Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

La tutela del consumatore nel settore delle comunicazioni elettroniche tra Autorità garante della concorrenza e del mercato ed Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: esistono spazi residui per le Autorità di regolazione? (di Angelo Maria Rovati)


Nota a Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 9 febbraio 2016, n. 3

Presidente, Riccardo Virgilio – Estensore, Paolo Giovanni Nicolò Lotti

Secondo l’art. 27, comma 1-bis, decr. leg. 6 settembre 2005, n. 206, la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” ex art. 26 del Codice del consumo spetta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, anche in ipotesi di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea.

La competenza ad irrogare la sanzione per pratiche commerciali aggressive spetta comunque all’Autorità garante della concorrenza del mercato, pure per il periodo precedente all’entrata in vigore del decr. leg. 21 febbraio 2014, n. 21.

Sussiste l’interesse alla decisione del ricorso ove è contestata la competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ad irrogare la sanzione per pratiche commerciali scorrette, pure per il periodo successivo all’entrata in vigore del decr. leg. 21 febbraio 2014, n. 21.

   

SOMMARIO:

1. Il quadro normativo europeo e nazionale - 2. La procedura di infrazione 2013-2169 e la mancata attuazione della direttiva 2005-29 nel settore delle comunicazioni elettroniche - 3. L'ordinanza di rimessione e la nuova pronuncia dell'Adunanza plenaria - 4. Profili problematici della pronuncia dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato - 5. Il parere obbligatorio e non vincolante delle Autorità di regolazione ex art. 27, comma 1 bis, del Codice del consumo - NOTE


1. Il quadro normativo europeo e nazionale

È noto da tempo il conflitto di competenza tra Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora innanzi anche “AGCM”) ed Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (d’ora innanzi anche “AGCOM”) in materia di disciplina di tutela del consumatore nello specifico mercato delle comunicazioni elettroniche [2]; la prima infatti è chiamata ad applicare la disciplina generale di tutela del consumatore ex artt. 18 ss. decr. leg. 6 settembre 2005, n. 206, recante il “Co­dice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229” (d’ora innanzi anche “Codice del consumo”) che ha l’obiettivo di reprimere le pratiche commerciali scorrette (nel prosieguo anche “p.c.s.”); la seconda è invece chiamata a vigilare sul rispetto dei diritti degli utenti finali riguardo a trasparenza contrattuale, recesso dal contratto e messa a disposizione delle informazioni previste agli artt. 70 e 71 d.l. 1° agosto 2003, n. 259, recante il “Codice delle comunicazioni elettroniche” (d’ora innanzi anche “Codice delle comunicazioni elettroniche”) [3], in questo specifico mercato.

Le competenze ora dette a tutela dei consumatori e l’esistenza stessa di Autorità amministrative indipendenti sono notoriamente conformi alle indicazioni del diritto dell’Unione europea ed anzi necessarie per la conformità del­l’ordinamento italiano a quello UE [4]. L’Unione esercita una competenza concorrente a quella degli Stati membri in materia di protezione dei consumatori ex art. 4 par. 2, lett. f), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (d’ora innanzi TFUE): più specificamente, secondo l’art. 169 TFUE, “[a]l fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, l’Unione contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi”. La UE ha adottato misure attuative di questa norma di diritto primario con l’obiettivo di realizzare il mercato interno; in questo quadro essa ha emanato una normativa di carattere generale a tutela dei consumatori, la direttiva 2005/29 dell’11 maggio 2005, “relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»)” ed accanto ad essa norme protettive dei loro interessi in mercati oggetto di specifica regolazione, come ad esempio quello delle comunicazioni elettroniche disciplinato, tra l’altro dalla direttiva 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002 “relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale)”, modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 “recante modifica della direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, della direttiva 2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori”. In via di prima approssimazione, tra le discipline ora dette esiste un rapporto di specialità e complementarietà, per cui la seconda pone norme protettive “settoriali” per il mercato delle comunicazioni elettroniche, che è stato e continua ad essere oggetto di una regolazione ex ante volta alla promozione della concorrenza ed al superamento dei preesistenti monopoli de facto o de iure ex art. 106 TFUE.

Più in generale, è evidente che non è sempre chiaro il rapporto tra intervento volto all’apertura concorrenziale di un mercato (ove precedentemente esisteva un monopolista) esercitato ex ante dalle Autorità nazionali di regolazione (ANR) e controllo sulla concorrenzialità del mercato ex post realizzato dalla Commissione e/o dalle Autorità nazionali istituzionalmente volte alla tutela della concorrenza (ANC); in queste ipotesi infatti il rischio di sovrapposizione tra attività delle prime e delle seconde è tutt’altro che inesistente, con possibili problemi dal punto di vista del ne bis in idem sostanziale e procedimentale [5].

La direttiva 2005/29 ha come obiettivo in materia di tutela del consumatore la piena armonizzazione delle discipline nazionali. Conseguentemente, gli Stati membri non possono mantenere od introdurre disposizioni derogative in peius, ma neppure in melius degli interessi dei soggetti protetti: questa conclusione emerge chiaramente sia dalla lettera dei considerando 14 e 15 secondo cui questa direttiva è “impostata sull’armonizzazione completa”, sia dalle pronunce della Corte di giustizia 23 aprile 2009, cause riunite C-261/07 e C-299/07, Total Belgium e 14 gennaio 2010, C-304/08, Zentrale zur Bekampfung, secondo cui “[l]a direttiva procede […] a un’armonizzazione completa a livello comunitario. Pertanto […] gli Stati membri non possono adottare misure più restrittive di quelle definite dalla direttiva, anche al fine di garantire un livello più elevato di tutela dei consumatori” [6].

