Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

L'ira d'Europa per l'I.R.A. d'America Ovvero alcune considerazioni su aiuti di stato e green industrial policy da ambo i lati dell'Oceano (di Luca Galli, Ricercatore a t.d. di Diritto amministrativo presso l'Università degli Studi di Milano)


Con il presente contributo si pongono a raffronto le green industrial policies di Stati Uniti e Unione Europea, così da evidenziarne i sostanziali punti di contatto, quanto a contenuti e ratio ispiratrice. L'esito è quello di collocare tali politiche in un contesto di rinnovato intervento pubblico in economica, che può essere guardato con favore, se correttamente utilizzato, per guidare il mercato verso la lotta al cambiamento climatico, “scegliendo come vincitrici” le imprese e le tecnologie verdi e garantendo il necessario sostegno per una giusta transizione ecologica.

European reactions to the Inflation Reduction Act Some thoughts on state aids and green industrial policies from both sides of the ocean

This paper compares the green industrial policies of the United States and the European Union to highlight their substantial points of contact in terms of content and inspiring logic. The outcome situates these policies in a context of renewed public intervention in the economy, which can be looked upon favorably, if correctly used, to guide the market towards the fight against climate change, choosing green companies and technologies “as winners” and guaranteeing the necessary support for a just ecological transition.

SOMMARIO:

1. La nascita dell’Inflation Reduction Act: tra timori concorrenziali e speranze ambientali - 2. Il fu divieto di aiuti di stato nell’ordinamento europeo: l’equilibrio originario - 2.1. Gli aiuti di stato nell’Europa “multi-crisi” - 3. L’intervento pubblico in economia nel sistema U.S.A. - 3.1. L’I.R.A. nella politica climatica statunitense - 4. La politica climatica europea - 4.1. Le recenti risposte europee all’I.R.A. - 5. Conclusioni: deglobalizzazione, mercato e clima - NOTE


1. La nascita dell’Inflation Reduction Act: tra timori concorrenziali e speranze ambientali

«Il 16 agosto 2022, il Presidente Biden ha ratificato l’Inflation Reduction Act (I.R.A.) [1], facendo entrare in vigore la più significativa azione mai intrapresa dal Congresso, nella storia della nazione, in tema di energia rinnovabile e cambiamento climatico» [2]. Con queste parole, la relazione di accompagnamento apre la descrizione di un intervento normativo capace di mobilitare circa 740 miliardi di dollari federali, di cui 369 destinati a supportare gli investimenti privati intesi ad assicurare la trasformazione sostenibile dell’industria, dell’eco­nomia e della società statunitense [3]. Sebbene i contenuti finali si siano dimostrati meno ambiziosi rispetto a quelli dell’iniziale progetto presidenziale [4], l’Inflation Reductoin Act è quindi principalmente presentato come un punto di svolta nell’azione climatica degli Stati Uniti [5], diretto a produrre una riduzione dei gas serra del 40% entro il 2030, nei confronti dei livelli del 2005, così da collocare nuovamente il Paese sulla giusta strada per il rispetto degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015 [6]. D’altra parte, se l’impegno in materia ambientale resta innegabile, l’Inflation Reduction Act si presenta come un atto dal significato ben più ampio, volto prima di tutto a creare occupazione e a supportare le imprese nazionali, quindi in cui gli obiettivi di politica climatica si intersecano strettamente con quelli di politica industriale. Infatti, la piena portata dell’atto normativo può essere effettivamente colta solo se lo si considera come parte di un trittico di azioni, tutte astrattamente tese ad assicurare la sostenibilità del sistema USA, ma in cui il mantenimento della leadership (economica, commerciale, tecnologica) continua a occupare le attenzioni centrali del legislatore americano: il riferimento è ai sostanzialmente coevi Infrastructure Investment and Jobs Act [7] e CHIPS and Science Act [8]. Con il primo atto, infatti, il governo federale mobilita 550 miliardi di dollari per l’ammodernamento dell’esoscheletro infrastrutturale della Nazione (dai trasporti alla rete elettrica, dal sistema idrico alla rete internet), ai fini di assicurare la crescita economica e l’incremento della competitività USA sul piano internazionale, creare lavoro e – da ultimo – [continua ..]


