Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Turismo extra-alberghiero e locazioni brevi ai tempi della sharing economy: la risposta del diritto amministrativo (di Fabrizio Fracchia,  Professore ordinario di diritto amministrativo, Dipartimento di Studi Giuridici “Angelo Sraffa”, Università Commerciale “Luigi Bocconi” di Milano – Pasquale Pantalone, Ricercatore di diritto amministrativo, Dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale, Università degli Studi di Milano)


Il contributo mira a fornire un inquadramento giuridico sul piano del diritto europeo e nazionale del fenomeno della sharing economy nell’ambito della ricettività extra-alberghiera, cercando di cogliere le principali peculiarità e i maggiori profili problematici dell’intervento pubblico nel settore.

Parole chiave: Regolazione – diritto amministrativo – economia collaborativa – locazioni brevi – tecnologia.

Extra-hotel tourism and short-term rentals in the times of the sharing economy: the answer of administrative law

The paper aims to provide a legal framework of the sharing economy phenomenon in the field of extra-hotel tourism at the level of European and national law, trying to outline the main peculiarities and the major problematic profiles of public intervention in the sector.

Keywords: Regulation – administrative law – sharing economy – short-term rentals – technology.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Economia collaborativa: delimitazione del campo di analisi e in­dividuazione dei profili problematici - 3. Il dilemma della regolazione e la risposta italiana: impostazione del tema - 4. Il quadro normativo italiano - 5. Il problema fiscale: cenni - 6. Il tema di fondo: la liberalizzazione e le sue esigenze - 7. L’impatto sull’uso del territorio - 8. L’impatto sui (e il riflesso di) modelli culturali e sociali - NOTE


1. Premessa

Viaggio e ospitalità: questi due concetti sono da sempre legati tra di loro, anche e soprattutto nel mondo occidentale, come confermato dalla frequenza con cui la letteratura ha scelto di valorizzare il primo quale strumento avventuroso di conoscenza (anche interiore) e di scoperta, mentre la seconda (ciò accade, ad esempio, nel viaggio di Ulisse) è stata rappresentata come una caratteristica di alcune delle popolazioni incontrate dai protagonisti del racconto [1]. Guardando nel complesso al progresso dell’umanità, si può addirittura ipotizzare che le caratteristiche dei viaggi mutino con i grandi cambiamenti della storia e con le più rilevanti rivoluzioni sperimentate e attuate dall’uomo (dal mondo greco alle esplorazioni di Marco Polo, dalla rivoluzione industriale al­l’attualità). Invero, il periodo storico che ci tocca di vivere, con l’avvento della tecnologia e con la sharing economy, aprendo la via a possibilità prima impensate, ha segnato un importante punto di svolta e conferito un nuovo significato all’ospitalità, sfidando il diritto a trovare soluzioni adeguate. Un ulteriore impulso al settore è poi venuto dalla crisi economica: molti proprietari hanno visto nella sharing economy applicata al settore c.d. extra-alberghiero lo strumento per individuare nuove fonti di guadagno e per valorizzare i propri immobili. Il fenomeno non ha risparmiato ovviamente l’Italia. Alcune ricerche avevano indicato in 3,5 miliardi il giro d’affari generato in Italia dalla sharing economy, con prospettive di crescita fino a 25 miliardi nel 2025 [2]. Impressionante, appunto, è soprattutto il tasso di crescita, che, come attestato dal Piano strategico per il turismo cui si farà cenno oltre (par. 4), si attesta ben oltre il 50% su base annua. Molto nota è la società Airbnb, ma non si tratta dell’unica piattaforma operante in Italia: si pensi a Booking.com, Expedia e TripAdvisor. Pure il settore alberghiero ha cercato di entrare nell’arena della sharing economy, acquisendo in taluni casi alcuni siti e portali o fondandone altri. Il verificarsi dell’emergenza pandemica da Covid-19 a partire dai primi mesi del 2020, tuttavia, ha determinato una brusca riduzione dei ricavi attesi nel settore del turismo e del suo indotto (che prima della pandemia rappresentavano, in base a dati Istat, circa il 15% [continua ..]


