Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

L'Agenda Europea per la c.d. economia collaborativa (di Antonio Dell’Atti)


COM(2016) 356 final. Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Un’agenda europea per l’economia collaborativa

«L’economia collaborativa crea nuove opportunità per i consumatori e gli imprenditori. La Commissione ritiene quindi che possa dare un contributo importante alla crescita e all’occupazione nell’Unione europea, se promossa e sviluppata in modo responsabile. L’innovazione ha stimolato lo sviluppo di nuovi modelli imprenditoriali che hanno la potenzialità di contribuire in modo significativo alla competitività e alla crescita. Il successo delle piattaforme di collaborazione a volte rappresenta una sfida per gli attuali operatori del mercato e per le pratiche esistenti, ma dando ai singoli cittadini l’opportunità di offrire servizi tali piattaforme promuovono anche nuove opportunità di occupazione, flessibilità e nuove fonti di reddito. Per i consumatori i vantaggi dell’economia collaborativa sono l’accesso a nuovi servizi, a un’offerta più ampia e a prezzi più bassi. Essa può inoltre incoraggiare la condivisione e l’uso più efficiente delle risorse, contribuendo in questo modo al programma di sostenibilità dell’UE e alla transizione verso l’economia circolare.

Allo stesso tempo, l’economia collaborativa spesso solleva questioni relative all’appli­cazione del quadro normativo vigente, dal momento che rende meno nette le distinzioni tra consumatore e prestatore di servizi, lavoratore subordinato e autonomo, o la prestazione di servizi a titolo professionale e non professionale. Ciò può causare incertezza sulle norme applicabili, specie se si unisce alla frammentazione normativa derivante da approcci normativi divergenti a livello nazionale o locale e ciò, a sua volta, ostacola lo sviluppo dell’economia collaborativa in Europa e impedisce la piena realizzazione dei benefici che essa comporta. Allo stesso tempo esiste il rischio che si sfruttino le “zone grigie” normative per aggirare le norme intese a tutelare l’interesse pubblico.

Il settore dell’economia collaborativa è ancora piccolo ma sta crescendo rapidamente, guadagnando quote di mercato importanti in alcuni settori. I ricavi totali lordi nell’UE di piattaforme e prestatori di servizi di collaborazione sono stati stimati a 28 miliardi di EUR nel 2015. Rispetto all’anno precedente i ricavi nell’UE di cinque settori chiave sono quasi raddoppiati e si prevede che continueranno stabilmente a crescere. Si registra fin dal 2013 una forte crescita che ha subito una ulteriore accelerazione nel 2015, grazie ai notevoli investimenti di grandi piattaforme che hanno ampliato la loro attività in Europa. Alcuni esperti stimano che in futuro l’economia collaborativa potrebbe apportare all’economia dell’UE da 160 a 572 miliardi di EUR di ulteriore giro d’affari. Le nuove imprese dispongono quindi di un enorme potenziale di conquista di mercati in rapida crescita. L’interesse dei consumatori in effetti è forte, come confermato da una consultazione pubblica e da un sondaggio Eurobarometro. Lo scopo della presente comunicazione è agevolare la piena fruizione di questi vantaggi e rispondere alle preoccupazioni circa l’incertezza sui diritti e sugli obblighi di coloro che partecipano all’economia collaborativa. Essa fornisce orientamenti giuridici e strategici per le autorità pubbliche, gli operatori di mercato e i cittadini interessati, ai fini di uno sviluppo equilibrato e sostenibile dell’economia collaborativa, come annunciato nella strategia per il mercato unico. Tali orientamenti non vincolanti su come il diritto vigente dell’UE dovrebbe essere applicato all’economia collaborativa trattano questioni fondamentali che interessano sia gli operatori del mercato che le autorità pubbliche, lasciando impregiudicate le iniziative che la Commissione potrebbe adottare in questo settore in futuro e le prerogative della Corte di giustizia in merito all’interpretazione del diritto dell’UE».

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SOMMARIO:

Un'introduzione - 1. Economia collaborativa ed innovazione tecnologica - 2. Gli obiettivi dell'agenda europea in tema di economia collaborativa - 3. Economia collaborativa e requisiti di accesso al mercato: il prestatore di servizi professionali, il peer-to-peer e la piattaforma di collaborazione - 4. Il regime di accountability dei gestori delle piattaforme di collaborazione - 5. La tutela degli utenti - 6. La distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati nell'eco­nomia collaborativa - 7. Il trattamento fiscale delle attività dell'economia collaborativa - 8. Conclusioni - NOTE


Un'introduzione

La lettura demitizzata [1] della comunicazione della Commissione europea dello scorso 2 giugno 2016 [2], ci pone, da subito, dinanzi al problema della individuazione del campo di ricerca ed analisi cui soffermare l’attenzione e la riflessione giuridica.

Ed il termine “economia collaborativa” pare, ad una analisi probabilmente formale ma significativa, inadeguato ed inadatto poiché incapace di descrivere un fenomeno che ha in ben altre qualità i propri tratti caratterizzanti.

Collaborare, d’altro canto, nella sua accezione letterale (composto di con– laborare), è verbo che ben si adatta prevalentemente ai modelli economici tradizionali se è vero, come è vero, che la collaborazione è elemento che qualifica sia l’attività dell’imprenditore (ovvero, nel diritto europeo, dell’impresa) sia quella del lavoratore subordinato.

Dell’imprenditore il quale organizza l’azienda e, quindi, anche le risorse umane, lavorando con esse al fine della produzione di beni e servizi. Del lavoratore subordinato, il quale, per comune esperienza prima ancora che per previsione codicistica, si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare (significativo il dato letterale contenuto nell’art. 2094 c.c.) nell’impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione del­l’imprenditore.

La collaborazione è, dunque, una caratteristica endemica dell’economia tradizionale e, soprattutto, è l’oggetto di valorizzazione della regolazione che quell’economia regola e disciplina. Ed anzi, è proprio il riconoscimento della collaborazione sociale quale interesse meritevole di tutela da parte dell’ordina­mento che giustifica tutto un impianto regolatorio che fonda principi, normative e regolamenti sulla tutela di buona fede, correttezza e legittimo affidamento.

E, sicuramente, l’attività di intermediazione per la messa in contatto di detti interessi meritevoli di tutela (situazioni giuridiche soggettive autonome) si colloca nella catena causale del rapporto giuridico, collaborando anch’essa nella formazione del circuito economico (domanda ed offerta di beni e servizi).

Senza un meccanismo di tutela di buona fede, correttezza e legittimo affidamento nei vari stadi e gradi dei rapporti economico-sociali, prima ancora che giuridici, la collaborazione potrebbe non esser perseguita ed un’economia non collaborativa potrebbe condurre al fallimento dell’economia (non solo di un mercato) ed al fallimento del diritto nella misura in cui lo Stato non riesca ad adempiere al dovere di solidarietà economica.

Ci si chiede, dunque, se sia questo il tema affrontato dalla Commissione europea con la comunicazione oggetto di commento e se i termini di analisi, in quella sede proposti, siano corretti [3].

In questo contesto, è sicuramente apprezzabile l’approccio del regolatore europeo lì dove – pur tentando di definire un fenomeno con termini, per quanto detto, probabilmente non appropriati – si propone di fornire dei riferimenti interpretativi di massima e delle linee di indirizzo in ordine alle modalità applicative del diritto, si badi bene, già esistente in un contesto sociale di forte conflittualità tra operatori della c.d. economia collaborativa (o, per meglio individuarla, delle piattaforme digitali) ed i prestatori di servizio nei mercati cc.dd. tradizionali [4] e soprattutto in ambiti di regolazione spesso caratterizzati dalla presenza di regimi di riserva di attività nell’ottica della tutela di uno, ovvero più, interessi generali (salute, sicurezza, stabilità economica, ecc.).


1. Economia collaborativa ed innovazione tecnologica

Se la collaborazione tra individui che, a qualsiasi titolo, operano nel settore della c.d. economia collaborativa, non può dirsi elemento capace di descrivere detto fenomeno, al fine di distinguerlo dall’economia tradizionale, v’è da chiedersi quale sia detto elemento, anche per meglio interpretare ed intercettare le linee di interesse regolatorio.

Occorre, dunque, un approccio descrittivo, che tenga conto delle fattispecie oggetto di attenzione, al fine di catturare i tratti caratterizzanti fenomeni quali l’economia collaborativa, il consumo collaborativo, la sharing economy, l’eco­nomia peer-to-peer o l’economia on demand [5].

Guardando al dato empirico, è opinione condivisa [6] che le economie della collaborazione variamente intese descrivano quei fenomeni di ampliamento di mercati esistenti (c.d. tradizionali) e, in determinati casi, di creazione di nuovi mercati, attraverso lo sfruttamento di strumenti tecnologici innovativi capaci di ridurre, se non abbattere, i costi di intermediazione [7].

