Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Considerazioni intorno al provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza nel caso FBA Amazon: nulla di nuovo sotto il sole? (di Federico Ghezzi, Professore ordinario di diritto commerciale, Università Bocconi di Milano – e Mariateresa Maggiolino, Professoressa associata di diritto commerciale, Università Bocconi di Milano)


Con una recente decisione, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha condannato Amazon per abuso di posizione dominante. L’abuso sarebbe consistito nell’aver condizionato l’accesso all’etichetta Prime e ad altre promozioni sulla piattaforma Amazon ai soli venditori indipendenti che avessero utilizzato, per la consegna dei propri beni, il servizio logistico di Amazon – denominato fulfillment by Amazon (FBA) – in sostituzione di altri servizi concorrenti. Il provvedimento si caratterizza per una certa ambiguità nell’inquadramento della condotta contestata. L’AGCM ha qualificato esplicitamente la condotta di come un caso di self-preferencing, sebbene non abbia poi seguito la giurisprudenza europea in relazione alla verifica del soddisfacimento delle varie ‘liability conditions’ elencate dal Tribunale europeo nella decisione Google Shopping. Allo stesso tempo, la decisione FBA Amazon è piena di riferimenti ad ulteriori fattispecie escludenti, quali ad esempio le pratiche discriminatorie o le condotte leganti, o ancora alla dottrina delle risorse essenziali. Ancora, si potrebbe sostenere che, essendosi concentrata solamente sugli effetti della pratica posta in essere da Amazon, il provvedimento dell’AGCM sia censurabile in quanto non abbia individuato con esattezza la tipologia di violazione commessa. Ora, tale ambiguità – o, almeno, la riluttanza dell’AGCM a incasellare la condotta di Amazon in una specifica categoria di pratiche escludenti e a sviluppare il castello accusatorio coerentemente rispetto a tale categoria – solleva una questione teorica generale: se si ritiene che l’approccio più appropriato per la valutazione delle pratiche monopolistiche sia quello che si fonda sugli effetti, non dovrebbe rilevare che la condotta possa incasellarsi nelle fattispecie del tying, dell’essential facility o del self-preferencing. Più esplicitamente, se si afferma che un’impresa in posizione dominante abusa del proprio potere di mercato quando la sua condotta sia suscettibile di escludere i rivali in modo anticoncorrenziale senza produrre alcun guadagno di efficienza tale da più che compensare gli effetti anticompetitivi, perché dovrebbe rilevare la forma di tale condotta? Oppure, si dovrebbe ritenere che qualificare una pratica come self-preferencing risolva questi dubbi ricostruttivi, perché tale qualificazione riconduce la condotta a una famiglia di pratiche – le pratiche discriminatorie – che differisce da quella delle pratiche escludenti? Il presente contributo tenta di rispondere a queste domande, al centro di un dibattito dottrinale molto serrato e riaccesosi alla luce delle più recenti decisioni della Commissione nei confronti delle piattaforme digitali. Il lavoro discute altresì di alcune ulteriori questioni che hanno caratterizzato il provvedimento, quali la ripartizione di competenze nell’ambito della rete di autorità europee, il livello (eccessivo?) delle sanzioni calcolate per un comportamento che non era mai stato considerato vietato (almeno a livello nazionale), e il potere di imporre rimedi strutturali e comportamentali prima del recepimento della direttiva ECN+.

Parole chiave: antitrust – self-preferencing – Amazon – abuso di posizione dominante – preclusione – pratiche escludenti – ECN – allocazione dei casi – sanzioni, rimedi.

The Italian FBA Amazon antitrust case and the notion of abuse of dominance: Nothing new under the Sun?

In a recent decision, the Italian Competition Authority (ICA) condemned Amazon for making Prime and other Amazon services de facto exclusively accessible to independent vendors who delivered their goods using Amazon’s logistics service – called fulfillment by Amazon (FBA) – in lieu of other independent logistics service providers. However, it is unclear how the ICA framed such behaviour. It explicitly qualified Amazon’s conduct as a case of self-preferencing, although it did not build this charge by meeting the liability conditions that the European General Court affirmed in Google Shopping. At the same time, the FBA Amazon decision is replete with words and expressions evoking a tying case, a discriminatory practice, or an essential facility. Finally, there is room to argue that because it focused on the effects of the company’s practice, the ICA overlooked the form that practice took – and the class of exclusionary practices under which it could belong. Now, such a legal ambiguity – or, at least, the ICA’s reluctance to pigeonhole Amazon’s conduct into a single class of practices and write the decision accordingly – raises a general theoretical question: if one believes – as we do – that the effects-based approach would be the most appropriate to assess monopolistic practices, why does it matter whether Amazon’s conduct is a case of tying, a case of essential facility, or a case of self-preferencing? More explicitly, if a dominant firm is said to be abusing its power when its conduct is likely to exclude rivals in an anticompetitive way without producing any efficiency or innovation gain in return, why does the form of that conduct – or the class of practices to which such behaviour is said to belong – matter? Or should one believe that qualifying a practice as self-preferencing sorts things out, because such a qualification traces the conduct to a family of practices – discriminatory practices – that differs from that of exclusionary practices? The paper also look at some other issues that have characterized the ICA decision, namely the allocation of cases between the ECN, the (excessive?) level of the fines calculated for a behaviour that was never considered prohibited (at least at national level), and the power to impose structural and behavioural remedies before the implementation of the ECN+ Directive.