La direttiva 2005/29 e quindi il Codice del consumo, che la recepisce nell’ordinamento nazionale, si articolano secondo la seguente struttura: (a) una clausola generale che definisce la scorrettezza di una pratica commerciale quando la stessa è contemporaneamente contraria alla diligenza professionale ed idonea a falsare in modo rilevante il comportamento economico del consumatore medio (cfr. artt. 5 par. 2 e 3 direttiva 2005/29, e 20, comma 2 e 3, del Codice) [7].; (b) due ampie definizioni di pratica commerciale ingannevole (artt. 6 direttiva 2005/29 e 21 del Codice), comprendente anche le omissioni ingannevoli (artt. 7 direttiva 2005/29 e 22 del Codice) e di pratica commerciale aggressiva (artt. 8-9 direttiva 2005/29 e 24-25 del Codice) [8](c) due black list di pratiche in ogni caso ingannevoli ed aggressive (allegato I alla direttiva recante “Pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali”, rispettivamente artt. 23 e 26 del Codice).

In generale, una pratica ingannevole altera il comportamento economico del consumatore inducendolo in errore sulla natura e le caratteristiche di un prodotto o servizio ampiamente intese; invece una pratica aggressiva altera la libertà di scelta dello stesso, cercando di condizionare la sua volontà anche mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica od indebito condizionamento. L’art. 20, comma 2, del Codice del consumo adotta come parametro per valutare la correttezza di una pratica commerciale il “consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta”, oppure il “membro medio di un gruppo qualora [la stessa] sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”. La scelta di questo parametro non è stata fatta dal legislatore nazionale, ma da quello europeo all’art. 5, par. 2, lett. b), direttiva 2005/29/CE ed al considerando 18 della medesima [9].

Prima la direttiva 2002/22/CE ed oggi la direttiva 2009/136/CE introducono disposizioni speciali di protezione per l’utente dei servizi di comunicazione elettronica sancendo, tra l’altro, per le imprese del settore l’obbligo di fornire ai loro clienti informazioni complete e trasparenti. Queste direttive in materia di tutela degli utenti nel mercato delle comunicazioni elettroniche costituiscono quindi lex specialis rispetto alla lex generalis di cui alla direttiva 2005/29.

Il n. 14 direttiva 2009/136/CE riformula gli artt. 20-22 direttiva 2002/22/CE: in proposito il nuovo art. 20 par. 1 prescrive che il contratto tra imprese che forniscono servizi di connessione ad una rete di comunicazione pubblica e/o a servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico deve indicare alcune informazioni minime al consumatore in modo chiaro, dettagliato e facilmente comprensibile; l’art. 20 par. 2 prevede che “gli abbonati abbiano il diritto di recedere dal contratto, senza penali, all’atto della notifica di modifiche delle condizioni contrattuali proposte dalle imprese che forniscono reti e/o servizi di comunicazione elettronica”; il nuovo art. 21 par. 1 prevede, tra l’altro, che gli Stati membri attribuiscano alle ANR il potere di “imporre alle imprese che forniscono reti pubbliche di comunicazione elettronica e/o servizi accessibili al pubblico di comunicazione elettronica di pubblicare informazioni trasparenti, comparabili, adeguate e aggiornate in merito ai prezzi e alle tariffe vigenti, a eventuali commissioni per cessazione di contratto e a informazioni sulle condizioni generali vigenti in materia di accesso e di uso dei servizi forniti agli utenti finali e ai consumatori”; secondo il nuovo par. 2 le medesime ANR “pro­muovono la fornitura di informazioni che consentono agli utenti finali e ai consumatori di valutare autonomamente il costo di modalità d’uso alternative, ad esempio mediante guide interattive o tecniche analoghe”; ed infine i parr. 3 e 4 sanciscono altri obblighi informativi a favore degli utenti. Il Codice delle comunicazioni elettroniche ha recepito queste norme europee agli artt. 70 e 71.

I conflitti tra normativa europea generale in materia di tutela del consumatore e la disciplina speciale delle comunicazioni elettroniche sono affrontati in due diverse norme. Anzitutto, con riferimento a tutte le discipline consumeristiche speciali, l’art. 3 par. 4 direttiva 2005/29 prevede che “[i]n caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici”, secondo il cons. 10 della medesima “la presente direttiva si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore. Essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore”. La norma ora citata, letta alla luce del relativo considerando, sancisce chiaramente il principio della prevalenza della lex specialis. L’art. 19, comma 3, del Codice del consumo ha attuato questa norma europea nell’or­dinamento domestico [10]. Anche la direttiva 2002/22 come modificata dalla direttiva 2009/136 pone una norma di coordinamento; infatti secondo l’art. 1 par. 4 “[l]e disposizioni della presente direttiva relative ai diritti degli utenti finali si applicano fatte salve le norme comunitarie in materia di tutela dei consumatori, in particolare le direttive 93/13/CEE e 97/7/CE, e le norme nazionali conformi al diritto comunitario” (sottolineature aggiunte). Quindi quest’ultima norma anche nel settore delle comunicazioni elettroniche fa espressamente salva l’applicazione della disciplina europea consumeristica generale.