Detti “strumenti tecnologici” sono quelli che la Commissione europea chiama “piattaforme della collaborazione”, ossia piattaforme digitali [8] che sfruttano software intelligenti ed algoritmi per fornire beni e servizi spesso in concorrenza con quelli offerti nell’economia tradizionale.

Il tema, dunque, è tutt’altro che nuovo.

Riguarda il rapporto tra diritto e tecnica e di come il primo insegua, costantemente, la regolazione della seconda [9]. Così il diritto si pone in un anacronismo sistemico rispetto alla tecnica in un circolo vizioso che riconsegna una regolazione perennemente in affanno.

La tecnica delle piattaforme della collaborazione, tuttavia, impone riflessioni attente rispetto a concetti giuridici consolidati, quali, per citarne solo alcuni, il tema del controllo della capacità di intendere e volere dei soggetti partecipanti a transazioni su dette piattaforme, quello del trattamento dei big data personali riversati dagli stessi partecipanti spesso inconsapevolmente, quello delle garanzie patrimoniali necessarie per sostenere un efficace sistema di accountability dei gestori delle piattaforme e, più in generale, la necessità di “far incontrare” gli attori dell’economia delle piattaforme con il regolatore, anche attraverso meccanismi di soft law che prevedano meri obblighi di registrazione.

Ed allora, se da un lato deve condividersi l’entusiasmo con cui la Commissione europea si mette alla prova nella individuazione dei riferimenti normativi da applicare alle piattaforme della collaborazione, dall’altro, ci si deve interrogare sulla opportunità di produrre nuova regolamentazione per un fenomeno che, in fondo, di nuovo probabilmente ha solo, giustappunto, l’avanzamento tecnologico [10] e, in caso di risposta affermativa, quali e quanti strumenti di regolazione utilizzare per raggiungere gli obiettivi di volta in volta prefissati.


2. Gli obiettivi dell'agenda europea in tema di economia collaborativa

La comunicazione si inserisce in un più ampio progetto di riforma, volto, per quanto accennato, ad un’armonizzazione a livello europeo delle normative in tema di collaborative economy e, più in particolare, nel quadro della strategia sul mercato unico, adottata nell’ottobre 2015 [11], e della strategia sul mercato digitale, del maggio precedente.

Con detta iniziativa, cui si accompagna un’analisi di supporto [12], la Commissione riconosce all’economia collaborativa un ruolo di impulso della crescita dell’Unione Europea, quale motore di nuove opportunità di impiego di risorse economiche ed umane, con possibilità di lavoro più flessibili ed un uso di beni e servizi più efficiente nell’ottica della creazione ovvero rafforzamento di un’economia definita circolare. Il giudizio della Commissione è, dunque, tutto orientato verso la valorizzazione degli aspetti innovativi del fenomeno, non essendovi accenno alcuno a problemi quali le esternalità negative che lo stesso potrebbe produrre, nonché il rischio costante di elusione della normativa (non solo nazionale) posta a presidio di interessi generali e la tendenza di detto fenomeno – soprattutto nella sua versione peer-to-peer – di spostare il “rischio di impresa” dal gestore della piattaforma agli utenti “pari”.

Invero, l’attenzione del legislatore europeo verso detta tipologia di impresa pare esser stato stimolato dagli importanti redditi che l’economia delle piattaforme digitali si stima abbia generato negli ultimi anni [13].

In un contesto di continua e consistente crescita di un fenomeno economico (ovvero tecnologico) non specificatamente regolato, la comunicazione della Commissione europea si pone, dunque, l’obiettivo di fornire un orientamento politico alle autorità pubbliche nazionali, agli operatori del mercato di riferimento ed agli stessi cittadini interessati, al fine di sorreggere uno sviluppo equilibrato, sostenibile e responsabile della collaborative economy.

Inoltre, con l’iniziativa in questione, la Commissione ha inteso fornire un quadro giuridico di riferimento comune europeo in risposta alle iniziative dei legislatori nazionali degli ultimi mesi [14]. La economia collaborativa, nell’ottica della Commissione, è tema che deve essere affrontato avendo quale punto di riferimento un quadro comune tra gli Stati membri al fine di non ostacolare l’innovazione, la creazione di posti di lavoro e la crescita.

Proprio a tal fine, nella predetta comunicazione è dato leggere che si debba «incoraggiare un contesto normativo che permetta ai nuovi modelli imprenditoriali di svilupparsi proteggendo i consumatori e garantendo condizioni eque sia in materia fiscale che di occupazione».

Le poche criticità rilevate dalla Commissione europea attengono alla circostanza che il fenomeno della collaborative economy renda meno nette le distinzioni tra categorie tipiche del diritto contrattuale, come quelle di consumatore e prestatore di servizi, lavoratore subordinato ed autonomo, o di prestazione di servizi a titolo professionale e non professionale [15]. Tanto potrebbe condurre, da un lato, ad una incertezza sulle norme applicabili e, dall’altro, al rischio di sfruttamento di “zone grigie” normative, per aggirare le norme volte alla tutela dell’interesse pubblico. Insomma, il problema sarebbe unicamente di individuare delle categorie giuridiche “certe” per sussumerle nella cornice regolamentare adeguata.

La comunicazione, di poi, dopo aver individuato una nozione di economia collaborativa, si interroga sulla legittimità di normative che prevedano requisiti di accesso al mercato, sul regime di responsabilità applicabile ai gestori delle piattaforme della collaborazione, sui meccanismi di tutela degli utenti finali, sulla distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati nell’ambito di detto settore e sul regime fiscale da applicare a dette attività.


3. Economia collaborativa e requisiti di accesso al mercato: il prestatore di servizi professionali, il peer-to-peer e la piattaforma di collaborazione

La Commissione, nel descrivere le caratteristiche tipiche dell’economia collaborativa, evidenzia come le imprese che operano in detto settore creino dei veri e propri nuovi mercati, ove non si inseriscano in mercati serviti da prestatori di servizi tradizionali. In questo contesto, questione fondamentale per il regolatore europeo e gli operatori di mercato è comprendere se e, in caso di risposta affermativa, in quale misura, le piattaforme di collaborazione ed i prestatori di servizi dell’economia collaborativa possano essere soggetti a requisiti di accesso al mercato [16] nell’ottica della tutela dell’interesse generale. Il motivo di detto interrogativo, esplicitato nell’analisi di supporto, consiste nella necessità di armonizzare legislazioni nazionali ed orientamenti giurisprudenziali non sempre coerenti tra gli Stati membri, anche al fine di evitare fenomeni di arbitraggio regolatorio.

A tal scopo, il regolatore europeo individua i principi di massima da applicarsi in materia distinguendo tra i prestatori di servizi a titolo professionale, i prestatori di servizi “tra pari” e le piattaforme di collaborazione.

Con riferimento ai prestatori di servizi a titolo professionale, il parametro legislativo di riferimento viene individuato nella c.d. Direttiva Servizi (direttiva 2006/123/CE, c.d. Direttiva Bolkestein[17], che – in tema di requisiti di accesso – prevede che gli Stati membri possano prevedere un regime di autorizzazione soltanto a determinate condizioni, nonché negli artt. 49 e 56 del TFUE, rispettivamente in tema di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi.

In particolare, l’eventuale regime di autorizzazione deve essere non discriminatorio nei confronti del prestatore di servizi [18], giustificato da un motivo imperativo di interesse generale [19] e proporzionale rispetto all’obiettivo perseguito [20]. Ulteriormente, le condizioni per l’ottenimento dell’autorizzazione devono essere chiare, proporzionate ed obiettive e l’autorizzazione stessa dovrebbe avere, in linea di principio, durata illimitata [21]. I principi cui deve uniformarsi il procedimento amministrativo volto all’ottenimento del provvedimento autorizzativo sono quelli fissati dall’art. 13, direttiva Bolkestein, tra cui i principi di rapidità e di silenzio assenso [22].

Al fine di valutare la giustificazione e la proporzionalità della normativa in tema di servizi, la Commissione invita il regolatore nazionale a tener conto della specificità dei modelli imprenditoriali della economia collaborativa, come i sistemi di reputazione e valutazione ovvero gli altri meccanismi volti a scoraggiare comportamenti dannosi da parte degli operatori di mercato e capaci anche di ridurre i rischi per i consumatori derivanti da asimmetrie informative. Proprio con specifico riferimento a detto profilo, viene correttamente posto in rilievo il rischio che il meccanismo di feedback del consumatore si basi su recensioni ovvero valutazioni non verificabili [23].

Con riferimento, di poi, al tema della fornitura di servizi tra pari (peer-to-peer), ossia tra soggetti privati che offrono un servizio in maniera occasionale, la Commissione europea si limita a porsi il problema della individuazione della linea di confine tra servizio prestato peer-to-peer e servizio prestato in maniera professionale, evidenziando, anche in tal caso, la disomogeneità delle scelte nazionali [24].

