Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Degli effetti giuridici della soft law (di Giuseppe Morbidelli )


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SOMMARIO:

1. - NOTE


1.

Il fenomeno della soft law è noto e studiato da tempo. Come si sa il termine nasce nel diritto internazionale per indicare una panoplia di atti non tipizzati e non riconducibili entro le tradizionali fonti del diritto (denominati, ad es., dichiarazioni di principi, raccomandazioni, risoluzioni, carte, codici di condotta, linee guida, programmi d’azione, ecc.), ed ha avuto una serrata consolidazione ed anzi un florilegio di manifestazioni nel diritto europeo, tanto che se ne sono dovute individuare tre subcategorie: la pre law (strumenti preparatori di atti giuridici vincolanti quali Libri bianchi, Libri verdi, piani di azione); la post law (strumenti di interpretazione di atti vincolanti, come linee guida, codici di condotta, comunicazioni interpretative, direttive); la para law (strumenti alternativi ad atti vincolanti quali dichiarazioni, raccomandazioni, pareri). Le forme di soft law si stanno altresì diffondendo a livello nazionale e regionale, sia in via diretta sia in via indiretta, ovvero attraverso il rinvio che la stessa normativa interna fa a strumenti europei di soft law.

Gli atti di soft law nascono da una serie di ragioni, talvolta compresenti: perché non si ritiene di vincolarsi del tutto, ma nel contempo si ritiene opportuno sperimentare talune linee di condotta; perché si vuol dar corso in via graduata ad un processo di armonizzazione e di coordinamento; perché non si hanno i poteri per porre regole vincolanti; perché si intende dar luogo ad una soluzione di compromesso tra i fautori dell’hard law e fautori della conservazione dello status quo (questo vale specialmente a livello di organismi internazionali, ma può essere anche il risultato di una valutazione da parte di qualunque autorità titolare di potestà normativa). Talvolta invece la soft law viene preferita perché segue procedure più rapide e più praticabili, e di rimando è più agevolmente modificabile. Ed altre ragioni ancora, tra cui quella di dare orientamenti ed indirizzi senza ricorrere agli strumenti tipici rappresentati dalle fonti del diritto, anche perché appunto si preferisce dare suggerimenti o indicazioni, e non porre regole tassative, in considerazione del fatto che in determinate materie o con riguardo a specifici comportamenti da tenere è opportuno procedere con indicazioni di massima o di solo metodo.

Fatto sta che l’“erompere” della soft law al di fuori dei rapporti tra Stati, cioè al di fuori dei rapporti politici, ha dato il là ad una querelle in ordine  agli effetti e dunque agli obblighi che tali atti producono. Vi sono comunque dei punti fermi: a) la soft law consiste in regole di condotta prive di coercibilità in senso tradizionale; b) non è ascrivibile tra le fonti del diritto; c) tali regole possono tuttavia produrre effetti pratici. Effetti che si traducono anzitutto in una “influenza” verso i destinatari, tanto che in un rapporto di studi del Conseil d’État del 2013 dedicato a Le droit souple leggiamo: “il y a identité de fonction entre le droit dur et le droit soupleTous deux ont pour objet d’influencer le comportament de leur destinataire.

Ma l’effetto pratico è anche giuridicamente rilevante? Vi sono cioè anche effetti giuridici? La prima cosa da osservare è che la risposta non può essere univoca, tante e tanto variegate sono le manifestazioni della soft law, ad ognuna delle quali corrispondono effetti diversi: in fondo la soft law non è una categoria, e anzi proprio la reductio ad unitatem attraverso cui di solito viene presentata è la causa di incertezze e divergenze, specie con riguardo agli effetti degli atti riconducibili a tale (ipotizzata) categoria. Si impone pertanto una delimitazione del campo di indagine, onde circoscriverlo a quella subcategoria (o più propriamente categoria autonoma), in genere ascritta entro le etichette “post law” o anche “para law” o meglio, tralasciando le etichette, a quegli atti, variamente denominati (circolari, orientamenti, indicazioni, direttive, raccomandazioni, linee guida, ecc., ovvero le c.d. tertiary rules) che hanno la funzione di dare indicazioni operative, sia in punto di interpretazione della hard law, sia in punto di specificazione ed esemplificazione di concetti indeterminati, sia in punto di contenuti specifici di azione (si pensi ad es. alle linee guida del Ministero della salute per la preparazione delle conserve alimentari per evitare il botulismo; o a quelle del Ministero del lavoro per la protezione dei lavoratori nel comparto trasporto su strada). Del resto è soprattutto con riguardo a tale categoria di atti che si pone il problema degli effetti. Ancora una volta, però, è indispensabile procedere a distinzioni, basate sul rapporto tra le istituzioni che emanano atti di soft law e i destinatari.

