Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Crisi dell'euro o crisi dell'Unione economica? (di Francesco Munari)


Il presente articolo esamina lo stato attuale dell’Unione economica e monetaria (UEM), muovendo da un’analisi dei difetti originari contenuti nelle regole relative all’Unione Economica, e dei presupposti non esenti da criticità su cui tali regole erano state scritte, e ponendo in luce come l’erroneità dei presupposti abbia quindi aggravato i predetti difetti, enfatizzati dalla preminenza del principio della disciplina dei bilanci degli Stati membri rispetto ad altri principi che pur potevano assumere un ruolo altrettanto importante nella costruzione dell’Unione economica (e monetaria). L’articolo esamina le cause di questi problemi, individuandole soprattutto nella difficile coesistenza di competenze esclusive dell’Unione nella politica monetaria e di mere (e poco esercitate) competenze di coordinamento nella politica economica. L’esistenza di tali criticità viene quindi confermata dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di UEM, laddove appaiono nette le differenze di approccio quando la Corte ha esaminato questioni di politica economica rispetto ai casi in cui ha interpretato e applicato le regole di politica monetaria. In questa prospettiva, l’articolo si chiude con un accenno di rimprovero alla pronuncia resa dalla Corte Costituzionale Federale Tedesca il 5 maggio 2020, e con alcune proposte per superare l’impasse nel quale, da troppo tempo, l’Unione economica si trova.

Euro-crisis or economic union crisis?

This paper assesses the recent status of the Economic and Monetary Union (EMU). Moving from an analysis of the original flaws of the rules on the EMU, and on the erroneous prerequisites on which these rules were written, the author explains how these mistakes have enhanced the original defects existing in the EMU rules: in particular, emphasis is posed to the importance attributed to the budgetary discipline that has prevailed overall in the implementation of the economic policy, vis-à-vis other principles that could come into play as well in order to reduce the distances among Member States’ economies. The author then signals that the main causes of the difficulty in implementing a coherent EMU rests of the different level of competences conferred to the EU within the EMU, where exclusive competences on the monetary policy co-exist with mere (and weakly implemented) coordination of Member States’ economic policies. The inconsistencies of the system seem confirmed by the analysis of the European Court of Justice case-law, whose approach is different when dealing with matters on Economic Union compared to the case-law dealing on matters concerning Monetary Union. In this vein, the article concludes with a short critical assessment of the judgement rendered by the German Federal Constitutional Court on May 5th, 2020, and with some proposals to overcome the dead-lock which apparently is paralyzing – or unacceptably slowing down – the implementation of the Economic Union.

SOMMARIO:

1. L’euro e la politica monetaria dell’Unione godono di ottima salute. Ma non basta - 2. I vizi lontani della UEM: l’errore di prospettiva … - 3. Segue: … e altri errori “tecnici” - 4. Il principio delle competenze attribuite e le sue criticità applicative in ambito UEM - 5. La Corte di Giustizia e l’Unione economica: qualche errore (forzato), e molta Realpolitik - 6. Sagacia giuridica e riaffermazione dei fondamenti normativi su cui si basa l’Unione nella giurisprudenza della Corte sulla politica monetaria - 7. Spill-over di politica economica nelle misure di politica monetaria: il principio dei vasi comunicanti applicato al diritto (UE e non-UE) - 8. Considerazioni conclusive anche alla luce della pronuncia del BVerfG del 5 maggio 2020 - NOTE