Da ultimo, rispetto al generale tema dei requisiti di accesso al mercato, vengono fissati dei principi applicabili alle piattaforme di collaborazione definite dal regolatore europeo come piattaforme che forniscono un servizio della società dell’informazione ai sensi dell’art. 2, lett. a), direttiva 2000/31/CE (direttiva sul commercio elettronico) e dell’art. 1, par. 1, lett. b), direttiva 2015/1535, poiché offrono «un servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi». Precipitato di detta definizione è che le citate piattaforme, ai sensi dell’art. 4 della direttiva sul commercio elettronico, non possano essere soggette ad autorizzazione preventiva ovvero ad altri requisiti ad effetto equivalente che riguardino specificatamente ed esclusivamente tali servizi [25], essendo detto principio un postulato del principio di libera circolazione dei servizi della società dell’informazione.

Ovviamente, nella comunicazione viene esplicitato che, laddove le piattaforme della collaborazione prestino direttamente servizi che non rientrano nell’ambito della società dell’informazione, con peculiare riferimento alla prestazione dei servizi sottostanti, saranno soggette alla normativa settoriale applicabile, compresa l’autorizzazione per l’esercizio dell’attività di impresa e gli obblighi di licenza secondo i principi già sopra menzionati, obblighi connessi alla necessaria patrimonializzazione dell’ente ovvero di predisposizione di meccanismi di assicurazione, e così via.

In particolare, gli elementi sulla base dei quali dovrà valutarsi se una piattaforma di collaborazione presti direttamente un determinato servizio consteranno nella verifica della sua capacità di imporre prezzo e condizioni essenziali, quali termini e condizioni, al prestatore del servizio nei confronti dell’utenza, nonché l’eventuale proprietà dei beni essenziali usati per fornire il servizio sottostante. Laddove siano soddisfatte tutte e tre le condizioni sopra menzionate, la piattaforma di collaborazione eserciterà un’influenza dominante ovvero un controllo significativo sul prestatore del servizio, tanto da potersi considerare anch’essa prestatore di servizio sottostante [26].


4. Il regime di accountability dei gestori delle piattaforme di collaborazione

Un tema caldo è sicuramente quello del regime di responsabilità cui assoggettare le piattaforme di collaborazione, anche in ragione della vivacità della giurisprudenza in materia di responsabilità del prestatore di servizi della società dell’informazione [27]. La circostanza che la Commissione europea se ne occupi specificatamente, per quanto in maniera generale, dimostra la necessità di specificare l’affermazione, resa qualche anno addietro dallo stesso regolatore, secondo cui «ciò che è illegale fuori dalla rete è illegale anche sulla rete» [28] verificando i modi attraverso cui l’illegalità si manifesta e si combatte “nella rete” delle piattaforme della collaborazione.

Il tema della responsabilità civile nell’ambito dei rapporti che si instaurano nell’economia collaborativa è variegato sia sotto il profilo dei soggetti interessati della fattispecie di responsabilità sia sotto il profilo dell’oggetto della tutela, dal diritto contrattuale a quello delle obbligazioni, dal diritto d’autore al diritto industriale, sino alla tutela della riservatezza informatica [29].

Sul punto, la comunicazione, dopo aver sancito il principio generale di applicazione delle pertinenti norme in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale previste dal diritto nazionale degli Stati membri, precisa che le piattaforme online, in qualità di fornitori intermediari di servizi della società dell’informazione, nell’ambito dell’attività di hosting [30], sono esonerate dalla responsabilità per le informazioni memorizzate purché siano soddisfatte le condizioni di cui all’art. 14 della direttiva sul commercio elettronico [31], non vigendo un generale obbligo di sorveglianza ovvero ricerca attiva di fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite relativamente alla trasmissione ovvero alla memorizzazione di informazioni messe a disposizioni da terzi [32].

In particolare, affinché possano giovarsi della deroga prevista dal predetto art. 14 della direttiva sul commercio elettronico, è necessario che le piattaforme di collaborazione non svolgano un ruolo attivo tale da conferire loro la conoscenza, il controllo ovvero la consapevolezza delle informazioni eventualmente illecite e, nel caso in cui vengano a conoscenza di detta illiceità, non provvedano a cancellare ovvero disabilitare l’accesso alle stesse immediatamente [33]. Ed infatti, il sistema delineato dalla normativa in tema di commercio elettronico deve considerarsi eccezionale rispetto al generale sistema di responsabilità civile d’impresa, di guisa che le deroghe in essa contenute devono considerarsi tassative e soggette ad interpretazione restrittiva [34].

La predetta deroga si ritiene non possa applicarsi alle attività collegate o ausiliarie, quali sistemi di valutazione e recensione, sistemi di pagamento, servizi assicurativi, verifica dell’identità, nonché all’ipotesi in cui la piattaforma di collaborazione possa svolgere direttamente (ovvero con influenza dominante) il servizio sottostante offerto ai clienti finali.

La suddetta deroga, inoltre, non esclude la responsabilità della piattaforma di collaborazione ai sensi della legislazione applicabile in materia di protezione dei dati personali, per quanto riguarda le attività proprie della piattaforma [35]. Al contrario, il semplice fatto che una piattaforma svolga anche altre attività – oltre a fornire servizi di hosting – non importa necessariamente che tale piattaforma non possa più fare affidamento sulla deroga alla responsabilità di cui alla direttiva sul commercio elettronico.

Di per certo, il regime di responsabilità previsto dalla normativa europea analizzata appare insufficiente a garantire tutela alle variegate forme di responsabilità che possono manifestarsi nei rapporti contrattuali intessuti nell’ambito della economia collaborativa.

Ed anzi, debbono in questa sede condividersi le perplessità [36] legate alla efficacia e coerenza della normativa europea in tema di responsabilità degli ISP (Internet Service Provider). Anche e nonostante la giurisprudenza nell’intanto formatasi in materia [37], residuano dubbi in ordine alla conoscenza effettiva del contenuto illecito da parte dell’ISP passivo, efficaci meccanismi di rimozione selettiva dei contenuti digitali illeciti [38], la previsione di un esonero di responsabilità in capo all’ISP passivo in caso di ordine di rimozione di contenuti poi rivelatosi infondato, l’aggiornamento della classificazione degli ISP passivi e la definizione di criteri normativi specifici dei soggetti ascrivibili nella categoria degli ISP attivi.


5. La tutela degli utenti

Si è già accennato alla circostanza che l’economia collaborativa metta in crisi le tradizionali definizioni di “professionista” e “consumatore” con la conseguente opacità dei sottostanti rapporti di forza, risultando, per l’effetto, complesso individuare il soggetto “debole” che possa esser destinatario di una disciplina di favore.

In generale, la disciplina consumeristica si applicherà nelle transazioni tra utente consumatore e piattaforma collaborativa ovvero prestatore del servizio sottostante, mentre non sarà applicabile nelle transazioni tra consumatori “pari” (peer-to-peer transactions).

In detto contesto, il problema che si pone è quello della individuazione delle condizioni necessarie affinché in una prestazione di servizi astrattamente tra “pari”, il prestatore del servizio sottostante si qualifichi come professionista. A tal fine, la Commissione europea individua tre criteri di riferimento e, segnatamente, la frequenza con cui un utente presta i servizi, la eventuale finalità di lucro ed il fatturato eventualmente generato dalla specifica prestazione [39].

In generale, la comunicazione presta particolare attenzione agli eventuali obblighi informativi che possano ricadere in capo alla piattaforma di collaborazione a seconda del rapporto che dovesse instaurarsi con gli utenti.

In particolare, dette piattaforme potrebbero esser tenute a rispettare gli obblighi di informazione per i contratti a distanza e per i contratti negoziati fuori dai locali commerciali, ai sensi dell’art. 6, direttiva n. 2011/83/UE [40] e, a titolo esemplificativo, informazioni sulle caratteristiche principali dei beni o dei servizi prestati, l’identità del professionista ed il suo indirizzo di stabilimento, contatti quali telefono, fax ed indirizzo elettronico ed il prezzo del servizio con le modalità di pagamento. Nel caso in cui il servizio non sia reso nei confronti di un consumatore, in ogni caso, la piattaforma di collaborazione sarà tenuta a prestare le informazioni previste in materia di servizi ai sensi dell’art. 22, direttiva n. 123/2006. In ogni caso, quale soggetto che presta servizi della società dell’informazione, la piattaforma è tenuta a fornire le informazioni previste dall’art. 5, direttiva n. 31/2000.

Ovviamente, le piattaforme di collaborazione devono uniformarsi all’attuale quadro giuridico applicabile in materia di protezione dei dati personali, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento n. 2016/679/UE, al pari di tutti gli altri responsabili della raccolta e trattamento dati all’interno dell’UE e tanto soprattutto al fine di accrescere la fiducia del mercato dell’economia collaborativa.