2. La procedura di infrazione 2013-2169 e la mancata attuazione della direttiva 2005-29 nel settore delle comunicazioni elettroniche

Il Consiglio di Stato si è pronunciato diverse volte anche in Adunanza Plenaria sui conflitti di competenza tra AGCM ed altre Autorità indipendenti preposte alla tutela del consumatore in settori specifici, giungendo a soluzioni non sempre univoche. Ad esempio il Consiglio di Stato aveva affermato la competenza di CONSOB per le pratiche commerciali scorrette poste in essere nel settore finanziario, attribuendo in questo caso competenza per la protezione del risparmiatore/investitore all’Autorità di vigilanza settoriale [11]; analogamente, l’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 13 del 2012, aveva sancito la competenza di AGCOM e non di AGCM per le p.c.s. nel settore delle comunicazioni elettroniche, stabilendo così la prevalenza della lex specialis (il Codice delle comunicazioni elettroniche) sulla lex generalis (il Codice del consumo) [12].

L’Adunanza Plenaria, più precisamente, aveva stabilito la prevalenza della normativa speciale al ricorrere di due condizioni: (i) la specificità della disciplina settoriale e (ii) la completezza ed esaustività della stessa rispetto a quella generale ai sensi del Codice del consumo.

In un primo momento anche il legislatore domestico aveva recepito quest’o­rientamento, stabilendo con l’art. 23, comma 12 – quindiquiesdecies, del d.l. 6 luglio 2012 n. 95 (convertito con modifiche dalla l. 7 agosto 2012, n. 135) che “la competenza ad accertare e sanzionare [le pratiche commerciali scorrette] è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esiste una regolamentazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati” [13]. Successivamente, anche il Tar Lazio aveva applicato le conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria in materia di comunicazioni elettroniche [14] e lo aveva pure esteso ad un altro settore per cui è prevista una disciplina specifica di tutela del consumatore, quello assicurativo [15].

Il 18 ottobre 2013 la Commissione europea ha peraltro inviato al Governo italiano una lettera di costituzione in mora ex art. 258 TFUE [16], lamentando la scorretta attuazione delle direttive 2005/29 e 2009/136 nell’ordinamento nazionale. Dato l’obiettivo di piena armonizzazione perseguito dalla direttiva 2005/29, gli Stati membri non possono introdurre disposizioni né meno protettive né maggiormente protettive degli interessi dei consumatori. In questo quadro, l’art. 23, comma 12 – quindiquiesdecies, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 e le pronunce dell’A.P. del 2012 sulla competenza di AGCOM non avrebbero assicurato nel settore delle comunicazioni elettroniche un livello adeguato di protezione per i consumatori coerente allo standard previsto dalla direttiva 2005/29; conseguentemente la legislazione domestica non avrebbe coerentemente attuato gli artt. 3 par. 4, ed 11-13 direttiva 2005/29, nonché 1 par. 4 direttiva 2009/136.

Secondo la Commissione le disposizioni settoriali speciali previste a tutela del consumatore prevalgono su quelle generali ex art. 3 par. 4 direttiva 2005/29 (letto alla luce del considerando 10) al ricorrere di tre precise condizioni:

(i) le norme speciali attuano nell’ordinamento domestico disposizioni del­l’Unione;

(ii) riguardano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette;

(iii) esiste una contrasto tra queste norme di settore e la direttiva “generale” 2005/29.

Sul punto (iii) è importante riportare le parole della Commissione secondo cui «[i]l termine “contrasto” ai sensi dell’art. 3 paragrafo 4, della direttiva fa chiaramente riferimento all’opposizione o all’incompatibilità tra norme. In tal senso, le norme nazionali di recepimento di altre direttive dell’UE che sono più specifiche della direttiva pratiche commerciali sleali prevalgono su quest’ul­tima con riguardo agli aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali che sono regolati in modo incompatibile. Ciò significa che, in qualunque altro caso, i requisiti informativi specifici che possono essere previsti da norme settoriali fondate sul diritto dell’Unione si aggiungono ai requisiti generali disposti dalla direttiva» (sottolineatura nell’originale). Quindi, la direttiva 2005/29 rispetto alle diverse disposizioni settoriali di origine europea opererebbe come «una “rete di sicurezza” che garantisce il mantenimento di un elevato livello di tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali sleali comuni a tutti i settori, “colmando le lacune” di altre specifiche normative settoriali» [17]. La Commissione legge quindi così il principio di specialità sancito all’art. 3 par. 4 direttiva 2005/29 ed ancora ricorda che l’art. 1 par. 4 direttiva 2009/136, in materia di protezione degli utenti nello specifico mercato delle comunicazioni elettroniche, fa coerentemente salva l’applicazione della disciplina generale di protezione del consumatore ex direttiva 2005/29.