2. Il fu divieto di aiuti di stato nell’ordinamento europeo: l’equilibrio originario

Tanto l’Inflation Reduction Act quanto le risposte europee, come prospettate in prima battuta dalla Presidente von der Leyen, si soffermano su uno degli strumenti a disposizione degli Stati per influire sulle dinamiche del mercato, ossia la loro capacità di investire risorse o, in senso più ampio, concedere agevolazioni a determinate attività o settori produttivi, di fatto alterando l’ordi­nario svolgimento della competizione economica [16]. Ciò per il perseguimento di fini ulteriori, che vanno dal salvataggio del singolo operatore economico, sino al soddisfacimento di più ampi obiettivi di politica nazionale [17]. Strumenti che, nel contesto europeo, evocano in primo luogo l’istituto degli aiuti di stato, la cui disciplina, tesa a vietarne il ricorso, è tanto risalente quanto l’ordinamento sovranazionale stesso, poiché tassello essenziale per la creazione e la preservazione di quello spazio economico – il mercato unico europeo – che sta alla base del progetto eurounitario. Sicché, proprio la volontà di tutelare sia la concorrenza microeconomica tra imprese, sia quella macroeconomica tra Stati Membri [18] – precludendo la creazione di uno scontro tra “campioni industriali nazionali”, che nel recente passato era stato tra gli elementi alla base del ben più grave conflitto interno al Vecchio Continente [19] – ha portato all’introduzione delle previsioni allora contenute negli artt. 92 e 93 del Trattato di Roma del 1957, confluite senza sostanziali variazioni negli artt. 107 e 108 dell’attuale TFUE [20]. Previsioni che, come ampiamente specificate dagli interventi giurisprudenziali, hanno generato l’attuale definizione dell’istituto [21], quale intervento imputabile al settore pubblico (prima di tutto a uno Stato Membro o a una sua articolazione territoriale) [22] e concesso mediante risorse pubbliche [23], vietato perché capace di attribuire un vantaggio economico [24] in maniera selettiva, ossia solo ad alcune imprese o ad alcuni settori produttivi [25], e tale da distorcere la concorrenza nel mercato europeo [26]. Al generale divieto contenuto nel primo paragrafo dell’art. 107 TFUE, i due paragrafi successivi accompagnano una serie di specifiche eccezioni che, se soddisfatte, confermano la compatibilità dell’aiuto con [continua ..]


2.1. Gli aiuti di stato nell’Europa “multi-crisi”

Un drastico cambio di rotta si è però avuto con l’emergenza finanziaria del 2008, che determina la transizione degli aiuti di stato nel nuovo contesto di un’Europa vittima di una crisi “multidimensionale” [32]. La spirale di sfiducia nel sistema bancario, avviatasi con la crisi U.S.A. della Lehman Brothers, ha fatto sorgere l’esigenza di un intervento pubblico che, mediante l’iniezione di risorse, salvasse gli operatori finanziari in difficoltà, così da prevenire (o quanto meno circoscrivere) una crisi sistemica, conseguenza proprio dell’impor­tanza strategica del settore bancario, incaricato di alimentare i flussi di risorse per tutti gli ambiti dell’economica [33]. Da qui la scelta, da parte della Commissione, di consentire temporaneamente un’applicazione più elastica delle norme sugli aiuti di stato, come esplicato in un’apposita Comunicazione volta a fornire ex ante il quadro delle caratteristiche che le misure statali di salvataggio dovessero soddisfare per potersi ritenere compatibili con il mercato comune [34]. Al di là dei singoli interventi consentiti, l’effettivo elemento di discontinuità rispetto al quadro precedente è stata la riconduzione delle deroghe disciplinate dalla Comunicazione nell’alveo dell’art. 107, par. 3, lett. b), TFUE, il quale ha ricevuto così una prima applicazione significativa [35]. Pur non mancando ulteriori giustificazioni [36], la scelta di questa base giuridica ha sicuramente garantito alla Commissione la possibilità di godere dei maggiori margini di discrezionalità che essa le riconosce nel bilanciare la tutela della concorrenza con l’esigenza di porre rimedio a un fenomeno di eccezionale gravità, capace appunto di pregiudicare irrimediabilmente altri “comuni interessi” quali, nel caso di specie, la stabilità finanziaria del sistema europeo [37]. È certamente vero che si è trattato di un “quadro temporaneo”, la cui durata è stata più volte prorogata, ma dove ogni proroga si è dimostrata occasione, per la Commissione, di precisare le condizioni per l’ammissibilità dell’aiuto, via via più stringenti a fronte del graduale riassorbirsi degli effetti della crisi [38]. Ed è altrettanto vero che la chiusura del momento [continua ..]