Proprio la capacità affidante generata da determinati meccanismi tipici dell’economia collaborativa, quali le recensioni ed i feedback, sono valorizzati dalla Commissione al fine di supplire alla tutela dei singoli partecipanti al mercato, soprattutto in ipotesi in cui le discipline di settore, come quella consumeristica, non trovino applicazione.

Certo è che, al fine di sfruttare al meglio la capacità disciplinante del meccanismo di recensione, sarebbe stato opportuno che la Commissione sollecitasse l’adozione di interventi regolamentari volti a garantire la correttezza di detti meccanismi, soprattutto sul fronte della verificabilità dell’identità del soggetto recensore e dei meccanismi di responsabilità che il sistema di feedback produce.


6. La distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati nell'eco­nomia collaborativa

L’economia collaborativa, sostiene la Commissione, è in grado di sviluppare nuove opportunità lavorative, tendenzialmente caratterizzate da ampia flessibilità. Proprio detta caratteristiche potrebbe provocare incertezza in ordine alla normativa applicabile ed al grado di protezione da individuare alla tipologia di prestazione lavorativa di volta in volta in esame.

Ed in effetti, la comunicazione evidenzia come, nell’ambito della economia collaborativa, le prestazioni di lavoro si basino prevalentemente su attività occasionali, negoziate ad hoc, piuttosto che su rapporti lavorativi stabili e continuativi. Per effetto di tanto, si ritiene sia sempre meno chiaro il confine tra lavoratori autonomi e subordinati [41].

A tal fine, la Commissione propone degli orientamenti facendo riferimento alla normativa ed alla giurisprudenza europea, pur non mancando di evidenziare come le disposizioni in materia prevedano soltanto degli standard minimi, non occupandosi, dunque, di tutti gli aspetti della legislazione sociale applicabili ai rapporti di lavoro.

In particolare, su detto specifico aspetto, il regolatore europeo ha già avuto modo di individuare, avendo riguardo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro nella circostanza che «una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione» [42]. Per l’effetto, elementi essenziali del rapporto di lavoro consisterebbero nella retribuzione, anche in termini di vantaggi in natura [43], nella subordinazione, da intendersi quale dipendenza dalle scelte del datore di lavoro in ordine a tipo di attività da prestare, retribuzione e, generalmente, condizioni di lavoro [44], ed, infine, nella circostanza che l’attività prestata abbia un valore economico reale ed effettivo, restando, dunque, escluse le attività talmente ridotte da potersi definire meramente marginali ed accessorie [45].

Nell’ambito dell’economia collaborativa, dunque, la valutazione in ordine alla esistenza di un rapporto di lavoro tra piattaforma e prestatore di servizio sottostante deve essere realizzata case by case esaminando, dunque, la presenza di una retribuzione, l’esistenza di un rapporto di subordinazione e la natura del lavoro, se cioè avente lavoro reale ed effettivo ovvero se avente contenuto meramente marginale ed accessorio.

Con riferimento al primo criterio, deve verificarsi se la piattaforma di collaborazione sia in grado di negoziare autonomamente il prezzo con l’utente finale per poi trasferire, secondo modalità predefinite, determinate risorse al prestatore del servizio oppure se questa si limiti a trattare il pagamento depositato dall’utente trasmettendolo al prestatore del servizio.

Nel primo caso, la struttura del rapporto fa sì che il prestatore del servizio venga, di fatto, remunerato per la propria attività direttamente dalla piattaforma; nel secondo caso, invece, la piattaforma funge da mero collante per il pagamento, ma non ha alcun potere di negoziazione del prezzo [46].

In ordine, poi, al requisito della subordinazione, occorrerà verificare la capacità della piattaforma di imporre, anche indirettamente, la tipologia e la modalità di svolgimento del servizio da prestare. A tal fine, importante sarà la verifica delle pattuizioni contrattuali del rapporto che lega la piattaforma al prestatore del servizio [47].

Da ultimo, con riferimento al criterio della natura del lavoro, il prestatore del servizio sottostante dovrà svolgere un’attività avente valore economico reale ed effettiva e, a tal fine, potrà farsi riferimento a delle soglie di fatturato ovvero di orario di lavoro [48].


7. Il trattamento fiscale delle attività dell'economia collaborativa

In tema di fiscalità, la comunicazione della Commissione europea fissa il principio generale di assoggettamento alla normativa tributaria degli operatori economici nell’ambito dell’economia collaborativa.

D’altro canto, posto che, per quanto s’è detto, la peculiarità di detta “economia” risieda negli strumenti utilizzati, tecnologicamente innovativi e capaci di ridurre i costi di intermediazione, nonché di intersecare domande ed offerte che un tempo viaggiavano “su rette parallele”, non v’è ragione per pervenire ad un meccanismo di detassazione ovvero di particolare favore.

L’adempimento degli obblighi fiscali, in tema di economia collaborativa, secondo la Commissione europea, trova ostacoli nella identificazione dei contribuenti e dei redditi imponibili, nella mancanza di informazioni sui prestatori di servizi, nella assenza di pianificazione fiscale aggressiva, nelle differenze delle pratiche fiscali in tutta l’UE e nell’insufficiente scambio di informazioni.

La soluzione proposta nella comunicazione, dunque, si concreta nella alfabetizzazione dei funzionari dell’Amministrazione Finanziaria rispetto al fenomeno della collaborative economy.

In materia, la soluzione contenuta nella proposta di legge n. 3564 avanzata alla Camera dei Deputati del Parlamento italiano, prevede l’istituzione di una specifica voce di reddito, “da attività di economia della condivisione non professionale”, cui sarebbe destinata un’apposita sezione della dichiarazione redditi, e la diversificazione del regime fiscale secondo la soglia di reddito prodotto (individuato nell’ammontare di € 10.000,00 annui), al di sotto del quale si dovrebbe applicare un’aliquota fissa del 10%, mentre per i redditi superiori a detta soglia è previsto il cumulo con quelli derivanti da lavoro dipendente ovvero autonomo e l’applicazione della corrispondente aliquota.

Nella proposta italiana, si prevede, altresì, che i gestori delle piattaforme della collaborazione agiscano quali sostituti di imposta per i redditi conseguiti dagli utenti e si impone, per quei gestori che hanno sede estera, di avere una stabile organizzazione in Italia.

Di per certo, la occasionalità dei servizi prestati nell’ambito dell’economia della collaborazione e la ubiquità e non sempre facile identificabilità degli utenti, rende detta economia fortemente esposta al rischio di elusione della normativa fiscale.

In questo senso, la Commissione, in maniera condivisibile, giudica favorevolmente l’iniziativa del governo Estone di incentivare la collaborazione tra le autorità fiscali del Paese e le imprese dell’economia collaborativa attraverso la predisposizione di una procedura semplificata di dichiarazione fiscale dei guidatori, prevedendo un obbligo di comunicazione dei dati fiscali di questi ultimi in capo alle piattaforme di carpooling ed la conseguente pre-compilazione dei moduli fiscali da parte delle autorità al fine di aiutare i contribuenti ad adempiere i loro obblighi fiscali in maniera efficace e con il minimo sforzo.

Di per certo, la predisposizione di un apposito registro ove annotare quanto meno i gestori delle piattaforme peer-to-peer ed i prestatori di servizi sottostanti professionali per le transazioni diverse da quelle “tra pari”, consentirebbe al regolatore un più agevole controllo del fenomeno.

Ulteriormente, la Commissione europea ritiene che lo sviluppo di detto fenomeno economico potrà avvenire attraverso una netta riduzione degli oneri amministrativi dei privati e delle imprese della collaborazione attraverso un efficace scambio di informazioni in materia fiscale tra autorità, piattaforme e prestatori di servizio, nonché attraverso la creazione di sportelli unici e lo sviluppo di meccanismi di feedback online.

Sempre a tal fine, il regolatore europeo sottolinea l’opportunità di sviluppare standard comuni per affrontare le questioni della fiscalità in maniera coerente.

Attenzione peculiare viene, da ultimo sul punto, rivolta dalla Commissione europea al problema dell’assoggettabilità ad imposta sul valore aggiunto delle transazioni che avvengono nell’ambito dell’economia collaborativa, soprattutto nelle fattispecie in cui i partecipanti mettono in comune determinati beni e servizi in cambio del diritto di farne uso.


8. Conclusioni

La Commissione europea si propone, a margine delle riflessioni realizzate in tema di disciplina applicabile all’economia collaborativa, di avviare un piano di monitoraggio attraverso indagini periodiche presso consumatori ed imprese in merito all’uso di detta economia, mappatura degli sviluppi normativi negli Stati membri, dialogo con le parti interessate e sintetizzazione dei risultati.