Venendo alle pronunce dell’Adunanza Plenaria oggetto della lettera di costituzione in mora, la Commissione ha ritenuto che la disciplina italiana ex artt. 70 e 71 del Codice delle comunicazioni elettroniche non disciplini in modo esaustivo e completo le pratiche commerciali scorrette in questo settore e che l’adempimento degli specifici obblighi informativi ivi previsti non possa ritenersi equivalente ed addirittura “assorbente” rispetto all’applicazione della disciplina generale prevista nel Codice del consumo. Infatti, l’adempimento da parte del professionista di tutti gli obblighi informativi previsti nella fase pre-contrattuale in base al Codice delle comunicazioni elettroniche non esclude che l’impresa ponga comunque in essere pratiche scorrette a danno dei consumatori in base alle ampie e generali definizioni di scorrettezza di una pratica commerciale, ingannevolezza ed aggressività della stessa previste nel Codice del consumo: per cui questi obblighi informativi specifici si aggiungono e non sostituiscono quanto disciplinato in generale nel Codice del consumo. Ulteriormente, secondo la Commissione, la correttezza oppure la scorrettezza di una pratica commerciale non può essere determinata in generale ex ante ma unicamente ex post con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (sul punto sembra di notare una certa “assonanza” rispetto al concorso tra valutazione ex ante sull’apertura concorrenziale di uno specifico mercato ad opera delle ANR e valutazione generale ex post sulla concorrenzialità nel caso concreto operata dalle ANC ai sensi del diritto europeo e nazionale antitrust, con tutte le conseguenze sostanziali e procedurali legate alla possibile esistenza di una “doppia barriera” per le imprese del settore) [18].

La Commissione ricorda poi che l’art. 1 par. 4 direttiva 2009/136 fa salva anche in materia di comunicazioni elettroniche l’applicazione della disciplina generale a tutela del consumatore e che gli artt. 11-13 direttiva 2005/29 obbligano gli Stati membri a prevedere misure adeguate ed efficaci per contrastare e sanzionare le pratiche commerciali scorrette.

Conclusivamente, la Commissione ritiene che a seguito dell’introduzione dell’art. 23, comma 12 – quindiquiesdecies, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 e delle pronunce dell’Adunanza Plenaria del 2012, a prescindere dalla ripartizione delle competenze tra le autorità amministrative nazionali: (i) in Italia non vi sia alcuna Autorità preposta al rispetto della direttiva 2005/29 nello specifico settore delle comunicazioni elettroniche e conseguentemente che (ii) lo Stato italiano abbia violato gli artt. 3 par. 3, 11-13, direttiva 2005/29, nonché 1 par. 4 direttiva 2002/22, come modificata dalla direttiva 2009/136.


3. L'ordinanza di rimessione e la nuova pronuncia dell'Adunanza plenaria

A seguito della lettera di richiamo ora analizzata, come noto, il legislatore nazionale ha introdotto l’art. 27, comma 1 bis, del Codice del consumo secondo cui “anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente”.

La novella non ha tuttavia completamente chiarito le reciproche competenze di AGCM e delle ANR in materia di tutela del consumatore: per questo motivo la sesta sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza del 18 settembre 2015, ha nuovamente rimesso detta questione all’Adunanza Plenaria ex art. 99 c.p.a.

La sezione rimettente ha offerto alla Plenaria due diverse interpretazioni dell’art. 27, comma 1 bis. Una prima interpretazione valorizza la lettera dell’art. 27 ed attribuisce ad AGCM competenza generale in materia di pratiche commerciali scorrette anche nei settori specificamente regolati dalle ANR: e questo pure in ipotesi di norme speciali settoriali attuative di disposizioni UE che regolano in modo completo specifici aspetti delle pratiche scorrette. La seconda interpretazione attribuisce invece competenza ad AGCM nei settori specificamente regolati soltanto se le norme speciali non prevedano già ex ante una disciplina completa ed esaustiva attribuendo espressamente competenza alle ANR. Quindi, se la disciplina di settore è incompleta troverebbe applicazione esclusivamente ad opera di AGCM il Codice del consumo; diversamente se le norme speciali fossero di per sé esaustive, sarebbe competente la ANR che la legge individua per la loro applicazione. Ad avviso della sezione rimettente, quest’ultima lettura sarebbe stata più coerente con l’interpretazione del principio di specialità ex art. 3 par. 4 direttiva 2005/29 formulata dalla Commissione nella lettera di richiamo [19].

La soluzione accolta dalla successiva pronuncia dell’Adunanza Plenaria, 9 febbraio 2016, n. 3, è stata peraltro assai diversa. Il complesso iter logico-giuridico seguito in tale pronuncia può essere così sintetizzato:

(a) il Consiglio di Stato risolve il conflitto tra disciplina delle pratiche commerciali aggressive ex artt. 24-26 del Codice del consumo e violazione degli obblighi informativi ex artt. 70-71 del Codice delle comunicazioni elettroniche in termini di “progressione illecita” alla luce del principio di assorbimento-consunzione o ne bis in idem sostanziale. Questa regola è un criterio di matrice penalistica [20] che ha la funzione di risolvere le ipotesi di concorso apparente tra disposizioni sanzionatorie tutte astrattamente applicabili ad un determinato caso concreto non sulla base di un rapporto logico tra norme (come ad esempio quello di specialità), ma di valore. Si determina così l’esclusione del concorso di norme quando la commissione di un illecito sanzionato più gravemente comporta secondo l’id quod plerumque accidit la commissione di uno meno grave, che in base ad una valutazione di carattere normativo-sociale è assorbito e proporzionalmente sanzionato attraverso la pena comminata per il primo; detto principio porta quindi a sanzionare una sola volta condotte cui può attribuirsi un disvalore sociale omogeneo e ad evitare in questo modo un indebito moltiplicarsi delle sanzioni. Così declinata, la semplice violazione di obblighi informativi può essere ritenuta soltanto un elemento (peraltro accessorio) della più grave pratica commerciale aggressiva posta in essere, tra l’altro, attraverso la violazione degli obblighi ora detti. Una pratica commerciale aggressiva di tal genere richiede infatti un elemento in più rispetto all’inadempi­mento ai predetti obblighi informativi consistente in un condizionamento operato dal professionista che ha come esito la limitazione considerevole od addirittura l’esclusione della libertà di scelta dei consumatori. Quindi il disvalore socio-economico dell’inadempimento agli obblighi informativi deve ritenersi compreso e “consumato” con la più grave sanzione per le pratiche commerciali aggressive, diversamente vi sarebbe una moltiplicazione ingiustificata di sanzioni differenti applicate da Amministrazioni diverse a carico di una medesima impresa per condotte che devono ritenersi socialmente ed economicamente unitarie. A questo proposito la disposizione sanzionata più gravemente deve ritenersi quella in materia di pratiche commerciali aggressive [21].