3. L’intervento pubblico in economia nel sistema U.S.A.

Verificato come, in Europa, la rigidità con cui il divieto di intervento pubblico in economia si sia fortemente assottigliata, è possibile procedere a comparazione con il sistema statunitense. Qui, il tema degli aiuti di stato ha ricevuto ben diversa attenzione, acquisendo profili di contatto con le dinamiche del Vecchio Continente soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra Stati federati e Stato federale [63]. Da un lato, infatti, i poteri di spesa e incentivazione di attività private del governo centrale non sono mai stati sostanzialmente messi in dubbio, nei limiti delle risorse garantite dal bilancio nazionale, consentendogli dunque, se necessario, di indirizzare il mercato nel perseguimento di fini ulteriori rispetto alla sola tutela della concorrenza. E in questo senso milita il potere, riconosciuto dalla Costituzione americana al governo U.S.A., di regolare non solo il commercio con gli Stati stranieri, ma anche quello tra gli Stati federati (c.d. Commerce clause) [64]. D’altra parte, a differenza di quanto accaduto nell’Unione europea, non si è mai presentato il rischio di un conflitto tra “campioni industriali nazionali” facenti capo a differenti Stati sovrani, proprio per il semplice fatto che, in questo caso, l’entità sovrana rimane una sola [65]. Dall’altro lato, però, la forma di governo federale che caratterizza gli U.S.A. consente di ipotizzare una possibile rottura del c.d. level playing field tra i singoli Stati federati, qualora questi intraprendano azioni capaci minare l’unità del mercato nazionale, alterando l’ordinaria competizione fra operatori economici collocati nei rispettivi territori. Anticorpi a questa evenienza, però, sono direttamente riscontrabili nella Costituzione, proprio all’interno della già menzionata Commerce clause. Questa previsione è stata infatti interpretata dalla Corte suprema quale portatrice di un limite implicito ai poteri degli Stati federati (c.d. dormant Commerce clause), i quali non possono agire a detrimento della concorrenza infrastatale e del commercio nazionale, alla cui integrità è quindi riconosciuta tutela a livello costituzionale [66]. Dunque, può dirsi che nel sistema statunitense opera un divieto di intervento da parte degli Stati qualora esso generi un «differential treatment of in-state and out-of state economic [continua ..]