Keywords: Self-preferencing – Amazon – abuse of dominance – exclusionary practices – foreclosure – ECN – case allocation – fines – antitrust.

SOMMARIO:

1. Introduzione: i fatti e le molte questioni procedurali e sostanziali sollevate dal provvedimento FBA Amazon - 2. La competenza ad assumere il provvedimento nel quadro del regolamento (CE) 1/2003 - 2.1. Alcune notazioni sulla ripartizione delle competenze applicative - 3. Il potere dell’Autorità garante di applicare rimedi comportamentali e strutturali - 3.1. Il nuovo testo dell’art. 15 legge n. 287/1990 - 4. Una sanzione iperbolica o insufficiente? - 5. Una pratica e molte qualificazioni giuridiche - 5.1. Una premessa sul ruolo delle condizioni di illiceità - 6. Dove collocare il self-preferencing? Le pratiche discriminatorie non rappresentano una fattispecie di abuso diversa e ulteriore rispetto alle condotte di sfruttamento e alle pratiche escludenti e anticompetitive - 7. Le varie tipologie di pratiche escludenti e anticompetitive non rappresentano fattispecie autonome e indipendenti di condotte abusive - 8. Gli elementi costitutivi dell’unica fattispecie astratta rilevante, quella delle pratiche escludenti e anticompetitive - 9. L’importanza di fondarsi sui fatti (alternativi) che mostrino l’illi­ceità della pratica - 10. Le motivazioni dell’analisi - NOTE


1. Introduzione: i fatti e le molte questioni procedurali e sostanziali sollevate dal provvedimento FBA Amazon

Dopo oltre due anni e mezzo di indagini [1], caratterizzate da taluni ‘imprevisti’ procedurali [2], l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in poi, anche AGCM) ha vietato per abuso di posizione dominante, ai sensi dell’art. 102 TFUE, le condotte poste in essere da Amazon [3] nei mercati della logistica per e-commerce e dei servizi per intermediazione su marketplace [4]. In particolare, Amazon avrebbe legato l’accesso ad un insieme di ‘funzionalità’ che consentono ai venditori terzi di ottenere maggiore visibilità e un miglioramento delle loro performance di vendita su Amazon.it alla sottoscrizione del servizio di logistica integrata offerto da Amazon stessa. In altri termini, Amazon avrebbe indotto [5] i venditori terzi a scegliere la logistica di Amazon (c.d. FBA, o Fulfillment by Amazon) riservando esclusivamente a costoro la possibilità: (i) di utilizzare l’etichetta ‘Prime’, che a sua volta rendeva possibile la partecipazione ad eventi di vendita speciali quali il Black Friday, il Cyber Monday, o il Prime Day, aumentando altresì la probabilità di venire selezionati nella c.d. Buy Box; e (ii) di essere esentati dai rigorosi indicatori di performance che, invece, Amazon applicava per monitorare e penalizzare i venditori meno affidabili qualora avessero utilizzato operatori di logistica diversi da FBA [6]. L’Autorità garante ha ritenuto queste funzionalità aggiuntive ‘non-replicabili’ e un ‘game changer’ [7] in quanto idonee a modificare in modo radicale le prospettive di successo dei venditori, incrementandone esponenzialmente visibilità e fatturato (così come i profitti di Amazon) [8]. Operando in tal modo, Amazon avrebbe illegittimamente fatto leva sulla posizione di assoluta preminenza detenuta tra i marketplace che si rivolgono ai consumatori (il c.d. primary monopolized market) per riservare a sé stessa un significativo vantaggio sui concorrenti nel mercato italiano della logistica per e-commerce (il c.d. secondary competitive market). Inoltre, l’assoluta ‘necessità’ per i venditori terzi di essere presenti sul marketplace di Amazon, unitamente agli elevati costi logistici in caso di compresenza su più piattaforme (il c.d. multihoming logistico), avrebbe indotto tali venditori ad [continua ..]