(b) Il Collegio non rigetta del tutto le conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria nel 2012 a proposito dell’applicazione del principio (anch’esso impiegato per risolvere le ipotesi di concorso apparente tra disposizioni sanzionatorie) di specialità. Infatti la prevalenza delle norme speciali contenute nel Codice delle comunicazioni elettroniche su quelle generali recate nel Codice del consumo richiede l’esaustività e la completezza delle prime rispetto alle seconde: nel caso qui esaminato la condotta contestata all’operatore telefonico non è completamente disciplinata nelle norme di settore. Infatti, come rilevato, la mera violazione degli obblighi informativi non comporta e non sanziona ade­guatamente e proporzionalmente anche la limitazione considerevole o l’esclu­sione della libertà di scelta del soggetto parte debole del rapporto contrattuale.


4. Profili problematici della pronuncia dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato

Un’attenta dottrina a commento di questa pronuncia rileva almeno due aspetti problematici: (i) «ci si domanda se la soluzione delineata con riferimento ad ipotesi costituenti pratiche commerciali aggressive possa essere utilizzata anche in presenza di pratiche commerciali “ingannevoli”: leggendo la pronuncia, del resto, si ha quasi la sensazione che l’Adunanza Plenaria abbia consciamente limitato il principio di diritto alla ipotesi più grave di pratica commerciale aggressiva» e (ii) «risulta parimenti poco chiaro se l’interpreta­zione fornita dai giudici sia destinata ad assumere l’aspetto di una regola certa e ripetibile serialmente, oppure, di converso, se necessiti (cosa che sembrerebbe lasciare intendere la pronuncia) di una valutazione caso per caso, con la conseguenza, in questa seconda ipotesi, di poter vedere notevolmente indeboliti, a pregiudizio di consumatori ed operatori, principi cardine quali quelli di certezza del diritto e di effettività della tutela» [22].

La mia breve analisi prova a partire da queste domande.

(a) Risponderei positivamente alla prima affermazione. Infatti, nonostante l’Adunanza Plenaria abbia limitato più o meno consapevolmente l’ambito del proprio dictum alle sole pratiche commerciali aggressive, il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale ex art. 3, comma 2, Cost. impone un trattamento uguale di fattispecie omogenee, per cui la pronuncia della Plenaria dovrebbe essere estesa pure all’ipotesi di pratiche commerciali ingannevoli e quindi a tutta la materia delle pratiche commerciali scorrette ex artt. 19 ss. del Codice del consumo. Del resto, sul punto, il legislatore non ha voluto distinguere in linea di principio tra ipotesi meno grave di pratiche commerciali ingannevoli ed ipotesi più grave di pratiche aggressive, assoggettandole tutte al medesimo trattamento sanzionatorio ex art. 27 Codice del consumo (con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie si veda in particolare l’art. 27, commi 9 [23], 10 e 12).

(b) Data la mia prima affermazione risponderei positivamente pure alla seconda domanda: infatti soltanto un’interpretazione ampia di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria mi pare risultare coerente con l’art. 3 par. 4 direttiva 2005/29, come interpretato dalla Commissione. Inoltre, quest’interpretazione, come sopra rilevato, favorirebbe la certezza del diritto e la prevedibilità per le imprese di settore.

(c) Come visto supra, la lettera di richiamo della Commissione fornisce un’interpretazione dell’art. 3, par. 4, direttiva 2005/29 e quindi del principio di specialità tra norme generali e disposizioni settoriali a tutela del consumatore; in particolare secondo la Commissione il termine “contrasto” si riferisce “all’op­posizione o all’incompatibilità tra norme”, con la conseguenza che “in qualunque altro caso, i requisiti informativi specifici che possono essere previsti da norme settoriali fondate sul diritto dell’Unione si aggiungono ai requisiti generali disposti dalla direttiva” (sottolineatura nell’originale). Quindi, le disposizioni previste nelle direttive 2002/22 e 2009/136, non prevedendo un corpus normativo autonomo ed autosufficiente, non possono prevalere su quelle della direttiva 2005/29; analogamente a livello nazionale gli artt. 70 e 71 Codice delle comunicazioni elettroniche non pregiudicano l’applicazione degli artt. 20, 24 e 26. Ma, a contrario, i requisiti informativi previsti nel Codice delle comunicazio­ni elettroniche si possono aggiungere all’applicazione del Codice del consumo, se ben interpreto il pensiero della Commissione. Nel caso di specie AGCM aveva contestato a Vodafone Omnitel la violazione degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f); secondo quest’ultima disposizione, costituisce in ogni caso pratica commerciale aggressiva “esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto” posta in essere tramite un’omissione informativa. Quindi l’applicazione degli artt. 70 e 71 Codice delle comunicazioni elettroniche si aggiungerebbe a quella degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f), Codice del consumo.