3.1. L’I.R.A. nella politica climatica statunitense

È dunque in questo contesto di rivitalizzazione dell’intervento pubblico a sostegno dell’economia che si colloca l’adozione dell’Inflation Reduction Act, quale azione concepita per dirigere il mercato lungo traiettorie green, tramite incentivazioni non orizzontali, ma destinate a quegli specifici settori ritenuti capaci di favorire la decarbonizzazione della società statunitense. A ben vedere, poi, l’I.R.A. affonda le sue radici nello sforzo per una ripresa (rectius, per un nuovo inizio, come si dirà a breve) di una politica climatica americana, segnata oramai da anni di sostanziale immobilismo. Le origini del­l’atto ora in analisi, infatti, possono essere ricondotte a quel progetto di trasformazione ecologica e di giustizia sociale formulato tramite il c.d. Green New Deal, risoluzione presentata al Congresso nel febbraio del 2019 [86] e che, sin dal nome, evoca un parallelismo con il New Deal roosveltiano e, quindi, con un analogo protagonismo dell’intervento pubblico [87]. Caratterizzandosi principalmente come un manifesto per un’azione futura, tale risoluzione individua cinque principali obiettivi che comprendono: il raggiungimento della neutralità climatica del sistema statunitense; l’assicurazione di una stabilità economica per tutta la popolazione americana, attraverso la creazione di milioni di posti di lavoro equamente remunerati; la rinnovazione del sistema infrastrutturale statunitense; la garanzia, per le future generazioni, di un adeguato accesso alle risorse ambientali; e l’effettivo raggiungimento di una giustizia sociale in favore di quelle componenti della società americana vittime storiche di discriminazioni [88]. Nonostante l’iniziale insuccesso del Green New Deal [89], l’affermata esigenza di accompagnare la transizione verde con obiettivi di giustizia sociale, oltre alla necessità di rendere la trasformazione ecologica tecnicamente ed economicamente fattibile, nonché politicamente accettabile nella sua dimensione disruptive, ossia di abbandono dell’attuale modello “brown” di produzione, hanno spinto i commentatori a concentrarsi sugli strumenti normativi capaci di sostenere il cambio di paradigma. Così, piuttosto che prospettare una difficile riattivazione del percorso intrapreso con le c.d. “old environmental law” [90], basate sul command [continua ..]


4. La politica climatica europea

Definito il ruolo dell’I.R.A. nella politica climatico-industriale americana, per poter comprendere appieno le preoccupazioni europee che esso ha suscitato non resta che verificare lo stato di salute della politica climatica del Vecchio Continente, inquadrando il ruolo che gli investimenti pubblici possono avere in essa – anche alla luce di quanto tratteggiato nelle precedenti pagine in relazione agli attuali equilibri interni alla disciplina sugli aiuti di stato. Sicuramente non può negarsi che l’Unione, almeno formalmente, presenta una politica climatica più attiva di quella nordamericana. Il quadro più recente, infatti, si caratterizza per alcune tappe chiare e fondamentali [108]: si è partiti con il Green Deal del 2019 [109], attraverso cui la Commissione ha fissato l’obiettivo politico della neutralità carbonica entro il 2050; per passare alla c.d. “legge europea sul clima” [110], in cui questo obiettivo è stato reso vincolante assieme al traguardo intermedio della riduzione del 55% rispetto ai livelli del 1990 delle emissioni entro il 2030; per arrivare infine al Fit for 55, oramai giunto alle ultime battute del suo iter legislativo di approvazione. Con quest’ultimo pacchetto normativo, si specificano ulteriormente le azioni di decarbonizzazione, ai fini di concretizzare la cornice generale contenuta nella legge sul clima, prevedendo sia riforme al vigente diritto eurounitario, sia l’introduzione di nuove regolamentazioni in un numero particolarmente ampio di settori, che vanno dal sistema ETS, compresa una ridefinizione dei limiti emissivi, alla produzione di energia pulita, dall’utilizzo del suolo al sistema dei trasporti, dall’efficienta­men­to energetico degli edifici alla previsione di strumenti di sostenibilità sociale che accompagnino la transizione verde [111]. Il modello di azione prefigurato in questa serie di atti resta sempre quello dello sviluppo sostenibile, in cui la neutralizzazione dell’impatto ambientale non deve andare a discapito della crescita economica, ma con una sostenibilità che deve cessare di essere mero limite esterno all’iniziativa produttiva privata per diventare una sua componente intrinseca, incaricata di guidarne le scelte [112]. In questo senso, quindi, possono oggi essere lette la sostituzione ad opera del Trattato di Lisbona, nell’art. 3 TUE, del [continua ..]