La comunicazione appare, dunque, una bozza preliminare di un impegno regolatorio, si spera, più concreto e pragmatico, capace di introdurre efficaci modifiche normative alla regolamentazione esistente e colmare le lacune generate dalle incertezze interpretative nel settore.

Di per certo, il processo di armonizzazione deve essere cauto, posto che l’economia collaborativa, per quanto già evidenziato, interessi settori della regolazione nazionale spesso caratterizzati da regimi di riserva di attività a tutela di interessi generali, come, a titolo meramente esemplificativo, la salute, la sicurezza e la stabilità economica.

La contemperazione delle esigenze connesse allo sviluppo dell’economia collaborativa, sì tanto valorizzate nella comunicazione della Commissione europea, e di quelle di tutela degli interessi generali che, di volta in volta, legittimano i regimi di riserva esistenti, è attività complessa e da integrarsi con meccanismi di enforcement pubblico di soft law, per un graduale avvicinamento delle singole normative nazionali e per un affinamento delle disposizioni tecniche di settore.

Difficile prevedere un intervento più incisivo.

La trasversalità che caratterizza l’ambito di interesse della sharing economy non consente di introdurre una normativa comune che riesca a disciplinare gli effetti del fenomeno tout court.

La prossima mossa spetterà ai governi ed ai giudici nazionali. Una reazione protezionista dei sistemi e degli istituti conosciuti ed autorizzati ritengo non sarà percorsa e ciò per diversi motivi.

Innanzitutto, la velocità con cui il mercato si è adattato a detti nuovi strumenti tecnologici è tale da rendere inverosimile un ritorno al passato, con la previsione di “lacci e lacciuoli” (per scomodare, ingiustamente, Guido Carli e Tommaso Campanella [49]) da legare ai gestori delle piattaforme della collaborazione ed ai prestatori dei servizi.

Di poi, la verifica di applicabilità della legislazione prevista per categorie già “positivizzate” (professionista, consumatore, ecc.) andrà realizzata case by case, privilegiando – così come suggerisce la Commissione europea – le interpretazioni che favoriscono lo sviluppo e l’operatività delle piattaforme (e dei relativi servizi) a quelle che condurrebbero al fallimento delle stesse, verificando il grado di indipendenza ed autonomia dei prestatori del servizio rispetto al gestore della piattaforma ed applicando i divieti secondo un criterio di stretta proporzionalità e sussidiarietà, senza mai perder di vista l’interesse generale tutelato dalla norma di volta in volta in gioco.

Il caso Uber è, d’altro canto, emblematico di come proprio detto ultimo profilo assuma una rilevanza cruciale nella valutazione della singola fattispecie.

Dopo il black-out di Uber Pop a seguito della inibitoria del Tribunale di Milano del 2015, si attende l’esito del procedimento cautelare atipico instato dinanzi il Tribunale di Roma [50] da alcune associazioni di categoria dei tassisti e degli esercenti servizio di noleggio con conducente (NCC) contro Uber black [51].

Un nuovo banco di prova per i gestori delle piattaforme di collaborazione per la verifica di tenuta del sistema (carsharing e, più in generale, della collaborative economy, in un mercato ove le frizioni con i prestatori dei servizi tradizionali assumono un significato particolare, lì dove i tentativi invani di semplificazione e liberalizzazione hanno attraversato le legislature, restando una costante.

Un nuovo banco di prova, soprattutto, per la verifica di compatibilità dei nuovi strumenti tecnologici con gli istituti (tipicamente, di natura provvedimentale) posti a presidio dell’interesse generale. Con il solito interrogativo sullo sfondo: quale interesse generale?


NOTE

[1] Il mito, come noto, è concetto filosofico che, nell’accezione tradizionale, riconducibile a Platone, si pone in antitesi al logos (la dimostrazione ben fondata della verità) e che è in rapporto ad esso esattamente come l’opinione è in rapporto alla scienza, come l’incertezza del sensibile alla certezza del razionale. Ebbene, la comunicazione in commento, si ritiene, contiene spesso delle mere opinioni in ordine alla bontà dell’economia collaborativa, lì dove esprime, ad esempio, il sentimento che questa possa dare «un contributo importante alla crescita e all’occupa­zione nell’Unione europea» oppure che possa «incoraggiare la condivisione e l’uso più efficiente delle risorse».

[2] Cfr. COM(2016) 356 della Commissione Europea del 2 giugno 2016.

[3] La domanda, si ritiene, non è un mero sforzo teorico fine a sé stesso. La creazione di “fenomeni” giuridici asseritamente nuovi conduce il giurista, spesso, ad estraniarsi dalla realtà di riferimento per ricercare soluzioni altrettanto nuove, a volte non necessarie. E questa attività creativa aggiunge normativa spesso confliggente con quella esistente.

[4] Due esempi su tutti. Il primo nazionale, ossia l’ordinanza del Tribunale di Milano, Sez. Spe-cializzata per le Imprese, Pres. Rel. Marina Tavassi, in sede di reclamo dei procedimenti riuniti R.G. nn. 35445/2015 e 36491/2015, del 15 luglio 2015, nel procedimento cautelare atipico proposto da diverse società esercenti attività di taxi contro le società riconducibili a vario titolo a Uber, nonché le Associazioni dei consumatori intervenute ad adiuvandum rispetto alle ragione di Uber, con cui il Giudice Ambrosiano, a conferma dell’ordinanza del Giudice monocratico, ha inibito «l’utilizzazione sul territorio nazionale dell’app denominata Uber Pop e comunque la prestazione di un servizio – comunque denominato e con qualsiasi mezzo promosso e diffuso – che organizzi, diffonda e promuova da parte di soggetti privi di autorizzazione amministrativa e/o di licenza un trasporto terzi dietro corrispettivo su richiesta del trasportato, in modo non continuativo o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta» (cfr. A. DONINI, Regole della concorrenza e attività di lavoro nella on demand economy: brevi riflessioni sulla vicenda Uber, in Riv. it. dir. lav., fasc. 1, 2016, p. 46 ss.; V. C. ROMANO, Nuove tecnologie per il mitridatismo regolamentare: il caso Uber Pop, in Merc. Conc. Reg., 1, 2015, p. 133 ss. il quale evidenzia come il servizio Uber Pop non vada ricompreso nel modello di sharing economy poiché «il conducente non avrebbe alcun interesse a raggiungere il luogo indicato dall’utente e, se il servizio non fosse retribuito, il primo non opererebbe alcun servizio di trasporto. Dunque, Uber ha caratteristiche di mercato che ne evidenziano il carattere esclusivamente commerciale, quantunque collocato nel segmento low cost del trasporto pubblico non di linea»). Il secondo, dagli Stati Uniti e, più in particolare, da San Francisco, lì dove è stato effettuato un referendum per introdurre una norma volta a limitare a 75 notti all’anno la possibilità di locare stanze ovvero appartamenti a tempo determinato con lo scopo di limitare, dunque, l’operatività di piattaforme come Airbnb. Il 55% degli elettori ha respinto la proposta referendaria (cfr. IlSole24Ore, Airbnb vince il referendum a San Francisco con il 55% dei voti, 4 novembre 2015).

[5] Per una veloce descrizione dei “fenomeni” appena citati, cfr. F. NOTARI, I. OREFICE, Gli ultimi sviluppi del dibattito sulla sharing economy, in Amministrazione in Cammino, 12 settembre 2016. Sul consumo collaborativo, si veda R. BOTSMAN, What’s Mine is Yours: How Collaborative Consumption is Changing the Way We Live, Harper Collins Business, New York, 2010, passim.

[6] Cfr. F. NOTARI-I. OREFICE, op. cit., p. 1.

[7] Si veda, in tal senso, l’opinione di L. ZINGALES, «Uber Act»: come liberare il Paese dalle piccole caste, su IlSole24Ore, 24 aprile 2016.

[8] Sia consentito evidenziare come il termine “piattaforma” consenta di fornire stabilità ad un sistema di infrastrutture digitali i cui confini sono incerti ed in continuo divenire ed i cui soggetti partecipanti non sempre siano facilmente identificabili.

[9] Già Heidegger evidenziava che «ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca» (cfr. M. HEIDEGGER, L’abbandono, 1959, p. 36).

Oggi, sotto un profilo filosofico, si dice che la tecnica sia divenuto l’ambiente ove vive ed abita l’uomo e che solo la prima sia il vero soggetto della storia, mentre il secondo si limiterebbe ad essere un funzionario degli apparati tecnici cui appartiene (U. GALIMBERTI, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 207, ss.). Per quanto detta opinione sia di fascino, ritengo che la regolazione volta a far emergere (e prevalere) gli interessi generali dell’uomo sui bisogni di sviluppo ed innovazione della tecnica – lì dove in contrasto, s’intende – possa essere strumento capace di restituire dignità all’autorità statuale (nei vari segmenti in cui la stessa si esprime), troppo spesso inerte dinanzi le esigenze dell’efficienza (cfr. L.R. PERFETTI, Prefazione, in D. Vese, La segnalazione certificata di inizio attività come modello di semplificazione procedimentale, Pacini, Pisa, 2016, p. 5, il quale denuncia la resa dell’autorità dello Stato in favore del potere delle forze economiche del mercato).