Dal punto di vista sistematico, la contemporanea applicazione di discipline e sanzioni diverse per un’unica condotta lesiva ed in particolare per il concorso tra violazione della regolazione pro-concorrenziale ex ante di competenza AGCOM e la violazione del diritto antitrust accertata ex post da AGCM è già stata prospettata: si pensi all’istruttoria A 428 – Wind-Fastweb/condotte Telecom Italia, provvedimento n. 24339 di AGCM, nn. 383 ss. secondo cui “va, innanzitutto, osservato, che in base ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, i rapporti tra la disciplina antitrust e la regolazione settoriale non si configurano […] in termini di esclusione, ma di complementarietà. Le due discipline perseguono, infatti, finalità solamente in parte coincidenti: l’una (la disciplina antitrust) si occupa di intervenire nei confronti delle condotte delle imprese che ostacolano o impediscono la concorrenza; l’altra (la regolazione settoriale), attraverso regole generali, fissate a priori, mira a definire gli assetti di mercato, conformandoli ai principi della concorrenza, dell’efficienza e del progresso tecnologico, ma non può oggettivamente prevedere qualsiasi comportamento delle imprese, pena l’annullamento di ogni autonomia imprenditoriale, a danno degli utenti dei servizi” (sottolineatura aggiunta) [24]. Tale impostazione è stata pure confermata dal Tribunale di primo grado dell’Unione europea sempre in ipotesi di possibile concorso tra regolazione e disciplina antitrust in un certo mercato [25].

Inoltre, l’applicazione di una sanzione per la violazione degli artt. 70 e 71 Codice delle comunicazioni elettroniche che si aggiunga a quella prevista nel Codice del consumo, sempre se proporzionale ed adeguata al caso concreto, potrebbe essere funzionale ad attribuire una tutela rafforzata al consumatore/utente in mercati oggetto di specifica regolazione. Infatti se il legislatore europeo e di conseguenza quello nazionale hanno previsto due diverse discipline (una generale e l’altra specifica) protettive del consumatore/utente nel mercato delle comunicazioni elettroniche, ciò significa che hanno voluto stabilire un livello di tutela più elevato rispetto alle pratiche commerciali scorrette poste in essere in tutti gli altri mercati non regolati. Diversamente si darebbe un’interpretatio abrogans delle norme delle direttive settoriali e conseguentemente degli artt. 70 e 71 Codice delle comunicazioni elettroniche. Quindi, ad una pratica commerciale aggressiva in mercati non sottoposti a specifica regolazione si applicheranno soltanto le sanzioni previste dal Codice del consumo; diversamente in un mercato soggetto a regole settoriali ulteriori si applicheranno in aggiunta (secondo quanto indicato dalla Commissione) anche quelle previste dalle normative specifiche, nei limiti del principio di proporzionalità.

In conclusione, l’esistenza di norme generali e settoriali a protezione del consumatore – le prime applicabili ex ante e le seconde ex post nel caso concreto – evidenzia come la violazione degli interessi degli utenti sia in questi mercati considerata dal legislatore europeo e nazionale più grave e ciò giustifica l’applicazione di una sanzione cumulativamente più severa rispetto all’ipotesi di mercati non regolati, coerentemente al principio europeo e (quindi) nazionale di proporzionalità. E questo proprio nell’ipotesi in cui le norme speciali non costituiscano un sistema autonomo ed autosufficiente rispetto a quelle generali, diversamente si applicherebbe il principio di specialità ex art. 3 par. 3 direttiva 2005/29, con prevalenza della disciplina di settore.

Quest’impostazione potrebbe tuttavia non essere coerente con quanto affermato nella pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, in tema di divieto del ne bis in idem sostanziale e procedimentale secondo cui «l’art. 4 del Protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo “illecito” nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi» [26]. In base all’art. 4 prot. n. 7 CEDU “[n]essuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”; in proposito la Corte europea nella pronuncia citata ritiene che (punto 222) “dal punto di vista dell’articolo 6 della Convenzione, che era opportuno considerare che il procedimento dinanzi alla CONSOB riguardava una «accusa in materia penale»”. In proposito la Corte a partire dalla pronuncia 8 giugno1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, ha adottato una nozione (convenzionale) di “matière pénale” autonoma rispetto a quelle interne degli Stati parti contraenti, che si basa su tre criteri: (a) la qualificazione dell’illecito operata dal diritto interno; (b) le finalità perseguite dal legislatore domestico con sanzioni (di natura repressiva e non semplicemente ripristinatorie oppure risarcitorie) volte alla protezione di interessi generali tutelati tipicamente mediante il diritto penale; (c) la gravità della sanzione [27]. Questi criteri sono alternativi e non cumulativi [28]. Riguardo alle sanzioni comminate da AGCM in materia di illeciti anticoncorrenziali in base alla l. n. 287/1990, la Corte nella pronuncia, 27 settembre 2011, A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia richiamando la giurisprudenza Engel ha affermato che (punti 38 ss.): (a) le condotte anticoncorrenziali contestate non costituiscono reato secondo il diritto italiano, tuttavia questa circostanza non è determinante per l’applicazione dell’art. 6 della Convenzione, poiché le indicazioni del diritto nazionale hanno valore relativo; (b) le infrazioni contestate hanno lo scopo di tutelare la libera concorrenza nel mercato e sono applicate da un’Autorità amministrativa indipendente, tuttavia dette sanzioni vogliono proteggere interessi generali “normalmente tutelati dal diritto penale” ed hanno finalità sia preventiva sia repressiva; (c) queste sanzioni non possono essere sostituite con una pena detentiva, però “AGCM ha inflitto nel caso di specie una sanzione pecuniaria di sei milioni di euro, […] avente natura repressiva in quanto era volta a perseguire una irregolarità, e preventiva poiché lo scopo perseguito era quello di dissuadere la società interessata dal reiterare la condotta. Inoltre […] la natura punitiva di tali infrazioni risulta anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato”. La Corte conclude, allora, affermando la natura penale delle sanzioni applicate da AGCM ex lege 287/1990 in base alle richiamate norme della CEDU. Mutatis mutandis, detta conclusione sembra valere anche per le sanzioni applicate da AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette, infatti pure in questo caso esse vogliono tutelare la libertà (di scelta del consumatore) nel mercato ed hanno natura sia preventiva sia repressiva; lo stesso dicasi per quelle applicate da AGCOM. Quindi astrattamente sia le sanzioni applicate da AGCM sia quelle applicate da AGCOM riguardano la “matière pénale” ai sensi della Convenzione, per cui si può porre il problema del ne bis in idem sostanziale.