2. La competenza ad assumere il provvedimento nel quadro del regolamento (CE) 1/2003

Una prima questione procedurale, di notevole impatto pratico, riguarda la competenza o, meglio, la ripartizione delle competenze all’interno della Rete europea di autorità di tutela della concorrenza. In proposito, si deve ricordare che l’AGCM aveva già autonomamente avviato, nell’aprile 2019, una istruttoria nei confronti delle condotte poste in essere da Amazon nei mercati della logistica per e-commerce e dei servizi offerti sul marketplace [21]. Successivamente, verso la fine del 2020, anche la Commissione europea ha ritenuto di avviare un procedimento sulla medesima fattispecie. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto attendere, l’avvio del procedimento da parte della Commissione non ha condotto all’avocazione della competenza e alla conseguente ‘esautorazione’ dell’AGCM, la quale ha pertanto potuto proseguire l’istruttoria e assumere il provvedimento finale, seppure limitatamente al territorio italiano. L’esito descritto appare, quantomeno a prima vista, peculiare e non del tutto coerente con le regole di ripartizione delle competenze previste dalle norme europee. Per meglio inquadrare la questione, si deve premettere che la presunta violazione rientrava nell’ambito di applicazione del diritto europeo della concorrenza, trattandosi di condotta idonea a pregiudicare il commercio tra Stati membri [22]. In presenza di un possibile pregiudizio al commercio, il regolamento n. 1/2003 [23] stabilisce un sistema di competenze parallele, ossia che tanto la Commissione, quanto le autorità nazionali possano avviare un procedimento ai sensi degli artt. 101 e 102 TFUE [24]. Qualora avviino un procedimento ai sensi di tali disposizioni, le autorità nazionali devono informarne tempestivamente la Commissione, come previsto dall’art. 11, par. 2, del regolamento n. 1/2003 [25]. Il regolamento non prevede una gerarchia o un diritto di priorità nell’allocazione dei casi tra le autorità nazionali di tutela della concorrenza appartenenti alla Rete europea. Ciascuna delle autorità garanti nazionali può dunque avviare un procedimento, anche in parallelo. La regola esposta subisce una sola, rilevante, eccezione: l’art. 11.6 del regolamento n. 1/2003 specifica infatti che l’avvio di un procedimento da parte della Commissione per l’adozione di una decisione di infrazione [26] priva le [continua ..]


2.1. Alcune notazioni sulla ripartizione delle competenze applicative

Dalla giurisprudenza esaminata si possono trarre alcune conclusioni, in forza delle quali la Commissione non solo gode di discrezionalità nell’esercizio del potere di avocazione di un caso, ma può anche ritagliare la propria competenza in modo da ricorrervi parzialmente. La discrezionalità nell’avviare un procedimento può dunque essere esercitata in modo tale da riguardare fattispecie che, sotto il profilo temporale, spaziale o dei mercati del prodotto interessati non coincidano pienamente con quelle già indagate dalle autorità nazionali, senza privare queste ultime della competenza applicativa. In altri termini, la Commissione potrebbe esautorare l’autorità nazionale integralmente, sottraendole il caso [38] o potrebbe decidere di avviare l’istruttoria sui medesimi fatti, ma in mercati diversi: in quest’ultima ipotesi, le autorità nazionali potrebbero proseguire con riferimento agli aspetti non avocati. L’opzione della ‘avocazione parziale’, che quindi comporta che le due autorità agiscano parallelamente, concentrandosi su mercati del prodotto e/o geografici distinti, non pare scontrarsi con il principio del ne bis in idem [39] e potrebbe risultare efficace quando, ad esempio, le dinamiche nei distinti mercati geografici o del prodotto siano disomogenee, sia necessaria una attività di indagine particolarmente approfondita e capillare su uno specifico mercato nazionale e l’autorità “domestica” risulti nella migliore posizione per effettuarla, o l’i­struttoria sia già in fase avanzata [40]. Sebbene il Tribunale abbia respinto l’argomento in punto di diritto, non ci si può nascondere che in punto di fatto l’opzione della ‘avocazione parziale’ potrebbe comportare costi considerevoli per le imprese, non solo per la necessità di disporre delle risorse per difendersi al contempo di fronte a più autorità di tutela della concorrenza, ma soprattutto per il rischio di dovere subire decisioni confliggenti, non dovute alle specifiche dinamiche dei mercati e dei prodotti interessati. E lo stesso potrebbe dirsi con riferimento ad eventuali rimedi imposti, che se non attentamente scelti e modulati potrebbero confliggere tra loro, non essere applicabili contemporaneamente, o comunque aggravare inutilmente i costi di compliance delle imprese [continua ..]