Una prima ipotesi è quella delle circolari. Esse hanno il noto effetto di autovincolo per l’amministrazione che le emana e per tutto l’apparato organizzativo da essa dipendente, sicché l’eventuale inosservanza si traduce in un vizio di eccesso di potere. In realtà questo è il portato del principio di autolimitazione, talché non è nemmeno necessario evocare la soft law (ed infatti tale conseguenza era stata ben individuata ben prima che emergesse quest’ultima nozione: basti pensare alla nota di F. CAMMEO, La violazione delle circolari come vizio di eccesso di potere, in Giur. it., 1912, III, p. 107). Esse comunque non hanno come destinatari i privati, nei confronti dei quali pertanto non determinano effetti giuridici diretti, ma solo riflessi, attesa la illegittimità dei provvedimenti non coerenti con le circolari.

Una seconda ipotesi è quella degli orientamenti, raccomandazioni, linee guida, dichiarazioni di principio, ma anche risposte a quesiti, ecc. dettati da una amministrazione per tutti i consociati interessati alla materia rientrante tra i compiti dell’amministrazione stessa. Le conseguenze prodotte sono  che la loro inosservanza costituisce a carico dell’amministrazione una violazione della autolimitazione (così come per le circolari), ma anche un vulnus al principio di tutela dell’affidamento (come già aveva rilevato tanti anni fa F. MERUSI a proposito delle “informazioni” amministrative); mentre gli amministrati, per quanto non vincolati giuridicamente, hanno l’effetto positivo di conoscere i criteri e gli indirizzi interpretativi od operativi dell’amministrazione onde regolarsi di conseguenza. Laddove invece le linee guida (ad es. quelle già ricordate per la protezione dei lavoratori nel comparto trasporto su strada, o quelle per la gestione della sicurezza delle infrastrutture stradali) dettino regole di comportamento (non dunque criteri interpretativi di norme o regolamenti), esse costituiscono canoni oggettivi da seguire da parte degli operatori del settore, la cui inosservanza costituisce di per se elemento rivelatore di negligenza, mentre la perfetta osservanza, di contro, costituisce dato dirimente dell’assenza di colpa. Sicché, mentre gli orientamenti che si limitano a dettare criteri interpretativi della hard law hanno effetti giuridici diretti solo nei confronti dell’amministra­zione emanante e indirettamente per i privati interessati, quelli che prescrivono comportamenti hanno effetti giuridici diretti anche per i privati, contribuendo a determinare o ad elidere la responsabilità.