[10] A favore di un intervento regolatorio ad hoc in materia di economia collaborativa, cfr. S. R. MILLER, First principles for regulating the sharing economy, in Harv. J. on Leg., 2016, p. 151 ss., sulla base della circostanza che «sharing economy businesses do typically maintain certain characteristics. Most commonly, these businesses use an Internet-based application, often called a web platform, which permits individuals to share or sell things where previously the transaction costs would have prohibited such commerce. That change in how the transactions occur tends to focus conversation on the Internet format of the transaction; however, a regulatory response to the sharing economy requires recognition that the types of transactions occurring differ substantially in how they affect the real world and thus require a differentiated regulatory response». Proprio il fatto che l’elemento differenziale rispetto all’economia tradizionale sia l’utilizzo di internet-based application dimostra che trattasi di fenomeno connesso sostanzialmente allo sviluppo tecnologico.

[11] Sul mercato unico digitale, si rimanda al sito del Consiglio europeo, al seguente link: http://www.consilium.europa.eu/it/policies/digital-single-market-strategy ed alla comunicazione della Commissione europea COM(2015)192, Strategia per il mercato unico digitale in Europa.

[12] Cfr. SWD(2016) 184, European agenda for the collaborative economy – supportin analysis, disponibile sul sito della Commissione europea, http://ec.europa.eu.

[13] In particolare, uno studio di PwC ha restituito un reddito lordo originato da piattaforme della collaborazione nell’Unione Europea di circa 28 miliardi di euro nel 2015, con stime di crescita per i prossimi anni. Cfr. PWC UK, The sharing economy, in Consumer Intelligence Series, disponibile sul sito www.pwc.com.

[14] Si veda, in Italia, la recente proposta di Legge presentata alla Camera dei Deputati, consultabile sul sito istituzionale www.camera.it.

[15] Sul punto, vi è chi sostiene che l’economia collaborativa sia fenomeno esemplificativo della crisi degli istituti giuridici cc.dd. statici, meno flessibili all’innovazione (anche “concettuale”), come quello del diritto di proprietà, quale diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, insidiato dall’affermarsi di concetti come quello di utilità diffusa del bene, dell’eco­nomia orizzontale e dematerializzata della condivisione o «à la demande», della (talvolta fittizia) disintermediazione, della semplificazione di processi preesistenti, del consumo collaborativo e delle disruptive technologies. Cfr., in tal senso, N. RAMPAZZO, Rifkin e Uber. Dall’età dell’acces­so all’economia dell’eccesso, in Dir. dell’Informazione e dell’Informatica, II, fasc. 6, 2015, p. 957 ss.

[16] Requisiti di accesso che possono consistere in autorizzazioni, licenze, rispetto di requisiti organizzativi (quali un capitale minimo, ovvero l’obbligo di avere una copertura assicurativa, ecc.).

[17] Giova evidenziare che detta normativa non si applichi alla disciplina dei trasporti, sicché è discutibile che la stessa possa applicarsi a servizi che offrano detta tipologia di servizio, magari in concorrenza con il servizio taxi.

[18] Il principio di non discriminazione si applica in via generale ed è funzionale alla realizzazione proprio del diritto di stabilimento e della libera prestazione di servizi. L’art. 14 della direttiva Bolkestein, sul punto, prevede, quali requisiti vietati, i requisiti discrezionali fondati direttamente o indirettamente sulla cittadinanza o, per le società, sull’ubicazione della sede legale; il divieto di avere stabilimenti in più di uno Stato membro o di essere iscritti nei registri o ruoli di organismi, ordini o associazioni professionali di diversi Stati membri; il coinvolgimento diretto o indiretto di operatori concorrenti, anche in seno agli organi consultivi, nel procedimento di conseguimento di un’autorizzazione a entrare nel mercato. Sul punto, F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Giappichelli, Torino, 2012, p. 26; V. HATZOPOULOS, Regulating services in the European Union, OUP, Oxford, 2012, p. 146; N. LONGOBARDI, Liberalizzazioni e libertà di impresa, in Riv. it. dir. pubb. com., 3-4, 2013, p. 603 ss. In giurisprudenza, si veda Corte di Giustizia UE, 23 febbraio 2016, n. 179, Commissione Europea c. Ungheria, in Foro Amm., 2, 2016, p. 256 ss.

[19] I “motivi imperativi di interesse generale” richiamati sono quelli previsti dall’art. 4 della direttiva Bolkestein e, segnatamente, «motivi riconosciuti come tali dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, tra i quali: l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, la tutela dei consumatori, dei destinatari di servizi e dei lavoratori, l’equità delle transazioni commerciali, la lotta alla frode, la tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, la salute degli animali, la proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico ed artistico, gli obiettivi di politica sociale e di politica culturale». Sul punto, si veda, Corte di Giustizia, II sezione, 24 marzo 2011, causa C-400/08, Commissione europea/Regno di Spagna sostenuto da Regno di Danimarca, secondo cui «costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE una normativa nazionale che imponga limiti attinenti all’ubicazione e alla dimensione degli esercizi commerciali e che subordini lo stabilimento di un’impresa in un altro Stato membro al rilascio di un’autorizzazione preventiva. Restrizioni alla libertà di stabilimento possono tuttavia essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra tali motivi imperativi figurano, tra gli altri, la protezione dell’am­biente, la razionale gestione del territorio, nonché la tutela dei consumatori. Per contro, finalità di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale». In dottrina, diffusamente, N. LONGOBARDI, op. cit., p. 603 ss.

[20] Ossia, requisiti che non impongano più obblighi di quanto strettamente necessario per conseguire l’obiettivo perseguito. I divieti assoluti e le restrizioni quantitative all’esercizio dell’at­tività costituiscono, dunque, misure di ultima istanza, da applicarsi solo se non sia possibile conseguire un legittimo obiettivo di interesse generale con una disposizione meno restrittiva. Il test di proporzionalità impone che lo Stato membro dimostri che la misura sia idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito senza eccedere quanto strettamente necessario per il suo raggiungimento, nonché che detta misura sia effettivamente necessaria al raggiungimento del predetto obiettivo in modo coerente e sistematico, non esistendo altri mezzi meno vincolanti a tal fine. Sul punto, in giurisprudenza, si veda, Corte di Giustizia, 23 novembre 1999, cause riunite C-369/96 e C-376/96, Arblade, punto 35; Corte di Giustizia, 08 settembre 2009, causa C-42/07, Liga Portuguesa de Futebol Profissional c. Bwin International Ltd., punti 57 e ss. In dottrina, sul test di proporzionalità quale strumento basato non soltanto sui parametri di adeguatezza e necessità della misura rispetto al motivo imperativo di interesse generale che si vuole tutelare, bensì anche sulla valutazione di coerenza e sistematicità nel perseguimento dell’obiettivo, si veda G. MATHISEN, Consistency and coherence as conditions for justification of Member State measures restricting free movement, in Common Market Law Review, 47, 2010, p. 1021. Per un approfondimento sul punto, di recente, si veda G. TROPEA, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della Legge n. 124/2015, in Dir. Amm., 1-2, 2016, p. 107 ss. e nota 55; N. LONGOBARDI, op. cit., p. 603 ss.

[21] In particolare, sul punto, viene in rilievo il disposto di cui all’art. 11 della direttiva Bolkestein il quale, dopo aver fissato il principio generale della durata illimitata delle autorizzazioni, prevede quali eccezioni le seguenti ipotesi: «a) l’autorizzazione prevede il rinnovo automatico o è esclusivamente soggetta al costante rispetto dei requisiti; b) il numero di autorizzazioni disponibili è limitato da un motivo imperativo di interesse generale; o c) una durata limitata è giustificata da un motivo imperativo di interesse generale».