2. Economia collaborativa: delimitazione del campo di analisi e in­dividuazione dei profili problematici

Molto si discute sulla nozione di economia collaborativa, intesa come sistema economico basato sull’uso condiviso di beni e servizi e direttamente da privati attraverso piattaforme, e sull’esigenza di regolazione di siffatto sistema [7]. Un preliminare punto controverso attiene all’eventuale incompatibilità del perseguimento di un profitto con il concetto di sharing economy [8]. La questione è stata sfiorata dal Comitato economico e sociale europeo, nel parere su «Il consumo collaborativo o partecipativo: un modello di sviluppo sostenibile per il XXI secolo» dell’11 giugno 2014 (2014/C177/01): il Comitato ha incluso nel concetto di consumo collaborativo anche le attività collaborative lucrative. Pure la Commissione europea, nella Comunicazione «Un’agenda europea per l’economia collaborativa» del 2 giugno 2016, COM(2016) 356 final [9], in modo molto pragmatico, ha mostrato di non ritenere determinante quel profilo, ponendo piuttosto l’accento sul fatto che le attività (effettuate, appunto, sia a scopo di lucro, sia senza scopo di lucro) sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati. In particolare, secondo la Commissione, «l’eco­nomia collaborativa coinvolge tre categorie di soggetti: i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono servizi su base occasionale (pari) sia prestatori di servizi nell’ambito della loro capacità professionale (prestatori di servizi professionali); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione – attraverso una piattaforma online – i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi (piattaforme di collaborazione)». Quanto all’ultima questione, il parere del 15 dicembre 2016 (2017/C 075/06) reso dal Comitato economico e sociale europeo sulla testè citata agenda [10], invero, ha puntualizzato che la sharing economy «non si sviluppa necessariamente in un ambiente digitale, ma anche in contesti di prossimità che consentono di concentrarsi sulle relazioni interpersonali (ad esempio lo scambio di beni)». Per altro verso, tale parere ha pure precisato che essa «spesso non comporta scopo di lucro e, in molti casi, [continua ..]


3. Il dilemma della regolazione e la risposta italiana: impostazione del tema

Si è testé fatto riferimento alla regolazione del settore. Invero, come di solito accade a fronte di un fenomeno nuovo, soprattutto se legato ai temi dell’innovazione (il pensiero corre alla vicenda, per certi versi analoga, di Uber) [15], il potere pubblico, di fronte alla difficile scelta tra assecondare la novità (il che suggerirebbe una regolazione “light”, se non addirittura un’assenza di intervento pubblico) e definire un quadro normativo compiuto, in teoria dovrebbe porsi almeno il problema di introdurre norme volte a tutelare gli interessi più rilevanti, in pratica spesso non riesce a organizzare una risposta tempestiva e adeguata. L’approccio “attendista” dei policy-makers e la mancanza di una specifica disciplina ha talora comportato l’insorgere di meccanismi di self-regulation da parte delle stesse piattaforme di collaborazione, di cui la dottrina pubblicistica non ha mancato di evidenziarne i principali limiti [16]. D’altro canto, si tratta di effettuare scelte non facili: sullo sfondo si coglie infatti il tradizionale motivo della contrapposizione tra liberismo estremo, che vede nel fallimento del mercato il solo presupposto per un intervento pubblico, e visioni maggiormente favorevoli a una più intensa presenza del pubblico, potendosi poi ulteriormente discutere se l’intervento pubblico debba assumere le forme del tradizionale command and control o assestarsi sulla soglia del market based tools, ovvero ancora dovendosi ricercare un mix accettabile tra questi modelli. Una volta che sia stato positivamente vagliato l’an della regolazione, infatti, il dilemma non può non abbracciare anche l’esatta individuazione dei confini dell’oggetto da regolare, i livelli (internazionale, europeo, nazionale) dell’intervento, le modalità di azione (hard law o soft law), la tipologia (ove prevista) di titoli necessari a svolgere una determinata attività nel settore in esame, l’esigenza di dotarsi di una disciplina provvista di efficacia temporanea o a regime [17]. Alcune indicazioni di fondo, almeno a livello teorico, possono essere peraltro fornite. Intanto, se il mondo della sharing economy è frammentato e non unitario, potrebbe essere opportuno elaborare risposte giuridiche e regolatorie differenziate [18]. In secondo luogo, bisogna sempre considerare che norme troppo restrittive [continua ..]