3. Il potere dell’Autorità garante di applicare rimedi comportamentali e strutturali

Si è detto della necessità che, in caso di istruttorie parallele, i provvedimenti finali e i rimedi siano tra loro coordinati e calibrati. Il riferimento ai rimedi consente di toccare un’altra questione, legata all’estensione dei poteri decisori di cui è dotata l’AGCM. Come è noto, tali poteri sono stati recentemente modificati a motivo del recepimento della c.d. Direttiva ECN+, volta a rafforzare le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri e dotarle di poteri di enforcement più omogenei ed efficaci al fine dell’applicazione degli artt. 101 e 102 TFUE [47]. Il provvedimento FBA Amazon è stato tuttavia assunto prima dell’entrata in vigore di tali modifiche. Di conseguenza, nel vietare la condotta ritenuta abusiva, l’autorità ha applicato il previgente testo dell’art. 15, legge n. 287/1990, il quale non prevedeva esplicitamente la possibilità di imporre rimedi comportamentali o strutturali. La norma si limitava infatti a stabilire che se l’AGCM, a seguito di istruttoria, avesse ravvisato un’infrazione alle regole di concorrenza, avrebbe fissato il termine per l’eliminazione dell’infrazione ovvero, se già cessata, ne avrebbe vietato la reiterazione. Proprio per questo motivo Amazon, nel corso dell’indagine, ha vivacemente contestato la ventilata imposizione delle misure, lamentando che l’Autorità non disponesse di alcun potere per applicarle. Si legge ai punti 479 ss. del provvedimento che – ad avviso dell’impresa indagata – l’AGCM «sarebbe priva dei necessari poteri per imporre rimedi, tanto di natura comportamentale quanto strutturale, nei procedimenti in cui si applica l’articolo 102 (posto che) l’articolo 15 della legge n. 287/1990 stabilisce che l’Autorità fissi il termine per la cessazione delle contestazioni accertate, senza alcun riferimento al potere di adottare rimedi». In assenza della necessaria base giuridica, l’imposizione di rimedi avrebbe dunque violato gli articoli 23 e 25 Cost. Le contestazioni di Amazon riguardavano l’insieme dei rimedi che l’AGCM intendeva imporre, ma l’impresa si doleva soprattutto per l’ipotizzata imposizione di una misura strutturale volta ad impedirle di operare nel mercato delle consegne di pacchi. Sebbene tale rimedio sia stato espunto dal provvedimento [continua ..]


3.1. Il nuovo testo dell’art. 15 legge n. 287/1990

A seguito del recepimento della Direttiva ECN+, il testo dell’art. 15, comma 1, legge n. 287/1990 è stato modificato. La prima parte continua a prevedere che se, a seguito di istruttoria, l’AGCM ravvisi un’infrazione agli artt. 101 o 102 TFUE (o degli artt. 2 o 3, legge n. 287/1990), essa fissa il termine per l’elimi­nazione dell’infrazione ovvero, se l’infrazione è già cessata, ne vieta la reiterazione. Alla disposizione è stato però aggiunto l’inciso che «l’Autorità antitrust può imporre l’adozione di qualsiasi rimedio comportamentale o strutturale proporzionato all’infrazione commessa e necessario a far cessare effettivamente l’infrazione stessa». Si specifica, infine, che, al momento di scegliere fra due rimedi ugualmente efficaci, l’AGCM deve optare per il rimedio meno oneroso per l’impresa, in linea con il principio di proporzionalità. I rimedi comportamentali e strutturali sono dunque entrati a pieno titolo tra gli strumenti a disposizione dell’Autorità antitrust italiana per indurre una più pronta ed efficace cessazione della violazione o per impedirne la reiterazione. Si deve notare, al riguardo, che la normativa italiana non si esprime su un ordine di preferenza tra queste due forme di rimedio, limitandosi a stabilire – in ossequio ai principi di proporzionalità e ragionevolezza – che al momento di scegliere fra due rimedi ugualmente efficaci, l’AGCM opta per il rimedio meno oneroso per l’impresa. È dunque ragionevole ritenere che, in linea con la giurisprudenza europea e nazionale, si confermi il favor nei confronti degli impegni comportamentali, in linea generale meno invasivi rispetto all’impresa e al suo patrimonio [54]. L’esplicita previsione dei nuovi poteri nel testo normativo non deve essere interpretata quale un nulla osta per l’imposizione di rimedi che siano non idonei o proporzionali, come pareva effettivamente la misura strutturale relativa all’obbligo di astensione dal porre in essere l’attività di consegna dei pacchi. D’altro lato, in una visione dell’intervento a tutela della concorrenza più proattiva e volta ad evitare il rischio di recidive, il fatto che sia stato riconosciuto normativamente il potere di imporre rimedi comportamentali e strutturali potrebbe [continua ..]


