la concretezza e l’esecuzione letterale di idee o progetti» [22]. Lungo questa linea ideale, Nikolaj Berdjaev, filosofo e grande studioso di Dostoevskij, accusava il bolscevismo sovietico d’esse­re «una follia razionalista, una mania di regolazione definitiva della vita» [23]. Zagrebelskj, attraverso l’esegesi di Dostoevskij, ci mette anch’Egli in guardia dalle verità assiomatiche della matematica applicate all’uomo, che si traducono nel «dispotismo delle certezze geometriche in metafisica, morale, teologia, diritto» [24]. Zagrebelsky, in più, c’insegna a diffidare del luccichio dei «palazzi di cristallo» [25], all’inseguimento di sempre più splendidi e perfetti edifici di regole; come [continua ..]


2.2. Fredda governance

L’Inquisitore non cade nell’errore, tipico dell’ingegneria sociale utopica [33], di pensare di poter pianificare razionalmente la società nella sua interezza; egli sa bene che «da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente dritto» [34]. E allora asseconda, ammansisce, il suo è un governo pastorale, che si serve dell’autoregolazione, di un diritto adattivo “à la carte” cui «basta funzionare e risolvere problemi specifici e locali» [35], creato da una èlite – «i dodicimila per ogni generazione», ossia la «piccola schiera degli inquisitori» [36] – per disciplinare una massa quasi informe di produttori/consumatori [37]. L’Inquisitore sembra applicare alla lettera l’insegnamento che l’illustre cattedratico Richard Whately espose, nel 1829, in occasione dell’apertura dell’an­no accademico dell’Università di Oxford, secondo cui se l’economia aspirava a diventare una scienza rigorosa avrebbe dovuto separarsi dall’etica (il regno dei valori) e dalla politica (il regno dei fini). In questa visione, l’economia dovrebbe occuparsi di fatti tecnici, non di valori; di razionalità, non di ragionevolezza. Si apre così la strada a «quel centaurico giusnaturalismo artificiale» [38] che si erge sulle leggi del mercato finanziarizzato, dominato – anche dopo la crisi – dal nichilismo economico (il «nulla dell’economia reale (nichilismo finanziario)»), rispetto al quale il nichilismo giuridico (il «nulla della giustizia» [39]) risulta perfettamente funzionale, con la sua opera di riduzione del diritto ad asettiche regole tecniche espresse e rese cogenti in forma giuridica [40]. In quest’ottica, l’avvento di una oggettiva e neutrale «governance mondiale, de-territorializzata e determinata dagli equilibri di forze fattuali»[41] può decretare la crisi ultima del diritto [42]. La regola tecnica, che «presuppone l’unità di scopo», va, infatti, prendendo il posto di quella giuridica, che invece «presuppone la lotta fra interessi e ideologie» [43]. In questo universo pacificato, che sarebbe piaciuto [continua ..]


3. Rivalità vs apatia

Come si sconfiggono, o almeno, come si provano a curare l’apatia e il nichilismo del nostro tempo, perché non divenga, in via definitiva, “il tempo dell’Inquisitore”, meccanicamente soggiogato alla potenza della tecnica e dell’economia? È, questo, l’inquietante ultimo interrogativo che ci pone Liberi servi. Risposte forse non ve ne sono, e anche l’Autore sembra nel finale (Post scriptum) rassegnarsi alla sconfitta di un “umanesimo” ormai fuori tempo. Un qualche recupero può però essere forse tentato a partire proprio dalla regolazione dei mercati, laddove il diritto incontra, e tenta ancora di plasmare, l’incandescente materia tecnico-economica. Due appaiono, in particolare, le vie di questo possibile recupero del diritto. In sintesi: “più” indirizzo politico (del Legislatore) e “più” discrezionalità (del Regolatore), circondata però da una rete di contenimento, di «“limitatori” della discrezionalità ricavabili dal sistema» [52]. Indirizzo politico-generale e scelta regolatoria, in effetti, sono momenti e concetti di per sé non rivali anche se talora, in pratica, finiscono col sovrapporsi fino a dare vita a dialettiche contrapposizioni [53]. Ma essenziale qui è ciò che li accomuna, ossia la progettualità, da intendersi come capacità di determinare, in fase politico-ideativa [54], fini e orientamenti e di definire innovativi assetti d’interessi, a livello amministrativo-attuativo [55]. Essa appare comunque in grado di stravolgere, con la sua incisività ed energia creativa, la fredda geometria della governance, il razionale e asettico coordinamento dei canali di produzione delle regole, che è poi la naturale cornice del nichilismo giuridico. Di fronte ad una «legislazione dispersa» – la crisi del principio di legalità –, la regolazione amministrativa, in particolare, può contribuire a «fare limite» [56]. Perché la regolazione è, per sua natura, «diritto duttile» fatto di «principi e decisioni su casi concreti» [57]. In tal senso, diritto “giudiziale” [58], che aspira a produrre certezze, anche attraverso la forza dell’interpretazione (di singoli casi, di [continua ..]


NOTE