4. Il quadro normativo italiano

In materia di classificazione e standards delle strutture ricettive, il d.lgs. 23 maggio 2011 n. 79 (c.d. “codice del turismo”, tra l’altro emanato per dare attuazione alla direttiva 2008/122/CE, relativa ai contratti di multiproprietà, relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, e ai contratti di rivendita e di scambio), prima del boom della sharing economy, aveva provveduto al riordino della disciplina [26], distinguendo all’art. 8 tra strutture ricettive alberghiere e paralberghiere; strutture ricettive extra-alberghiere; strutture ricettive all’aperto; strutture ricettive di mero supporto. Tra quelle extra-alberghiere compaiono, ad esempio, gli esercizi di affittacamere, le attività ricettive a conduzione familiare (bed and breakfast), le case per ferie e le unità abitative ammobiliate ad uso turistico. La Corte costituzionale ha tuttavia dichiarato incostituzionale (anche) questa parte di codice [27] per eccesso di delega [28], statuendo che il decreto non poteva disciplinare ex novo i rapporti tra Stato e Regioni nella medesima materia, peraltro con il ripetuto ricorso al metodo della cosiddetta “attrazione in sussidiarietà”, che, qualificandosi come forma non ordinaria di esercizio, da parte dello Stato, di funzioni amministrative e legislative attribuite alle Regioni da norme costituzionali, richiede una precisa manifestazione di volontà legislativa del Parlamento, nel caso mancante. In questo scenario, con specifico riferimento all’affitto di alloggi, la normativa di riferimento è oggi costituita dalle fonti regionali. Al riguardo, a titolo esemplificativo, si può constatare che in cinque regioni (Piemonte [29], Lombardia [30], Veneto [31], Emilia-Romagna [32], Lazio [33]) le strutture extra-alberghiere sono di regola sottoposte al meccanismo della segnalazione certificata di inizio attività, mentre per le locazioni turistiche e le case per vacanze (ivi comprese quelle gestite da portali telematici) si delinea un regime semplificato basato sulla comunicazione preventiva al comune (alla regione in Veneto [34]) di apposito modello informativo, a seguito della quale viene rilasciato un codice identificativo di riconoscimento (CIR) [35] da utilizzarsi per pubblicizzare, anche su piattaforme digitali o siti internet di prenotazione ricettiva, l’alloggio oggetto di locazione [continua ..]