4. Una sanzione iperbolica o insufficiente?

Se i rimedi rispondono a finalità correttive e ripristinatorie di condizioni di mercato non affette da restrizioni concorrenziali, le sanzioni hanno, secondo la consolidata giurisprudenza, finalità punitive e dissuasive. Da questo punto di vista, la sanzione applicata nei confronti di Amazon ha suscitato notevole scalpore, soprattutto sulla stampa quotidiana, per il suo livello ‘iperbolico’ [55]. In effetti, se si guarda ai precedenti, l’AGCM aveva già applicato sanzioni elevate, specie in casi di cartelli [56], ma assai raramente la sanzione applicata a ciascuna delle imprese coinvolte nell’infrazione aveva superato i 100 milioni di euro [57]. Al riguardo, occorre premettere che l’Autorità garante segue, ai fini della determinazione della sanzione, le linee guida sulla quantificazione introdotte nel nostro ordinamento a partire dal 2014 [58]; a loro volta tali linee guida sono modellate sugli orientamenti per il calcolo delle ammende pubblicati dalla Commissione europea nel 2006 [59]. Il primo passo consiste nel calcolare la sanzione di base. Essa dipende innanzitutto dal fatturato realizzato nel mercato in cui si è consumata la violazione, moltiplicato per la durata della pratica e per un coefficiente variabile tra lo 0 ed il 30%, che riflette la gravità dell’in­frazione alle regole di concorrenza. L’indivi­dua­zione dell’esatta percentuale da applicarsi nell’ambito di tale forcella dipende dalla c.d. gravità intrinseca (ossia dalla natura) della violazione, dalla quota di mercato, dall’estensione geografica della pratica, e da altri fattori. A questa somma può aggiungersi una somma forfetaria in caso di condotte particolarmente gravi (in particolare, ma non esclusivamente, cartelli segreti). Il risultato può poi variare in funzione della presenza di fattori aggravanti o attenuanti e dall’esigenza di assicurare la necessaria dissuasione, legata alle dimensioni complessive e ai profitti dell’im­presa oggetto del provvedimento. Nel caso FBA Amazon, non pare che vi sia stato alcun significativo discostamento rispetto alle linee guida, nonché alla prassi e ai consolidati principi applicativi a livello nazionale ed euro-unitario, ancorché non sia immediato ricostruire il calcolo della sanzione effettuato dall’AGCM: infatti, per ragioni di segreto aziendale molti [continua ..]


5. Una pratica e molte qualificazioni giuridiche

Discusse le questioni di natura procedurale, è possibile concentrarsi sul secondo aspetto che è parso meritevole di un esame più approfondito, ossia quello dell’apparente ambiguità terminologica con la quale l’AGCM ha qualificato le condotte poste in essere da Amazon. Al riguardo, occorre prendere le mosse da una constatazione semplice, ma non per questo banale: le parole e le qualificazioni contano. I termini e le frasi che le autorità antitrust utilizzano per caratterizzare le condotte esaminate sono cruciali non solo perché contribuiscono a spiegare l’operato delle autorità medesime e quindi ad incrementare la trasparenza e l’accountability dell’intervento dei pubblici poteri nel mercato, ma anche – e forse principalmente – perché servono a stabilire quale sia la fattispecie teorica che le autorità contestano alle imprese. E, come ben noto, in ossequio alla certezza del diritto, l’esatta indicazione della fattispecie teorica contestata è a sua volta funzionale alla realizzazione di molteplici obiettivi. In primo luogo, serve a cristallizzare i c.d. elementi costitutivi della fattispecie ossia, da un lato, i fatti che le autorità sono tenute a provare per dimostrare l’illiceità della condotta esaminata e, dall’altro, i fatti sui cui devono invece concentrarsi le imprese per mostrare la natura non lesiva di quella pratica. In secondo luogo, l’esatta identificazione della fattispecie teorica contestata serve a comprendere se la norma invocata che include quella fattispecie possa trovare applicazione o meno, ossia se le conseguenze giuridiche (come, ad esempio, il divieto e la sanzione) che quella norma associa all’avverarsi dei fatti che le autorità sono riuscite a sussumere nella fattispecie astratta possano dispiegarsi o meno. Infine, l’esplicitazione della fattispecie teorica contestata consente ai giudici del riesame di controllare chi tra le autorità e le imprese abbia provato la fondatezza della sua tesi, rispettivamente accusatoria e difensiva. Ora, nella decisione FBA Amazon l’AGCM descrive la condotta di Amazon con parole, espressioni e riferimenti che si attaglierebbero ugualmente a una condotta di tying, ad un caso di essential facility, o ad una ipotesi di self-preferencing [80]. Ad esempio, in una serie di paragrafi immediatamente consecutivi, l’AGCM [continua ..]