[22] Con riferimento al meccanismo di definizione del procedimento amministrativo con il silenzio assenso, interessante è il recente parere del Consiglio di Stato che qualifica detto esito procedimentale come una sanzione e rimedio rispetto all’inerzia della Pubblica Amministrazione. In particolare, in detto parere, il massimo organo della Giustizia Amministrativa evidenzia come «il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza l’inerzia dell’amministrazione coinvolta, ancorché non fisiologica, tanto da ricollegarvi la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei rimedi: la definitiva perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento» (cfr. Consiglio di Stato, comm. spec., 13 luglio 2016, n. 1640). Sul tema, più in generale, P. LAZZARA, I procedimenti amministrativi ad istanza di parte. Dalla disciplina generale sul procedimento (L. 241/90) alla direttiva «servizi» (2006/123/CE), Jovene, Napoli, 2008, passim; M. A. SANDULLI, G. TERRACCIANO, La semplificazione delle procedure amministrative a seguito della attuazione in Italia della Direttiva Bolkestein, in Monografìas de la Revista Aragonesa de Administraciòn pùblica, XII, 2010, disponibile anche sul sito www.aragon.espassim, ai quali si rimanda anche per i riferimenti dottrinari specifici (cfr., in particolare, pp. 53-54, nota 5).

[23] Certo è che il meccanismo basato sul feedback dell’utente deve il proprio successo proprio all’anonimato che generalmente lo caratterizza, poiché giusto detta caratteristica conferisce l’idea al soggetto che rilascia la recensione ovvero la valutazione di essere esente da responsabilità. Sul tema, O. ABRAMOVA-T. SHAVANOVA-A. FUHRER-H. KRASNOVA-P. BUXMANN, Understanding the Sharing Economy: the Role of Response to Negative Reviews in the Peer-to-peer Accommodation Sharing Network, ECIS 2015 Completed Research Papers, Paper 1, passim.

[24] In particolare, la Commissione europea evidenzia che «alcuni Stati membri definiscono come servizi professionali i servizi forniti dietro retribuzione, mentre i servizi tra pari si basano sul semplice rimborso dei costi sostenuti dal prestatore di servizi. Altri Stati membri operano questa distinzione utilizzando delle soglie. Tali soglie sono spesso determinate su base settoriale, tenendo conto del livello di reddito generato o della regolarità con cui si fornisce il servizio. Al di sotto di tali soglie, i prestatori di servizi sono di solito soggetti a requisiti meno restrittivi. Le soglie, stabilite in modo ragionevole, possono rappresentare un criterio utile e possono contribuire a creare un quadro normativo chiaro a beneficio dei prestatori di servizi non professionali» (cfr. p. 5 della comunicazione).

[25] Il principio dell’assenza dell’autorizzazione preventiva è stato recepito in Italia con l’art. 6, d.lgs. n. 70/2003, il quale riproduce alla lettera il disposto dell’art. 4 della direttiva sul commercio elettronico. Trattasi di un principio rivoluzionario nella storia delle attività economiche e del commercio in particolare, in quanto spezza «un secolare patto fra amministrazione ed esercenti una professione o un commercio: la prima li regolamentava per far pesare la propria presenza, i secondi accettavano linterferenza perché era un modo per disciplinare gli accessi al settore e dunque ottenere variegate forme di protezionismo» (cfr. C. ROSSELLO, La nuova disciplina del commercio elettronico. Principi generali e ambito di applicazione, in Dir. comm. internaz., fasc. 1, 2004, p. 43 ss.; V. ZENO-ZENCOVICH, Note critiche sulla nuova disciplina del commercio elettronico dettata dal D. Lgs. 70/03, in Dir. informatica, fasc. 3, 2003, p. 50 ss.).

[26] La comunicazione precisa che, di volta in volta, possano venire in rilievo altri criteri quali, a titolo esemplificativo, la circostanza che la piattaforma di collaborazione sostenga le spese e si assuma i rischi connessi alla prestazione del servizio sottostante ovvero l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la piattaforma ed il prestatore del servizio sottostante. Di contro, è scarsamente rilevante l’eventuale fornitura di servizi accessori rispetto alla prestazione sottostante, quali la fornitura di sistemi di pagamento, di una copertura assicurativa, della predisposizione di meccanismi di assistenza post vendita ovvero di valutazione e recensione del servizio.

[27] In ambito nazionale, si veda Tribunale Roma, sez. IX, 15 luglio 2016, n. 6515/2011 R.G.C.A., Reti Televisive Italiane S.p.A. c. Megavideo LTD, secondo cui «anche in riferimento al semplice prestatore di un servizio dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (e non quindi dell’hosting “attivo” della fattispecie in esame), va esclusa l’esenzione da responsabilità prevista dall’art. 14 della direttiva 2000/31 quando il prestatore “dopo aver preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività di detti destinatari abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi” sancendo quindi che la conoscenza, comunque acquisita (e non solo se conosciuta tramite le autorità competenti o a seguito di esplicita diffida), della illiceità dei dati fa sorgere la responsabilità civile e risarcitoria dell’ISP»; Tribunale di Roma, sez. Spec. Impresa, 5 maggio 2016, R.G. n. 24707/2012, Reti Televisive Italiane s.p.a. c. Pulsevision s.a., Kevego s.a.s., secondo cui «ai fini dell’affer­mazione della responsabilità del provider, occorre dimostrare che questi fosse a conoscenza o potesse essere a conoscenza dell’illiceità commessa dall’utente mediante l’immis­sione sul sito/server del materiale in violazione dei diritti di sfruttamento economico detenuti da terzi; nel valutare la condotta esigibile dal provider, inoltre, si deve tener conto dell’impossibilità per quest’ultimo di procedere ad una verifica preventiva del materiale immesso quotidianamente dagli utenti, avuto riguardo alla complessità tecnica che un controllo del genere richiederebbe e al divieto, previsto dall’art. 15 della direttiva 2000/31/CE, di un obbligo generale di sorveglianza a suo carico sulle informazioni che trasmettono o memorizzano e di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite». In ambito europeo, si veda Corte di Giustizia, sez. III, 16 febbraio 2012, n. 360, S. c. Netlog NV, in Dir. Comm. Int., 4, 2012, p. 1075.

[28] Cfr. Comunicazione Commissione europea COM(1996)487 del 16 ottobre 1996 sul tema «Informazioni di contenuto illegale e nocivo su Internet».

[29] In tal senso, più genericamente con riferimento alla responsabilità “su Internet”, cfr. E. TOSI, Responsabilità civile per fatto illecito degli Internet Service Provider, in Dig. priv., 2016, p. 689.

[30] Nel contesto dell’economia collaborativa, l’attività di hosting può assumere un significato peculiare, potendo essere intesa in generale come un’attività riguardante la memorizzazione dei dati dei clienti e la messa a disposizione di uno spazio in cui gli utenti incontrano i prestatori dei servizi sottostanti. Le deroghe di cui agli artt. 12 e 13 della direttiva sul commercio elettronico, solitamente, non si applicano a questo proposito, poiché le piattaforme di collaborazione normalmente non forniscono servizi di semplice trasporto (“mere conduit”) o di memorizzazione temporanea (“caching”) ai sensi di tali disposizioni. Cfr., sul punto, E. TOSI, op. ult. cit., pp. 692-693; M. COCUCCIO, La responsabilità civile per fatto illecito dell’internet service provider, in Resp. Civ. Prev., 4, 2015, p. 1312 ss.

[31] In Italia, detta direttiva è stata recepita con d.lgs. n. 70/2003.

[32] Cfr. E. TOSI, op. ult. cit., pp. 692-693; M. COCUCCIO, op. ult. cit., p. 1312 ss.; C. DI CIOCCO, G. SARTOR, Temi di diritto dell’informatica, Giappichelli, Torino, 2011, p. 93; A. DI MAJO, La responsabilità del provider tra prevenzione e rimozione, in Corr. Giur., 4, 2012, pp. 553 ss.; G. FACCI, La responsabilità extracontrattuale dell’internet provider, in Resp. Civ. Prev., 1, 2002, p. 265 ss.

[33] Sul punto, si veda il considerando 42 della direttiva Bolkestein, nonché la sentenza della Corte di Giustizia, 23 marzo 2010, cause riunite C-236/08 e C-238/08, Google France c. Louis Vuitton. Sul tema, E. TOSI, op. ult. cit., p. 705, il quale fornisce indicazioni sull’elaborazione giurisprudenziale in tema di ISP attivo, la cui definizione si è resa necessaria per analizzare soggetti quali motori di ricerca, social network e aggregatori di contenuti caricati da terzi (come YouTube). Al fine di verificare se detti soggetti possano essere considerati ISP attivi e quindi non destinatari dell’esonero di responsabilità contenuto nella direttiva sul commercio elettronico, occorrerà verificare se, in concreto, questi selezionino, organizzino ed indicizzino i contenuti, provvedano al loro filtraggio e provvedano allo sfruttamento degli stessi a fini pubblicitari. La sussistenza di detti elementi importerebbe la qualifica soggettiva atipica di hosting attivo ovvero ISP attivo al quale non sarebbe applicabile il regime di responsabilità del safe harbour.