1. L’euro e la politica monetaria dell’Unione godono di ottima salute. Ma non basta

Da tempo ricorre l’adagio se l’euro sia in crisi. Tuttavia, se si deve rispondere a questa domanda riferendoci allo stato di salute della moneta unica, onestamente direi proprio di no. E altrettanto negativa – anzi, ancor più fortemente negativa – è la risposta sulle modalità con cui, finora, la BCE e il SEBC hanno interpretato il loro ruolo istituzionale volto a raggiungere gli obiettivi previsti dai trattati nell’ambito della politica monetaria. Ma, com’è ovvio, la salute della BCE e del SEBC non bastano, da sole, ad assicurare il funzionamento dell’UEM: è quindi necessario approfondire il motivo per il quale, reiteratamente, si assume che l’euro sia in crisi. E a questa domanda, deve rispondersi che certamente, se si guarda il solo versante della politica monetaria dell’Unione, a partire dalla fine del primo decennio del nuovo millennio, quanto cioè ebbe inizio la prima “crisi dell’euro”, e fino ad oggi, assolutamente eccezionale – e più che apprezzabile – è stata la risposta che il SEBC e in particolare la BCE sono state in grado di dare all’intero sistema, nell’assolvimento dei loro compiti istituzionali come previsti dai Trattati [1]. Infatti, nonostante la peggiore crisi finanziaria da quella del 1929, e l’e­mer­genza COVID-19, possiamo dire che, nell’attuazione della politica monetaria, la BCE ha agito in modo senz’altro efficace: tra gli altri strumenti attuali o terminati, le misure OMT (più minacciate che attuate [2]), il PSPP (Public Sector Purchase Programme [3]), e oggi il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme [4]) hanno con certezza evitato il tracollo della moneta unica, e con essa dell’UEM, il default di alcuni Stati membri (tra cui, temo, il nostro), e con essi, probabilmente, anche il de profundis della stessa Unione. Il tutto è ancor più apprezzabile per i limiti di natura normativa e, direi, siste­mica, entro i quali la BCE si è dovuta muovere. E per il fatto che, troppo spesso, la BCE è stata lasciata da sola. Certo, abbiamo avuto momenti di tensione, anche per il nostro Paese [5], ad esempio quando venne costituito il FESF [6], ma nel complesso il sistema ha tenuto. Ed è una tenuta che, vorrei sottolineare, non ha preservato solo [continua ..]


2. I vizi lontani della UEM: l’errore di prospettiva …

Come ho avuto modo di sviluppare altrove [8], la debolezza nasce da una cattiva qualità normativa [9]: con l’inserimento del principio del no-bail out (art. 125 TFUE) si ipotizzava, anzi era dato per scontato, che per ciò solo ne sarebbe derivata una progressiva spontanea virtuosità verso parametri omogenei nei fondamentali economici di tutti gli Stati [10]. Al riguardo, forse, si sono scambiate la causa con gli effetti: e così, a posteriori, un no-bail out si sarebbe potuto magari pretendere solo dopo aver sperimentato l’effettiva convergenza delle economie degli Stati membri verso parametri omogenei di debito e deficit; forse non ci si è accorti, o non ci si è voluti accorgere, che in un quadro di partenza molto differenziato in termini di finanza pubblica degli Stati membri, imporre la virtuosità dei conti pubblici non ne implicava automaticamente il raggiungimento. Certo, nei pilastri della UEM – e torneremo sul punto [11] – questa virtuosità avrebbe dovuto essere facilitata dal “coordinamento” delle politiche economiche nazionali. Ma anche questa soluzione, si è visto, nella realtà non è stata affatto praticata con l’attenzione dovuta, tanto meno dopo la crisi finanziaria e dei debiti sovrani iniziata nel 2008-2009, e cui l’Unione ha poi risposto in modo apparentemente “definitivo” nel 2012 [12]: basti pensare a come si è provveduto alla riduzione del debito pubblico che era temporaneamente esploso in alcuni Stati membri rispetto ad altri, nei quali questa riduzione non si è avuta affatto. Così, con buona pace dell’obbligo di coordinamento, ognuno è andato per conto proprio, e ha continuato a farlo: al riguardo, basti ricordare le critiche tanto ripetute quanto inutili che da più parti si sono mosse alla politica economica della Germania la quale, ossessionata dalla riduzione del proprio debito pubblico, ha accelerato al massimo politiche rigoriste, incurante della circostanza secondo cui, nel contesto di un mercato unico e integrato quale quello degli Stati UE, l’austerity della maggiore economia europea avrebbe contribuito (come in effetti contribuì) a deprimere per anni la crescita a livello di eurozona, rendendo così più difficile il raggiungimento dei medesimi obiettivi di [continua ..]