5.1. Una premessa sul ruolo delle condizioni di illiceità

Le domande che ci siamo appena posti potrebbero apparire banali o, per lo meno, si potrebbe obiettare che esse ammettano una risposta scontata perché la nozione di abuso è ampia e la lista delle condotte tipizzate dall’art. 102 TFUE è puramente esemplificativa. Detto altrimenti, giacché è pacifico che qualsiasi condotta di un’impresa in posizione dominante può giudicarsi lesiva dell’art. 102, si potrebbe legittimamente dubitare della rilevanza delle nostre domande di ricerca. Tuttavia, se è vero che ogni pratica di un’impresa in posizione dominante potrebbe risultare abusiva, è altrettanto vero che non lo è necessariamente. Innumerevoli sono le pratiche delle imprese in posizione dominante, dai contratti di esclusiva alle clausole di grant back inserite nei contratti di licenza dei brevetti, che possono risultare lecite o illecite a seconda delle circostanze [87]. Di conseguenza, compito della giurisprudenza e degli interpreti è individuare quali siano le condizioni verificate le quali una pratica, altrimenti legittima, deve considerarsi abusiva. Da sempre, la discussione sul punto è accesa. La distinzione in famiglie di abusi – pratiche di sfruttamento vs pratiche escludenti e anticompetitive – nasce non solo dalla volontà di sottolineare come esse tutelino differenti beni giuridici, ma anche dall’esigenza di individuare diverse condizioni di illiceità per una e l’altra classe di comportamenti [88]. Questo scritto, riprendendo il recente dibattito europeo in tema di self-preferencing [89], si domanda se le condizioni di illiceità fino ad ora enumerate dalla giurisprudenza per stabilire quando i comportamenti escludenti e anticompetitivi delle imprese in posizione dominante violino l’art. 102 TFUE [90] debbano considerarsi necessarie o meno. Un esempio potrebbe aiutare a chiarire la questione. Come la nota decisione AstraZeneca illustra, financo la richiesta di un certificato di protezione complementare da parte di un’impresa titolare di un brevetto (che la pone in posizione dominante su un determinato mercato del prodotto) può considerarsi abusiva. Infatti, quando quel brevetto fa mercato, tale richiesta non solo produce effetti escludenti, perché impedisce ai produttori di farmaci generici di entrare nel mercato, ma causa altresì un mancato aumento del [continua ..]


6. Dove collocare il self-preferencing? Le pratiche discriminatorie non rappresentano una fattispecie di abuso diversa e ulteriore rispetto alle condotte di sfruttamento e alle pratiche escludenti e anticompetitive

Per molti anni, gli studiosi di diritto antitrust hanno affermato che l’art. 102 TFUE proibisce due diverse famiglie di condotte abusive: gli abusi da sfruttamento e gli abusi escludenti ed anticompetitivi [95]. Da sempre, cioè, si ritiene che le pratiche di sfruttamento e quelle escludenti ed anticompetitive rappresentino due fattispecie astratte autonome e tra loro indipendenti. Di conseguenza, la dottrina non ha mai ritenuto che gli elementi costitutivi della prima famiglia di abusi fossero equivalenti agli elementi costitutivi della seconda famiglia di abusi [96], sebbene un particolare comportamento potrebbe al contempo concepirsi come una pratica di sfruttamento e come una pratica escludente e anticompetitiva [97]. Con riferimento poi alle condotte discriminatorie previste dalla lett. c) del­l’art. 102, la dottrina ha sempre argomentato che esse potessero considerarsi o come una specie di pratiche di sfruttamento [98], ovvero come una specie di pratiche escludenti ed anticompetitive [99]. Tuttavia, il clamore suscitato dai casi di self-preferencing [100], e il fatto che essi si prestino ad essere inquadrati come una forma di pratica discriminatoria [101] – ciò che, come appena visto, in qualche misura ha sostenuto la stessa AGCM nel provvedimento FBA Amazon – induce a domandarsi se la tradizionale classificazione da ultimo proposta non vada invece rivista e quindi se le famiglie di comportamenti abusivi previste dall’art. 102 TFUE non siano invece tre, con le pratiche discriminatorie da considerarsi come una fattispecie astratta a sé stante, distinta sia dalle pratiche di sfruttamento sia dalle condotte escludenti ed anticompetitive [102]. Per rispondere a questa domanda si deve partire dall’obiettivo di policy che le istituzioni europee vogliono perseguire tramite l’individuazione di differenti fattispecie di condotte abusive: solo ragionando su tali obiettivi si può infatti ricostruire un sistema di regole che possa dirsi elegante [103], perché ordinatamente pensato per realizzare, senza ridondanze o lacune, degli obiettivi ben specificati. E, in effetti, come ricordato dalla più recente giurisprudenza dalla Corte di Giustizia, il divieto di pratiche di sfruttamento ed il divieto di esclusione realizzano due diversi obiettivi di policy. I prezzi e le condizioni commerciali non equi, che danneggiano direttamente i [continua ..]