5. Il problema fiscale: cenni

Un’ulteriore delicata implicazione della sharing economy è quella fiscale. Viene qui in rilievo l’art. 4 (regime fiscale delle locazioni brevi), d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito nella legge 21 giugno 2017, n. 96. Il comma 1 dispone che «ai fini del presente articolo, si intendono per locazioni brevi i contratti di locazione di immobili ad uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni, ivi inclusi quelli che prevedono la prestazione dei servizi di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali, stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, direttamente o tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, ovvero soggetti che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare». La categoria di riferimento è dunque quella della locazione breve, di cui si fornisce una definizione che è slegata dall’esperienza della disciplina nazionale e regionale sulla ricettività extra-alberghiera [40], posto che essa ha quale proprio essenziale fondamento il criterio della durata, mentre non rileva la finalità turistica. Inoltre, si richiede la stipula di un contratto di locazione, laddove, ad esempio, con riferimento alle case appartamento per vacanze o alle locazioni turistiche tramite portali si rinviene al più un contratto atipico. Si noti tra l’altro che la norma (oltre ad accennare soltanto a una tipologia di servizi accessori, trascurando, ad esempio, quelli più comuni, quali la prima colazione), fa riferimento alle gestioni svolte al di fuori dell’esercizio di attività di impresa, anche tramite soggetti che gestiscono piattaforme. Per quanto maggiormente interessa ai nostri fini, con riferimento ai redditi derivanti dai contratti di locazione breve, l’art. 4 prevede l’opzione del regime agevolato dell’aliquota del 21% nella forma della cedolare secca. La disciplina interessa anche gli intermediari e i gestori di portali: secondo quanto stabilito dai commi 4, 5 e 5-bis, infatti, tali soggetti trasmettono i dati relativi alle locazioni brevi concluse per il loro tramite entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello a cui si riferiscono i predetti dati [41]. Inoltre, i soggetti residenti nel territorio dello Stato che esercitano [continua ..]


6. Il tema di fondo: la liberalizzazione e le sue esigenze

È però opportuno ritornare al tema del regime amministrativo introdotto dalle leggi regionali e, cioè, all’intensità della “barriera” di accesso al mercato delle locazioni per uso turistico così delineato e sulla ragionevolezza dello stesso. In alcuni casi, si è assistito alla definizione di regole limitative dell’attività extra-alberghiera (determinando così un vantaggio per quella alberghiera), in forza dell’inasprimento dei requisiti richiesti per il suo esercizio. Si tratta, in particolare, della previsione di vincoli di natura dimensionale e temporale. Con tutta evidenza, vengono qui in rilievo i principi di libera concorrenza e i correlati valori di parità di trattamento e non discriminazione. Va premesso che la direttiva 2006/123/CE (“direttiva servizi”) definisce i prestatori di servizi come qualsiasi persona fisica o giuridica che offre qualsiasi attività economica a titolo autonomo, fornita normalmente dietro retribuzione: la disposizione non impone né una certa frequenza nello svolgimento dell’attività, né che il prestatore agisca necessariamente in qualità di “professionista”. La già citata agenda europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016, COM(2016) 356 final, al riguardo, chiarisce che «la normativa dell’UE non stabilisce esplicitamente in quale momento un pari diventa un prestatore di servizi professionali nell’economia collaborativa. Gli Stati membri adottano criteri diversi per distinguere tra i servizi professionali e i servizi tra pari. Alcuni Stati membri definiscono come servizi professionali i servizi forniti dietro retribuzione, mentre i servizi tra pari si basano sul semplice rimborso dei costi sostenuti dal prestatore di servizi. Altri Stati membri operano questa distinzione utilizzando delle soglie. Tali soglie sono spesso determinate su base settoriale, tenendo conto del livello di reddito generato o della regolarità con cui si fornisce il servizio. Al di sotto di tali soglie, i prestatori di servizi sono di solito soggetti a requisiti meno restrittivi. Le soglie, stabilite in modo ragionevole, possono rappresentare un criterio utile e possono contribuire a creare un quadro normativo chiaro a beneficio dei prestatori di servizi non professionali» [45]. Emerge dunque che il principio cardine che deve essere [continua ..]