3. Segue: … e altri errori “tecnici”

A questa inadeguata impostazione normativa, devono peraltro aggiungersi alcuni vizi di fondo, che ne hanno accentuato le criticità. Innanzitutto, un primo vizio è probabilmente dato dall’esclusivo rilievo assegnato a livello normativo al debito pubblico, quando era doveroso invece considerare anche lo stock di debito privato. Di tale abbaglio normativo si è avuta dimostrazione anche in occasione di questa emergenza COVID-19, nella quale è emerso chiaramente che, in situazione di crisi di debito privato, il pagatore di ultima istanza resta sempre lo Stato. E ancor di più lo si è visto con la precedente crisi, in cui le banche di alcuni Stati membri hanno beneficiato di più che consistenti aiuti di Stato, mentre quelle di altri non ne hanno ricevuti affatto o quasi, semplicemente perché queste ultime avevano situazioni patrimoniali più solide (i.e. erano assai meno indebitate) delle prime [13]. Il secondo vizio è probabilmente quello di una valutazione del tasso di conversione delle monete nazionali con l’euro vantaggiosa per i sistemi economico-produttivi di alcuni Stati e meno per altri. Di questo possibile vizio – almeno in Italia – si è parlato in modo piuttosto approssimativo, e anzi condizionato da un dibattito politico o partitico poco informato, se non strumentale, nella misura in cui si è immaginato che l’Italia sia entrata con un tasso di cambio dell’euro eccessivamente elevato, ciò dando luogo alla (errata e soprattutto suicida) convinzione che l’Italia avrebbe dovuto avere un tasso di conversione più basso, preservando il potere di acquisto degli italiani che apparentemente si sarebbe indebolito con l’ingresso nell’euro: in realtà, non solo tale impostazione era sbagliata, ma in quella direzione l’economia italiana sarebbe stata fortemente penalizzata verso gli altri partner europei, poiché i nostri prodotti e servizi sarebbero stati meno competitivi. Il discorso, piuttosto, e anzi il vizio, è un altro, e cioè quello che i tassi erano progressivamente già convergenti e si sono via via determinati sin da Maastricht, e dall’evoluzione dell’ECU da moneta “virtuale” a moneta vera durante le la prima e la seconda fase dell’Unione economica monetaria, come descritte agli abrogati artt. 102 e seguenti del Trattato CE [continua ..]


4. Il principio delle competenze attribuite e le sue criticità applicative in ambito UEM

Nei paragrafi precedenti ho cercato di identificare le premesse e lo scenario normativo di fondo nel quale è stata varata la UEM. Per sintetizzare, essa è stata caratterizzata da un’imperfetta concezione dell’impianto normativo, da vizi di prospettiva iniziali, e da un’attuazione di questo impianto, ormai da moltissimi anni, in modo idoneo ad accentuare, invece che ridurre, le aporie del sistema. Ciò posto, va ribadito un caveat, già segnalato sopra: ovvio che vi siano, e continuino a esservi, profonde responsabilità politiche in questa deriva, solo in minima parte dovute alle istituzioni davvero “europee”, e cioè la Commissione e BCE, così come la Corte di Giustizia, cui accennerò in appresso. Infatti, non è un segreto che le maggiori responsabilità della debolezza del­l’Unione economica (e assai meno – come visto – monetaria) dipendano dagli Stati membri [18]: per quel che riguarda l’Italia, è evidente quanto criticabile l’in­capacità – ad oggi cronica, e speriamo non definitivamente cronicizzata – di approfittare della UEM e dell’euro, e del conseguente abbassamento significativo dei tassi di interesse sul debito, per fare riforme da lungo tempo necessarie, e tuttora attese. Anzi, in questi ultimi anni si assiste a una situazione di progressivo deterioramento del nostro quadro politico-costituzionale, e di governance. Ma anche a questo riguardo, non è certo oggetto del presente lavoro quello di soffermarmi su questi argomenti [19]. Dobbiamo invece tornare ai temi del presente lavoro, e segnatamente a questa difficile analisi giuridica dell’economia, cercando di capire meglio, dal­l’ottica dei principi e delle regole, perché il sistema è debole. La debolezza deriva dall’enfasi di alcuni principi a discapito di altri: il principio delle competenze attribuite, come vedremo cruciale per la UEM, si è notevolmente imposto rispetto ad altri principi e valori, pur altrettanto importanti, come quelli della coesione e della solidarietà [20], a tacere della leale cooperazione. In questo ovviamente, e come osservavo poc’anzi, la responsabilità grava sugli Stati, non certo sull’Unione. È importante sottolineare questo aspetto, e questa responsabilità: lo scetticismo che pervade, [continua ..]