7. Le varie tipologie di pratiche escludenti e anticompetitive non rappresentano fattispecie autonome e indipendenti di condotte abusive

Se il tie-in, il rifiuto a contrarre e il self-preferencing dovessero considerarsi fattispecie giuridiche autonome – e non tipi di pratiche escludenti e anticompetitive – le condizioni che nel corso del tempo la Commissione e la Corte di giustizia hanno fissato al fine di giudicare tali pratiche vietate ai sensi della normativa antitrust europea dovrebbero considerarsi elementi costitutivi di quelle fattispecie e, di conseguenza, dovrebbero ritenersi come gli elementi sui quali le autorità antitrust e gli attori privati dovrebbero in concreto fondare i loro casi al fine di dimostrare la presenza di un’infrazione alle regole di concorrenza. Ad esempio, secondo la giurisprudenza, le pratiche leganti possono considerarsi anticoncorrenziali solamente in presenza delle seguenti condizioni cumulative: (i) l’impresa in questione detiene una posizione dominante nel mercato legante; (ii) esiste il legame tra due prodotti distinti; (iii) i consumatori subiscono la coercizione; (iv) esiste una ragionevole probabilità di preclusione nel mercato legato; (v) il comportamento dell’impresa dominante è privo di giustificazioni oggettive [111]. Similmente, i rifiuti a contrarre che impediscono l’avvio di nuovi rapporti commerciali possono considerarsi anticoncorrenziali ai sensi dell’art. 102 quando: (i) la risorsa rivendicata è essenziale; (ii) il rifiuto può avere un effetto negativo sulla concorrenza; (iii) la condotta non ha alcuna giustificazione oggettiva [112]. Da ultimo, in Google Shopping il Tribunale ha stabilito che l’anticom­pe­titività delle pratiche di self-preferencing da parte di Google poteva essere riscontrata perché si era in presenza di cinque distinte condizioni cumulative: (i) la vocazione universale e l’apertura del motore di ricerca di Google; (ii) le caratteristiche della pagina dei risultati generali di Google, ritenute simili a quelle di una struttura essenziale; (iii) la posizione super-dominante o addirittura ultra-dominante di Google, che consente a tale impresa di fungere da gateway per Internet; (iv) un mercato caratterizzato da barriere all’ingresso molto elevate; (v) la presenza di una condotta anomala e per certi versi irrazionale – in sintesi, fuori dall’ambito della concorrenza nel merito [113]. Ora, se queste categorie di pratiche escludenti fossero da considerarsi alla stregua di [continua ..]


8. Gli elementi costitutivi dell’unica fattispecie astratta rilevante, quella delle pratiche escludenti e anticompetitive

In ragione di una giurisprudenza ormai consolidata «l’art. 102 TFUE non ha assolutamente lo scopo di impedire ad un’impresa di conquistare, grazie ai suoi meriti, una posizione dominante su un dato mercato. Tale disposizione non è diretta neppure a garantire che rimangano sul mercato concorrenti meno efficienti dell’impresa che detiene una posizione dominante (…). [Di conseguenza,] non tutti gli effetti di esclusione dal mercato pregiudicano necessariamente la concorrenza. Per definizione, la concorrenza basata sui meriti può portare alla sparizione dal mercato o all’emarginazione dei concorrenti meno efficienti e quindi meno interessanti per i consumatori, segnatamente dal punto di vista dei prezzi, della scelta, della qualità o dell’innovazione» [119]. Pertanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale riportato, ai sensi del­l’art. 102 TFUE le imprese dominanti non solo possono – come è ovvio – attuare pratiche che, senza escludere i concorrenti, ne limitano la libertà di azione, come avviene ad esempio quando esse sottoscrivano contratti di e­sclusiva di durata annuale con piccoli distributori. Esse possono altresì adottare pratiche che abbiano l’effetto di escludere i concorrenti attuali o li emarginino in una nicchia del mercato rilevante, oppure impediscano l’ingresso di potenziali rivali, se tali effetti escludenti non sono anticoncorrenziali, cioè se essi risultino la conseguenza naturale della concorrenza basata sul merito, come accade quando una pratica di prezzi non comporti l’esclusione di rivali altrettanto efficienti rispetto all’impresa dominante. Infine, le imprese sono addirittura libere di porre in essere pratiche che producono effetti escludenti e anticoncorrenziali se, tuttavia, tali pratiche possano essere oggettivamente giustificate perché producono effetti quantomeno compensativi in termini di prezzo, varietà, qualità e innovazione, a vantaggio dei consumatori. Detto diversamente, gli elementi costitutivi delle pratiche che si vogliono qualificare come escludenti e anticompetitive sono tre: (i) gli effetti escludenti; (ii) gli effetti anticompetitivi che non siano compensati da guadagni in termini di efficienza e innovazione; e (iii) l’assenza di ulteriori e differenti giustificazioni oggettive. In particolare, mentre chi contesta la natura [continua ..]