7. L’impatto sull’uso del territorio

Si è fatto fin qui cenno soprattutto alla questione della ragionevolezza del regime amministrativo alla luce dell’esigenza di proteggere la concorrenza. Non va però taciuto che il fenomeno della sharing economy nel settore ricettivo extra-alberghiero impatta anche su un altro importante interesse pubblico, quello alla corretta gestione del territorio. La vicenda richiamata al paragrafo precedente, d’altro canto, mostra che anche la pianificazione urbanistica – come anticipato, in quel caso si trattava del potere di individuare zone da destinare all’apertura di ostelli per evitare un’eccessiva concentrazione di strutture in determinate zone urbane – può essere uno strumento per condizionare l’attività ricettiva [48]. Vengono poi in rilievo temi emersi più di recente, quali la rigenerazione urbana e il recupero delle periferie: al fine di potere sfruttare al meglio gli immobili, infatti, spesso si interviene sull’uso del territorio [49]. Al riguardo, una riflessione di massima che può essere svolta attiene al fatto che la diffusione della sharing economy rischia di alimentare fenomeni di intervento individuale, piuttosto che azioni di carattere organico. Un altro problema è quello della c.d. gentrification [50] e, cioè, dell’alterazione del mercato immobiliare residenziale e, soprattutto, di perdita delle identità locali (il termine deriva da gentry, parola che indica la piccola nobiltà inglese), anche per la crescente emersione di fenomeni di overtourism (basti pensare, al riguardo, al noto caso dei tornelli installati a Venezia per regolare i flussi turistici): il quartiere smarrisce le proprie caratteristiche originarie [51]. Questo rischio potrebbe essere alla base di una forma diversa di reazione rispetto al modello di cui si discute, questa volta alimentata non già da operatori alberghieri “concorrenti”, bensì dai residenti, i quali rivendicano il diritto al mantenimento dei caratteri identitari del patrimonio urbano a fronte di fenomeni di omologazione turistica (si pensi all’esaltazione dei profili più commerciali e banali dei quartieri al fine di attirare clienti e alla perdita di identità degli appartamenti privati, che tendono a una forma diversa, ma egualmente significativa, di omologazione) e di globalizzazione estetica e culturale [52].


8. L’impatto sui (e il riflesso di) modelli culturali e sociali

Tenendo conto delle indicazioni fornite supra, par. 3, è ora possibile tentare di svolgere qualche riflessione conclusiva. Si è visto che, in Italia, l’intervento pubblico relativamente al fenomeno qui in esame ha utilizzato le leve della disciplina turistica, urbanistica e fiscale (in quest’ultimo caso, soprattutto per fare cassa, nel primo e nel secondo caso per una corretta e ordinata gestione dei flussi turistici e del territorio) [53]. Ciò è avvenuto non senza difficoltà, dovute sia a fattori di contesto (il tema del riparto di competenze legislative tra Stato e regioni alla luce delle varie materie che il fenomeno analizzato intercetta: turismo, governo del territorio, beni culturali, concorrenza, ordine pubblico, tributi, ordinamento civile ... per citare quelle più significative), sia al fatto che la liberalizzazione è stata realizzata in modo talora timido, spesso inasprendo irragionevolmente i requisiti solo per gli operatori di questo ambito di mercato. D’altra parte, va al contempo rimarcato che la compresenza di numerosi interessi degni di protezione (da quello degli operatori professionali tradizionali rispetto a possibili forme di concorrenza sleale a quello degli utenti a fruire di servizi che soddisfino standards minimi di sicurezza e qualità, fino a quello dei residenti e dei lavoratori del settore) richiede il ricorso a un set ragionevole e proporzionato di strumenti propri del modello del command and control, tanto più giustificati se si pone mente al fatto che la self-regulation delle piattaforme non pare da sola in grado di porre adeguato rimedio alle esternalità negative (alterazione del mercato immobiliare delle locazioni residenziali, overtourism, gentrification, perdita dei caratteri identitari di interi quartieri, ecc...) che il fenomeno sopra descritto produce. Circa la questione fiscale, poi, deve essere rimarcata la rilevanza essenziale che, all’interno della sharing economy nel settore c.d. extra-alberghiero, assumono internet e i portali che, oltre a mettere in connessione domanda e offerta, consentono anche di tracciare le transazioni. In questo contesto, come visto, l’amministrazione pubblica può “sfruttare” l’esistenza dei siti, chiedendo ai gestori degli stessi di fare da sostituto d’imposta, recuperando pienamente il settore all’imposizione fiscale [54]. Si è [continua ..]


NOTE