Sul punto l’Adunanza Plenaria qui commentata ritiene che l’art. 4 prot. n. 7 CEDU vieti soltanto il «“doppio binario” sanzionatorio, vale a dire [la] previsione, per il medesimo fatto, di sanzioni di natura distinta (sul piano della qualificazione interna) applicabili alla stessa persona tramite procedimenti di diverso tipo» (sottolineatura aggiunta); ulteriormente – prosegue la Plenaria – l’art. 4 prot. n. 7 CEDU non impedisce la contemporanea pendenza di due procedimenti per il medesimo fatto ma che uno di essi inizi o continui dopo che la decisione resa sull’altro sia divenuta definitiva, sia in caso di accertamento della responsabilità come anche di “assoluzione”. Quindi la Corte europea ha rilevato la violazione del ne bis in idem in caso di concorso tra sanzione penale di competenza dell’Autorità giudiziaria ed amministrativa irrogata da CONSOB: nel caso dell’applicazione congiunta di sanzioni tra AGCM ed AGCOM non sussisterebbe quindi il concorso tra illeciti di carattere diverso, in quanto entrambi di natura amministrativa.

Recentemente, tuttavia, la Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia della Grande Camera, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, sembra aver ulteriormente definito il proprio pensiero sull’applicazione del principio del ne bis in idem con particolare riferimento alla coesistenza di un procedimento penale e di uno amministrativo. In particolare secondo la Corte (cfr. il comunicato stampa relativo alla pronuncia disponibile sul sito internet della Corte) “it had no cause to cast doubt on the reasons why the Norvegian legislature had opted to regulate the socially harmful conduct of non-payment of taxes by means of an integrated dual (administrative/criminal) process. Nor did call into question the reasons why the Norvegian authorities had chosen separately with the more serious and socially reprehensible aspect of fraud in the context of criminal proceedings rather than an ordinary administrative procedure. The Court found that the conduct of dual proceedings, with the possibility of a combination of different penalities, had been foreseeable for the applicants, who must have known from the outset that criminal prosecution as well as the imposition of tax penalities was possibile, or even likely, on the facts of theier cases. The Court observed that the administrative and criminal proceedings had been conducted in parallel and were interconnected. The facts established in one of the sets of proceedings had been relied on in the other set as regards the proportionality of the overall punishment, the sentence imposed in the criminal trial had taken account of the tax penality” (sottolineatura aggiunta). Sul punto la Corte sembra quindi valorizzare l’esistenza di una connessione temporale e sostanziale sufficientemente stretta tra i due procedimenti, la prevedibilità per le parti della coesistenza degli stessi come conseguenza della medesima condotta e la proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata [29]. Queste considerazioni, oltre a quelle fatte dal Consiglio di Stato sopra riportate, possono portare a valutare positivamente la compatibilità con il principio del ne bis in idem della congiunta pendenza di due procedimenti davanti ad AGCM e ad AGCOM, purché questa circostanza sia prevedibile per le imprese coinvolte e la sanzione complessivamente irrogata sia comunque proporzionale alla gravità dell’illecito commesso.

(d) L’art. 27, comma 1 bis, attribuisce ad AGCM una competenza generale in materia di pratiche commerciali scorrette seppur realizzate nei settori regolati, precisando tuttavia che “[r]esta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta”: ci si può allora chiedere se il legislatore ritenga esistenti ipotesi di violazione delle norme settoriali a protezione dei consumatori che non integrino nel contempo una p.c.s., se si vuole interpretare la disposizione nel senso di attribuirle un significato [30].