5. La Corte di Giustizia e l’Unione economica: qualche errore (forzato), e molta Realpolitik

La conferma di quanto appena osservato, a mio avviso, si trova nell’analisi della giurisprudenza, passo obbligato dal quale noi giuristi, tanto più giuristi europei, non possiamo prescindere. Dalla sentenza sul Patto di stabilità [24], alla Pringle [25], ma anche alle cause Mallis [26], Ledra Advertising [27], Dowling [28], Kotnik [29], appaiono abbastanza evidenti i limiti del sindacato giurisprudenziale della Corte, pur sul presupposto di un doveroso rispetto del principio della rule of law [30]. Il motivo è semplice: rispetto alla stretta applicazione delle norme di diritto UE, troppo ampia appare la sfera della “discrezionalità politica” nelle scelte di politica economica: e in effetti, di esse si è trattato in tutti i casi sopra menzionati, nei quali la Corte è stata (forse anche suo malgrado) chiamata ad occuparsi di delicatissimi aspetti patologici dell’Unione economica e monetaria… in its making. Gli esiti di questa giurisprudenza, che pur hanno destato qualche critica, a mio avviso sono criticabili solo nella misura in cui non sono stati in grado di forzare il sistema. Talora, infatti, non si sono voluti inchiodare gli Stati membri alle proprie responsabilità: è il caso della sentenza Patto di stabilità, nel quale forse la Corte avrebbe potuto cogliere l’occasione per lanciare un monito forte agli Stati membri – in un senso o nell’altro – sulle conseguenze di una gestione tutta “politica” di quella decisione [31]; ma qui, forse, alla Corte non si potevano chiedere doti di preveggenza di quanto sarebbe successo pochi anni dopo. Ad ogni modo, il self restraint della Corte rispetto alla potenzialità di un’inter­pre­tazione evolutiva dei principi di diritto UE sembra oggi assumere una valenza non circoscritta all’ambito dell’UEM [32]. L’altro motivo di insoddisfazione, forse più tecnico, deriva dal fatto che, in altri casi, sono prevalse, come ho già scritto in passato [33], esigenze di Realpolitik, o forse di cd. Ohnmacht des Rechts, il cui superamento avrebbe probabilmente contribuito a dare un impulso davvero forte nel senso di provare a ricondurre a coerenza il sistema [34]. Due esempi su tutti mi paiono utili: in primo luogo, [continua ..]


6. Sagacia giuridica e riaffermazione dei fondamenti normativi su cui si basa l’Unione nella giurisprudenza della Corte sulla politica monetaria

Se sulla politica economica la Corte affronta sfide epocali per la sopravvivenza dell’Unione con un approccio da Realpolitik, altrettanto coraggio, ma ben maggiore persuasività del ragionamento logico-giuridico, essa dimostra nell’altra fondamentale metà del campo di battaglia in cui è chiamata a fare da arbitro, quella cioè della politica monetaria. Si tratta, com’è noto, delle due sentenze Gauweiler [42] e Weiss [43], nelle quali, incalzata dal Giudice costituzionale tedesco, la Corte si trova rispettivamente a sindacare la compatibilità col mandato assegnato dai Trattati alla BCE delle misure OMT [44], ovvero del PSPP (Public Sector Purchase Programme [45]), alias quantatiative easing. In ambedue le sentenze la Corte non solo esclude che le misure adottate dalla BCE esulino dal mandato conferito alla BCE stessa, ma le ritiene conformi sia allo Statuto della BCE, in particolare con l’art. 18 [46], sia ai trattati. E sotto il profilo da ultimo indicato, la conformità vale (a) tanto dal punto di vista delle competenze sostanziali (artt. 119, par. 2 e 127, par. 1 TFUE) [47], con conseguente pieno rispetto dell’obiettivo del SEBC di garantire la stabilità dei prezzi e, per suo tramite, il sostegno delle politiche economiche generali nel­l’Unione [48], (b) quanto da quello strutturale, e cioè il rispetto dell’art. 5, par. 4 TUE e del principio di proporzionalità [49]. Muovendo da quest’ultimo punto, a mio avviso in Gauweiler il cuore del ragionamento impostato dalla Corte per sancire la legittimità delle misure OMT si fonda anche su un ulteriore principio fondante la rule of law unionale, e cioè quello della leale cooperazione. Con conseguente sindacato giurisdizionale “debole” su questioni altamente tecniche, come appunto sono le decisio­ni di politica monetaria, che sussiste solo nel caso di «manifesto errore di va­lutazione» [50]. In tal senso, tra l’altro, salvaguardando anche un caposaldo che pur dovrebbe trovare apprezzamento ad alcune latitudini, di cui diremo, che è quello dell’indipendenza della BCE rispetto alle istituzioni “politiche” o peggio agli Stati. Com’è noto, è appunto questo lo strumento con cui, in [continua ..]