9. L’importanza di fondarsi sui fatti (alternativi) che mostrino l’illi­ceità della pratica

Oltre 20 anni fa, l’AGCM è intervenuta per esaminare uno scambio di informazioni posto in essere tra imprese operanti nel mercato dell’assicurazione obbligatoria danni autoveicoli (RCA) [124]. La condotta sembrava integrare gli estremi che, secondo la giurisprudenza, permettevano – e consentono tuttora – di ricondurre uno scambio di informazioni nell’ambito di applicazione del divieto di cui all’art. 101 TFUE [125]. Gli scambi tra assicuratori erano privati, assai frequenti, e coinvolgevano tutte le principali imprese attive sul mercato. Inoltre, le informazioni scambiate, non accessibili ai consumatori, si riferivano al livello dei premi passati e correnti e dunque erano certamente sensibili. Faceva tuttavia eccezione un elemento: il mercato dell’offerta di polizze RC Auto non era di natura oligopolistica. Di conseguenza, si sarebbe potuto concludere che la condotta delle imprese assicuratrici non fosse illecita, dato che non tutte le condizioni che la giurisprudenza e la prassi decisionale avevano elaborato fino a quel momento al fine di considerare uno scambio di informazioni quale violazione antitrust erano state soddisfatte. L’Autorità garante è pervenuta ad una diversa conclusione, valorizzando il fatto che il mercato italiano delle RC Auto, ancorché non oligopolistico, era caratterizzato da un elevatissimo livello di regolazione. Ora, gli scambi di informazioni che avvengono nei mercati oligopolistici rischiano di essere anticoncorrenziali poiché aumentano la trasparenza in contesti già di per sé altamente trasparenti. Di conseguenza, se un mercato è reso molto trasparente dalla regolamentazione, quest’ultima è una circostanza di fatto che può essere considerata equivalente alla struttura oligopolistica del mercato al fine di mostrare che lo scambio di informazioni in questione aumenti la trasparenza in un contesto già di per sé connotato da tale caratteristica. Da un punto di vista teorico, dunque, l’Autorità ha costruito il ragionamento come se l’elemento costitutivo della fattispecie astratta denominata scambio di informazioni non fosse “la struttura oligopolistica del mercato”, ma “un mercato già di per sé trasparente”, considerando di conseguenza l’oligopolio e l’elevata regolamentazione come due circostanze di fatto che [continua ..]


10. Le motivazioni dell’analisi

Alla luce di quanto scritto sinora ci si potrebbe chiedere perché si è scelto di impegnarsi in questa lunga discussione. Si potrebbe pensare che l’intento sia di sostenere la fondatezza delle conclusioni raggiunte in concreto dall’AGCM nel provvedimento FBA Amazon. Ancora, si potrebbe ritenere che chi scrive prediliga un’applicazione severa, se non draconiana, dell’art. 102 TFUE, soprattutto in questi tempi in cui al centro delle attività di indagine si trovano le c.d. big tech companies. Nulla di tutto questo. Non si è animati dal tentativo di salvare una decisione altrimenti vacillante, perché tutte le decisioni racchiudono luci e ombre e perché anche una decisione infondata non revocherebbe in dubbio la qualità di un’autorità indipendente come l’AGCM. Né si intende qui schierarsi a favore o contro i giganti digitali, ritenendo che compito del diritto antitrust non sia quello di difendere o attaccare l’uno o l’altro gruppo di imprese, ma di valutare di volta in volta i fatti accaduti qualsiasi sia l’impresa coinvolta e qualsiasi sia il mercato in cui operi. Il motivo principale per cui noi riteniamo che le diverse tipologie di pratiche escludenti finora individuate non dovrebbero essere considerate vere e proprie fattispecie giuridiche autonome risiede nel tentativo di salvaguardare la coerenza interna del sistema di applicazione dell’art. 102 TFUE. Si deve infatti notare che la condotta posta in essere da Amazon non è certamente l’unico esempio di condotta monopolistica che possa ad un tempo inquadrarsi in differenti specie di comportamenti escludenti ed anticompetitivi. Si consideri, ad esempio, il caso di un’impresa multiprodotto, monopolista nella produzione di un bene durevole, ma attiva anche nel mercato dei pezzi di ricambio per quel bene durevole, in concorrenza con terzi [132]. Ora, si supponga che tale monopolista lanci una nuova versione del prodotto durevole la quale risulti compatibile solo con una versione aggiornata di tali pezzi di ricambio, offerta dalla stessa azienda dominante, ma non con le versioni precedenti dei pezzi di ricambio (che sono prodotti dai concorrenti del monopolista). I produttori indipendenti di quei pezzi di ricambio verrebbero pertanto esclusi dal mercato a causa di tale incompatibilità. A fronte dell’esclusione, tali produttori indipendenti potrebbero [continua ..]


NOTE