4.1. Le recenti risposte europee all’I.R.A.

L’assetto così descritto merita però un ultimo aggiornamento, alla luce di alcune recenti azioni intraprese dall’Unione europea. Ci si riferisce alla «Comunicazione della Commissione del 1 febbraio 2023 – A Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age», dal cui titolo appare palese l’intenzione di andare a tracciare alcune nuove rotte di politica climatico-industriale e dalle cui prime pagine si manifesta immediatamente la volontà di agire in risposta al sistema di incentivi introdotto con l’I.R.A. La Commissione, infatti, dopo aver qualificato come «encouraging signs» le iniziative recentemente intraprese dai partner per il raggiungimento della neutralità climatica – richiamando proprio l’Inflation Reducion Act –, prende subito posizione andando ad affermare che la competizione per la sostenibilità non può che essere «a fair competition», laddove invece alcune scelte degli stessi paesi partner possono produrre (undesired) effetti collaterali. Per quanto l’atten­zione venga poi dirottata verso le ingerenze in economia di un competitor come la Cina, una non troppo velata critica agli “aiuti di stato” americani è quindi mossa [143]. D’altra parte, questa esigenza di risposta alle condotte dei partners/competitors internazionali pervade tutte e quattro le linee di azione tracciate dal nuovo Piano per il raggiungimento della neutralità climatica, da conseguirsi tramite: i) un contesto normativo prevedibile e semplificato per le imprese green; ii) un accesso più rapido ai finanziamenti; iii) il miglioramento delle competenze dei lavoratori; iv) il raggiungimento di un commercio aperto per catene di approvvigionamento resilienti. Anzi, quest’ultimo pilastro è interamente dedicato al recupero del level playing field nel contesto internazionale, sia mediante l’apertura di un dialogo con i paesi che si sono dotati delle green industrial policies più aggressive – da qui, il lavoro della EU-US Task Force on the Inflation Reduction Act [144] –, sia attraverso la creazione di una rete europea di alleanze incentrata attorno ai Free Trade Agreements con l’Australia, il Cile e il Messico, ai Sustainable Investment Facilitation Agreements con i paesi del continente africano e alla creazione di un Critical Raw Materials Club, sia pure con [continua ..]


5. Conclusioni: deglobalizzazione, mercato e clima

Volendo ora rispondere agli interrogativi posti nelle prime pagine di questa riflessione, può certamente dirsi che le preoccupazioni europee innanzi alle scelte degli Stati Uniti sono in certa misura fondate, considerata la capacità attrattiva del sistema di incentivi americani su imprese e investimenti che, se scegliessero di abbandonare il continente europeo, ne impoverirebbero il tessuto economico e le possibilità di attuare la propria transizione ecologica. Un po’ meno giustifica è, invece, la sorpresa per la condotta degli U.S.A., ampiamente prefigurabile sia a fronte delle evoluzioni della politica globale, sia avuto riguardo di una trasformazione giuridica ed economica che sta per prima attraversando l’Europa. Infatti, è l’Inflation Reduction Act ad apparire come una risposta alle precedenti politiche europee, collocandosi poi in un contesto mondiale di proliferazione di interventi pubblici “protezionistici”, volti a fare della trasformazione verde anche un’occasione di rafforzamento della propria produzione nazionale, pure a discapito delle economie degli altri paesi, siano essi partners o competitors [155]. Che si tratti di “guerra” per garantirsi quantità maggiori di vaccini, di “guerra” per assicurarsi i minerali strategici, di “guerra” dei sussidi climatici oppure, ancora più dolorosamente, di guerra “senza virgolette” (come quella che funesta ad oggi l’Europa), è chiaro come le scelte di green industrial policy risentano sicuramente del fenomeno di c.d. “deglobalizzazione” che sta si sta insinuando lungo il Pianeta [156]. A quello che sembra un abbandono del credo nella ricerca della massima efficienza economica tramite catene di approvvigionamento che si diffondono per tutto il globo, così da garantirsi prodotti e manodopera al prezzo più basso, sembra dunque sostituirsi il mantra della sicurezza economica, incentrato sulla capacità delle singole nazioni (o del loro gruppo ristretto di alleati) di disporre autonomamente (e non condividere) di tutte le risorse e le tecnologie necessarie per il proprio sviluppo [157]. Anche come conseguenza di tale fenomeno, dunque, si sta assistendo a un cambiamento del ruolo pubblico in economia e, quindi, a un’evoluzione del­l’infrastruttura giuridica che regola i rapporti nel mercato e tra il [continua ..]


NOTE