7. Spill-over di politica economica nelle misure di politica monetaria: il principio dei vasi comunicanti applicato al diritto (UE e non-UE)

Nella prospettiva ora indicata, entra tuttavia in gioco un principio, che non appartiene al mondo del diritto, bensì della fisica, e cioè quello dei vasi comunicanti: è ovvio che le misure di politica monetaria aumentano il proprio effetto riflesso sulla politica economica nell’Unione, quando quest’ultima latita, o è osteggiata da alcuni (gruppi politici in seno ai singoli) Stati membri, ivi inclusi, in modo strumentale se non fosse ben più gravemente autolesionista, alcuni partiti e movimenti politici interni agli stessi Stati membri che pur beneficiano di queste misure, tra cui in particolare l’Italia. Ciò posto, sempre nell’ottica di fare chiarezza su “istituzioni dell’Europa” e “Stati membri”, questo effetto dei vasi comunicanti non è affatto voluto dalla BCE, i cui vertici, da anni, ricordano infatti proprio a questi ultimi che la politica mo­netaria da sola non basta, e occorrono serie misure di politica economica: non solo riforme interne ai singoli Paesi, ma anche interventi di respiro europeo. E al riguardo, in definitiva, poco importa se a volte questo richiamo sia fatto in modo un po’ scomposto, come è capitato a Christine Lagarde nella famigerata gaffe in occasione della conferenza stampa dell’11 marzo 2020 [52], poi però prontamente rimediata con azioni ben più incisive come il PEPP varato il 26 marzo [53]. Dall’angolo visuale delle misure di stampo europeo, obiettivamente negli ultimi tempi la sensazione che qualcosa si muova parrebbe piuttosto netta, quanto meno a livello del segnale che, nei limiti del già citato principio delle competenze attribuite, è stato dato dalle istituzioni europee. Non è certo possibile in questa sede dilungarsi al riguardo, ma grazie (o meglio a causa) della pandemia del coronavirus, l’Europa ha varato in poche settimane iniziative idonee a far capire che le speranze di un rinnovato vigore di UEM non sono perse: parliamo non tanto del rilassamento delle norme sugli aiuti di Stato [54], o della sospensione del patto di stabilità [55], quanto del SURE [56], dei fondi messi a disposizione dalla BEI, del MES riletto in chiave “sanitaria”, della già citata Recovery Initiative [57], e, da ultimo, e soprattutto, del citato progetto Next Generation EU [58]. Misure [continua ..]


8. Considerazioni conclusive anche alla luce della pronuncia del BVerfG del 5 maggio 2020

In questo contesto, è piuttosto logico immaginare che all’inazione dell’uno corrisponda la reazione dell’altro. E vengo a concludere con due osservazioni minimali sull’autodefinita «irritante» sentenza del BVG del 5 maggio 2020 [62]. Ormai si è detto e già scritto molto su questo ennesimo urtikant-Urteil – mi sia consentita la licenza poetica – della Corte tedesca, e direi unanimemente in senso critico [63]. Per limitarmi davvero all’indispensabile, vorrei telegraficamente sintetizzare in pillole il mio pensiero sulla pronuncia. In primo luogo, mi pare di poter dire nihil novum sub soli: la sentenza si pone in continuità con una giurisprudenza del BVerfG che dal Maastricht [64]e soprattutto dal Lissabon-Urteil [65] ha fissato paletti di ordine costituzionale allo Stato tedesco sempre più stringenti, e di cui ci si è accorti, quanto meno fuori dalla Germania, soltanto quando la Corte ha rinviato per la prima volta ai Giudici di Lussemburgo nel caso Gauweiler. In secondo luogo, ha ragione da vendere chi scrive che siamo ormai al di fuori del famoso dialogo tra Corti [66]: l’assertività e, con tutto il rispetto, ormai vera e propria arroganza del BVG travalicano il principio di leale cooperazione e costituiscono un pessimo precedente contrario all’ordine che deve necessariamente sussistere nel delicato “rapporto tra ordinamenti” [67]. Tanto più viste le crescenti complessità e difficoltà in cui si dibatte un’Unione che segna il passo rispetto all’obiettivo della famosa «unione sempre più stretta fra i popoli europei» [68], una simile entrata a gamba tesa appare davvero – essa sì – una condotta ultra vires [69], di cui proprio non si sentiva il bisogno. In terzo luogo, la sentenza è sbagliata anche nel merito, sotto vari profili: da un lato, perché la questione era stata definitivamente chiusa da Weiss, ai sensi degli artt. 19, par. 1 TUE e 267 TFUE; e al riguardo, avendo più spazio sarebbe stimolante interrogarsi se, col monopolio dell’interpretazione del diritto dato alla Corte di Giustizia, sia possibile anche erodere il principio delle competenze attribuite, visto che tale monopolio mette in discussione l’esistenza di [continua ..]


NOTE