Sul tema, in giurisprudenza, si veda Tribunale di Catania, 29 giugno 2004, in Foro It., 2005, I, col. 1259; Tribunale di Milano, 02 marzo 2009, RTI c. RCS Quotidiani S.p.A., in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 3, 2009, p. 521; Tribunale di Roma, 15 dicembre 2009, RTI c. YouTube, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2009, p. 521 ss.; Tribunale di Roma, 11 febbraio 2010, reclamo RTI c. YouTube, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2010, p. 275 ss.; Tribunale di Milano, 24 febbraio 2010, n. 1972, Vividown c. Google, in Riv. dir. ind., 2010, p. 328 ss. Per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinari in tema di ISP attivo, si rinvia ai contributi di E. TOSI, op. ult. cit.passim e di M. COCUCCIO, op. ult. cit., p. 1312 ss., in particolare paragrafo 5. Più di recente, in giurisprudenza, si vedano i precedenti già sopra citati e, segnatamente, Tribunale Roma, sez. IX, 15 luglio 2016, n. 6515/2011 R.G.C.A., Reti Televisive Italiane S.p.A. c. Megavideo LTD e Tribunale di Roma, Sez. Spec. Impresa, 05 maggio 2016, R.G. n. 24707/2012.

[34] Cfr., in tal senso, altresì, E. TOSI, op. ult. cit., p. 692.

[35] Sul punto, di particolare interesse è il regolamento (UE) n. 679/2016 in materia di protezione dei dati personali il quale, con riferimento ai servizi forniti dalla società dell’informazione evidenzia che lo stesso non pregiudica l’applicazione del codice del commercio elettronico (considerando 21). Nondimeno, il recente regolamento prevede, in ordine alle modalità di espressione del consenso al trattamento dei dati che questo debba avvenire attraverso un atto positivo inequivocabile e che tanto potrebbe comprendere «la selezione di un’apposita casella in un sito web, la scelta di impostazioni tecniche per servizi della società dell’informazione o qualsiasi altra dichiarazione o qualsiasi altro comportamento che indichi chiaramente in tal contesto che l’interessato accetta il trattamento proposto» (considerando 32). A tal fine non sono sufficienti, ad esempio, le caselle “preselezionate”.

Sempre sotto il profilo della responsabilità, ai gestori delle piattaforme si applicherà la previsione in tema di diritto all’oblio di cui all’art. 17, par. 1, lett. f) del regolamento. Ulteriormente, il regolamento in esame prevede il diritto di opposizione del titolare del trattamento dati anche nel contesto dell’utilizzo di servizi della società dell’informazione con mezzi automatizzati che utilizzano specifiche tecniche (art. 21).

In generale, è previsto che la Commissione europea valuti, se del caso, di presentare opportune proposte di modifica del regolamento in materia di privacy tenuto conto, in particolare «degli sviluppi delle tecnologie dell’informazione e dei progressi della società dell’informazione» (art. 97).

Sul tema, di recente, si veda A. SPINA, Alla ricerca di un modello di regolazione per l’economia dei dati. Commento al Regolamento (UE) 2016/679, in questa Rivista, 1, 2016.

[36] Cfr., in tal senso, altresì, E. TOSI, op. ult. cit., p. 708.

[37] Cfr. supra, nota 32.

[38] Magari sulla falsa riga della procedura notice and take down così come prevista nel The Digital Millennium Copyright Act of 1998.

[39] Emblematico è, a tal fine, l’esempio proposto nella comunicazione, lì dove si esplicita che «una persona che offre regolarmente servizi di giardinaggio (tramite l’uso di piattaforme di collaborazione) e ne ricava una retribuzione consistente potrebbe rientrare nella nozione di professionista, ma una babysitter professionista che offre occasionalmente servizi di giardinaggio (tramite l’uso di piattaforme di collaborazione) in linea di principio non si qualificherebbe come professionista in relazione a tali occasionali servizi di giardinaggio».

[40] Direttiva recentemente recepita in Italia con d.lgs. n. 21/2014. Sugli obblighi informativi in materia, si veda, F. DE LEO, La nuova disciplina dei contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali tra uniformità, innovazione e perdurante silenzio del legislatore, in Resp. civ. prev., fasc. 4, 2014, p. 1397 ss., il quale lamenta l’omessa indicazione, da parte del legislatore italiano, dei rimedi esperibili in caso di violazione degli obblighi informativi, anche e nonostante l’art. 24 della direttiva 2011/83/UE prevedesse che fosse compito degli Stati membri quello di determinare le sanzioni «da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali adottate conformemente alla presente direttiva». In tal caso, il rimedio che parrebbe più adeguato, avendo riguardo alla disciplina generale, sarebbe quello dell’applicazione dell’art. 1337 c.c. e, per l’effetto, un rimedio sostanzialmente risarcitorio per violazione di legittimo affidamento secondo uno schema oggi riconosciuto quale contrattuale (cfr. Cassazione civile, 12 luglio 2016 n. 14188, Italia Service s.r.l. c. Min. Difesa, in Guida al diritto, 2016, 33, p. 24, su cui C. COTICELLI, Prescrizione decennale per la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, in Diritto & Giustizia, fasc. 32, 2016, p. 4).

[41] Con specifico riferimento a detto profilo, la Commissione cita le statistiche Eurostat secondo cui vi sarebbe un aumento dei contratti a tempo parziale e determinato e secondo cui sarebbero in crescita le persone che hanno un secondo lavoro.

Leggendo la proposta di Legge n. 3564 avanzata alla Camera dei Deputati in Italia, addirittura, nella definizione di economia della condivisione, si esclude che possa sussistere un rapporto di lavoro subordinato tra gestori delle “piattaforme digitali” e gli utenti (sia gli “utenti operatori”, quelli che la Commissione europea chiama “prestatori del servizio sottostante”, che gli “utenti fruitori”, quelli che la Commissione europea chiama più semplicemente utenti).

[42] Cfr. COM(2010)373, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in tema di «Ribadire la libera circolazione dei lavoratori: diritti e principali sviluppi», del 13/07/2010.

[43] Cfr. Corte di Giustizia, 5 ottobre 1998, causa n. C-196/1987, Steymann/Staatssecretaris van Justitie, lì dove la corte ha evidenziato che «costituiscono attività economiche le attività svolte dai membri di una comunità fondata su una religione o su un’altra concezione spirituale o filosofica della vita nell’ambito delle attività commerciali esercitate da tale comunità, qualora le prestazioni fornite dalla comunità ai suoi membri possano essere considerate come l’indiretta contropartita di attività reali ed effettive». Nello stesso senso, Corte di Giustizia, 7 settembre 2004, causa n. C-456/2002, Michel Trojani/Centre public d’aide sociale de Bruxelles. Si ritiene debba escludersi soltanto l’attività di volontariato senza alcuna forma di retribuzione.

[44] Cfr. Corte di Giustizia, 20 novembre 2001, causa C-268-1999, Aldona Malgorzata Jany e altri/Staatssecretaris van Justitie.

[45] Cfr. Corte di Giustizia, 23 marzo 1982, causa n. 53/1981, D. M. Levin/Segretario di Stato per la giustizia. Proprio su detto requisito, la Commissione europea prende atto degli orientamenti giurisprudenziali comunitari secondo cui «la breve durata dell’impiego, gli orari di lavoro ridotti o la bassa produttività non possano impedire ad un cittadino dell’UE di essere considerato un lavoratore migrante nell’UE dovendosi, a tal fine, tener conto di tutte le circostanze legate alla natura delle attività in questione e alla tipologia del rapporto di lavoro». Cfr. COM(2010)373, cit.; Corte di Giustizia, 6 novembre 2003, causa n. C-413/2001, Franca Ninni-Orasche/Bundesminister für Wissenschaft, Verkehe und Kunst.

[46] Cfr. V. DE STEFANO, The rise of “just-in-time-workface”: on-demand work, crowdwork and labour protecion in the “gig-economy”, International Labour Office, Ginevra, 2016, p. 17, disponibile sul sito www.dilo.org.

[47] Cfr. V. DE STEFANO, op. cit., 2016, p. 16; Corte di Giustizia, 11 novembre 2010, causa n. C-232/2009, Dita Danosa/LKB Līzings SIA.

[48] Cfr. C. O’BRIEN, E. SPAVENTA, J. DE CONINCK, Comparative Report 2015 – The concept of worker under Article 45 TFEU and certain non-standard forms of employment, April, 2016, p. 24 ss.

[49] Cfr. I. VISCO, Guido Carli e la modernizzazione dell’economia, 2014, su www.bancaditalia.it.

[50] Il ricorso è stato depositato nel dicembre 2016 e l’udienza di comparizione delle parti fissata per l’11 gennaio 2017 è stata rinviata al 2 marzo 2017 per consentire alle parti di depositare memorie di replica.

[51] Trattasi del servizio tradizionale Uber offerto su berlina e con “autisti” che, secondo le prime dichiarazioni di Uber BV, debbono comunque avere ottenuto una licenza per NCC.

Fascicolo 2 - 2016