La terza ipotesi è invece quella di atti di soft law come linee guida, istruzioni, direttive, ecc., che si inseriscono all’interno di un settore soggetto a regolazione. Si tratta anzi di un campo di elezione della soft lawBanca d’Italia, CONSOB, IVASS, Garante protezione dati personali, ANAC (e prima AVCP), AGcomAEEGSI, si avvalgono di continuo di comunicazioni interpretative, chiarimenti applicativi, risposte a quesiti, istruzioni, dichiarazioni, linee guida. La presenza di autorità di regolazione, infatti, determina di per sé un rapporto organizzativo che del resto ha plurime declinazioni ove si pensi a tutti i poteri di vigilanza, di controllo, di mediazione e conciliazione, di autorizzazione, di consulenza, di segnalazione, ecc., di cui tali Autorità dispongono. Dalla presenza del rapporto organizzativo non possono non derivare effetti giuridici diretti nei confronti dei soggetti inseriti in tale rapporto. Da tenere presente che gli atti in questione delle autorità di regolazione hanno per lo più lo scopo di dare un contenuto determinato, o meglio quanto più determinato possibile, ai concetti indeterminati che costellano (e incombono su) l’attività dei regolati: si pensi solo alla decifrazione in concreto del concetto di sana e prudente gestione (di cui all’art. 5 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” e all’art. 3 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, “Codice delle assicurazioni private”), o a quelle di efficienza e di competitività del sistema finanziario (v. ancora art. 5 del d.lgs. n. 385/1993). Qui sta forse il tratto maggiormente tipico della categoria. Si consideri infatti che a livello di hard law non è possibile enucleare tutte le varie fattispecie in cui si invera (o si contraddice) la sana e prudente gestione, non solo per le tante sfaccettature che essa può assumere, ma anche perché v’è l’esigenza di far sì che vi sia un continuo adeguamento alle evoluzioni tecnologiche, sociali, economiche in perenne divenire, adeguamenti che verrebbero per di più compromessi alla presenza di regole rigide: si pensi alle tematiche delle information technology nel settore bancario, la cui dinamica pone ogni giorno nuovi problemi di sicurezza e di privacy, o a quelli suscitati dai prodotti bancari “complessi” che vengono immessi sul mercato con struttura via via rinnovata, e potremmo andare avanti a lungo con esempi in tutti i vari settori sensibili soggetti a regolazione. In fondo, è la stessa ragione che sta alla base dei poteri regolamentari “indefiniti” (o comunque non determinati ex ante dalla legge nei loro contorni e limiti) delle autorità indipendenti, cioè quella per cui la dinamicità stessa della materia impedisce di dettare una tavola di raffrontabilità valida per ogni contingenza. Questo fa sì che orientamenti, linee guida, istruzioni, etc., siano molto diversificati anche per struttura sintattica, a seconda cioè del livello di decifrazione che si ritiene di raggiungere. Occorre cioè sempre vedere come tali atti sono formulati, o meglio, come sono formulate le singole puntuazioni. Se esse si limitano a suggerimenti o inviti, come avviene quando siano caratterizzate da formule “quando è opportuno”, “è preferibile”, ecc., non v’è dubbio che possono non essere osservate, sovrapponendo diversi (e ragionevoli) motivi di opportunità, tanto più percorribili quanto più siano mirate ad obiettivi (es. contenimenti di spesa, apertura alla concorrenza) che a specifici atti o a procedure da seguire o requisiti o presupposti da possedere. Qualora invece tali atti siano puntuali e categorici nel dettare “regole dell’arte” espunte dalle migliori pratiche, non lasciando alcun margine valutativo, allora la piena osservanza si impone di per sé non in virtù di forza normativa, ma per il principio di soggezione al regolatore (così come avviene per l’ordine all’interno del rapporto gerarchico) competente a indicare le regole tecniche, salvo ancora che non si dimostri che tali indicazioni tecniche sono contra legem, o che siano inidonee e dunque non adattabili al caso concreto poiché la norma tecnica, portata a confrontarsi con le  specifiche circostanze di fatto, non è detto che non perda le originarie connotazioni di validità generale o di probabilità statistica, proprie della razionalità scientifica. Se invece le istruzioni o linee guida, ecc. costituiscono esplicazioni interpretative della legge, o nella parte in cui hanno tale configurazione, allora hanno l’efficacia persuasiva delle circolari interpretative. Opera cioè il principio già messo in luce da tempo con riguardo alla circolari del CSM: quando non si limitino alla mera riproduzione di atti già dotati di una loro propria efficacia normativa, esercitano l’efficacia che è propria dei precedenti, cioè un’efficacia persuasiva che può essere sempre messa in discussione sulla base dei ragionamenti che l’hanno giustificata. 

Sicché, fermo restando che l’atto di soft law non può per definizione determinare effetti giuridici analoghi a quelli prodotti da una fonte normativa in quanto privo di coercibilità intesa in senso tradizionale, le conseguenze sul piano di quelli che vengono definiti effetti pratici sono variegate, dipendendo dal rapporto che lega i destinatari alla istituzione emanante l’atto, nonché dalla struttura e formulazione dell’atto stesso. In ogni caso sono effetti pratici che poi sono anche giuridici: del resto è tale anche l’obbligo di motivazione per discostarsene, effetto messo in luce dal Consiglio di Stato nel lumeggiare l’effet­to delle linee guida ANAC non vincolanti (v. Comm. spec. 13 settembre 2016, n. 1903, laddove leggiamo: “in relazione al comportamento da osservare da parte delle stazioni appaltanti (…) se esse intendono discostarsi da quanto disposto dall’Autorità, devono adottare un atto che contenga una adeguata e puntuale motivazione, anche a fini di trasparenza, che indichi le ragioni della diversa scelta amministrativa”). Non dissimile è in fondo la tesi di M. RAMAJOLILa soft regulation nei mercati finanziari, in questa Rivista, laddove rileva che la soft regulation è definibile come “cripto-hard”, in quanto detta vincoli molti stringenti nei confronti dei soggetti regolati. Va da sé comunque che sono effetti giuridici non di ultima istanza, perché sono sempre sottoposti ad una valutazione di coerenza con l’ordinamento, nel senso che sono sempre scrutinabili e revisionabili da un giudice (al punto che si è detto che il regolatore ultimo è il giudice: Y. GAUDEMET, La régulation économique: la dilution des normes, in Atti del Convegno su Le désordre normatif – Académie des sciences morales et politiques, 13 giugno 2016), mentre gli effetti della legge sono quelli stabiliti dalla legge stessa, e il giudice può sì interpretarla e dunque determinarne gli effetti, ma non mai mettere in discussione la legge (salvi i vizi di costituzionalità), sicché lo status degli atti di soft law sotto questo profilo è semmai accostabile alle norme secondarie soggette al controllo diffuso dei giudici, con la fondamentale differenza però che sono direttamente disapplicabili da parte dei destinatari, liberi sotto la loro responsabilità di valutarne la coerenza con l’ordinamento o di ravvisare la loro non adattabilità al caso concreto, secondo il criterio della “obbligatorietà condizionata”.

Vi è però un altro effetto della soft law, effetto paradigmatico soprattutto con riguardo alle linee guida “non vincolanti” del Codice dei contratti pubblici (ma analoghe considerazioni possono essere svolte anche per altri settori).  Si sa che i contratti pubblici sono investiti da un pesantissimo contenzioso che inevitabilmente determina rallentamenti quando non lunghissime soste forzate, o addirittura desistenze nella realizzazione delle infrastrutture, o nell’appre­stamento dei servizi, o comunque continue situazioni di incertezza (al punto che da taluni si è detto che una delle cause di freno dello sviluppo economico sarebbe dovuto al giudice amministrativo). Aggiungasi che il rischio del contenzioso opera anche ex ante, nel senso che frena la fase programmatoria dei contratti pubblici. Inoltre i pubblici amministratori sono sotto l’incombenza di iniziative penali o della Corte dei Conti stante l’alto tasso di variabili interpretative che pervade la materia, come confermato per fatto concludente dai numerosi interventi della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, tra l’altro a loro volta non sempre omogenei, basti pensare alla questione dei costi di sicurezza. È evidente allora che la osservanza delle linee guida costituisce una scudo di protezione verso la responsabilità di ordine personale. Sicché le linee guida sortiscono gli stessi effetti, da un lato, di autorevolissima guida, e dal­l’altro di “garanzia amministrativa” dei “tempi nostri”.

Per queste ragioni è ragionevole parlare di effetti “esistenziali” e nel contempo definire gli atti di soft law “indirizzi esistenziali”, riprendendo la terminologia introdotta da Lavagna e Guarino per determinare a proposito dell’indiriz­zo politico la sua primaria rilevanza in termini di risultati. Cosicché si può dire che la soft law, nella sua formulazione post law e anche para law, soprattutto se elaborata attraverso la tecnica del notice and comment, e dunque passata attraverso un vaglio critico e una istruttoria con i principali stakeholderscostituisce una tecnica per contribuire a dare certezza agli operatori.

La conclusione da trarre è allora la seguente: a fronte del disvalore rappresentato dalla incertezza del diritto cui non può porre rimedio che in casi rarissimi la interpretazione autentica, mentre la giurisprudenza, quando non concorre anch’essa all’incertezza, è comunque una risposta non tempestiva, la soft law, ove provenga da soggetti dotati di autorevolezza, a mo’ di ossimoro, è un non diritto che concorre alla certezza del diritto.


NOTE

[1] Professore ordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Fascicolo 2 - 2016