Anzitutto, la nozione di p.c.s. definita all’art. 18 e ripresa agli artt. 19 e 20 del Codice del consumo è molto ampia: infatti secondo dottrina e giurisprudenza vi rientrerebbe ogni condotta posta in essere da un professionista attiva oppure omissiva suscettibile di condizionare la capacità decisionale del consumatore, rimanendone estranei soltanto comportamenti che pur ledendo gli interessi degli utenti non ne alterano la capacità decisionale (come un illecito antitrust, ad esempio un’intesa restrittiva tra imprese volta a mantenere prezzi elevati sul mercato ex art. 101 TFUE) [31]. Poi, può trattarsi anche di singoli atti, senza che debba essere dimostrata da parte di AGCM l’esistenza di una prassi consolidata in capo al professionista [32]: in proposito ad esempio secondo Tar Lazio 11 giugno 2009 n. 5570 “l’affermata sporadicità della vicenda […] non integra idoneo fondamento giustificativo al fine di escluderne la sussumibilità in una tipologia di condotta come sopra stigmatizzata dalle indicate disposizioni del D.Lgs. 206/2005” ed in particolare degli artt. 20, 21, 24 e 25 del medesimo Codice. Infine, si tratta di un illecito anche di pericolo (e non solo di danno) di carattere oggettivo, per cui non rileva la colpevolezza del professionista [33].

Conclusivamente la nozione di pratiche commerciali scorrette come interpretata da dottrina e giurisprudenza mi parrebbe tale da assegnare un ruolo marginale a violazioni di regole imperative poste a tutela degli utenti che non integrano al contempo illeciti ai sensi del Codice del consumo.


5. Il parere obbligatorio e non vincolante delle Autorità di regolazione ex art. 27, comma 1 bis, del Codice del consumo

Come visto, l’art. 27, comma 1 bis, del Codice del consumo prevede che AGCM nell’esercizio della propria generale competenza in materia di p.c.s. anche per i settori regolati acquisisca prima della decisione finale il parere del­l’Autorità di regolazione competente. Questa norma sostanzialmente estende a tutti i settori regolati quando già previsto in particolare all’art. 27, comma 6 per l’ambito specifico delle comunicazioni secondo cui “[q]uando la pratica commerciale è stata o deve essere diffusa attraverso la stampa periodica o quotidiana ovvero per via radiofonica o televisiva o altro mezzo di telecomunicazione, l’Autorità, prima di provvedere, richiede il parere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni”; analogamente dispone l’art. 8, comma 6 decr. leg. 145/2007, recante “Attuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole” in materia di pubblicità ingannevole tra professionisti. In proposito l’art. 16 della delibera AGCM 1 aprile 2015, n. 25411 sulle procedure istruttorie relative a p.c.s. [34] definisce nel dettaglio le modalità e la tempistica della richiesta del parere ora detto.

I pareri ex artt. 27, commi 1 bis e 6 Codice del consumo, nonché 8, comma 6 decr. leg. 145/2007, sono obbligatori e non vincolanti, nel senso che AGCM deve obbligatoriamente richiederli alla ANR competente a pena di annullabilità dell’atto finale del procedimento in materia di p.c.s., e tuttavia se ne può discostare motivando in modo adeguato le ragioni del suo diverso convincimento. La loro mancata emanazione da parte dell’ANR non inficia la validità del provvedimento finale di AGCM e sul parere non deve formarsi un contraddittorio con la parte privata essendo il medesimo un atto endoprocedimentale non direttamente lesivo degli interessi dei professionisti coinvolti [35].

Come già affermato dalla giurisprudenza amministrativa con riguardo al­l’art. 27, comma 6, anche in questo caso AGCM potrà discostarsi dal parere obbligatorio e non vincolante delle ANR, tuttavia in proposito dovrà motivarne adeguatamente le ragioni: sussiste quindi in tale caso un onere di motivazione “rafforzato” del provvedimento da parte di AGCM ex art. 3 l. n. 241/1990.

La recente pronuncia del Tar Lazio, 10 maggio 2016, Abbanoa spa, ha confermato quest’orientamento ritenendo illegittimo il provvedimento di AGCM che si è discostato dal parere ex art. 27, comma 1 bis, del Codice del consumo reso dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico (AEEGSI) in assenza di una adeguata motivazione.

Nel caso di specie, detto parere dava atto della conformità alla normativa di settore (e quindi agli obiettivi di interesse generale perseguiti dalla stessa) dell’operato della società ricorrente, che invece AGCM ha ritenuto contrario agli artt. 20, 21, comma 1, lett. d), 22, commi 1, 2 e 4, lett. c), 24 e 25, lett. a) e lett. d), del Codice del consumo.

Secondo la pronuncia del Tar Lazio ora citata, «AGCM, …, nel discostarsi dalle conclusioni raggiunte nel ripetuto parere, non ha offerto alcuna motivazione se non una clausola di stile per giustificare la propria scelta di non condividere la posizione diffusamente adottata dal Regolatore, limitandosi ad osservare come le considerazioni rese da AEEGSI fossero, in sostanza, inconferenti rispetto all’oggetto della sua indagine, e, in tal modo, si è sottratta al proprio obbligo motivazionale. // L’Autorità avrebbe invece dovuto motivare in modo esauriente le ragioni per le quali non ha ritenuto condivisibili le osservazioni rese dall’Autorità di regolazione; come rileva la giurisprudenza, infatti, “laddove la pubblica amministrazione procedente intende discostarsi da un parere acquisito nel corso del procedimento (obbligatorio, facoltativo o semivincolante), essa deve fornire un’idonea ed adeguata motivazione, pena l’illegittimità del provvedimento amministrativo conclusivo del procedimento” (T.A.R. Veneto, Venezia, sez. III, 30 maggio 2003, n. 3049)».


NOTE

[1] Si precisa che le opinioni espresse dall’Autore, attualmente inquadrato presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sono frutto del suo personale convincimento, impegnano esclusivamente lo stesso e non possono in alcun modo essere ritenute come rappresentative di orientamenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni o impegnative per la stessa.

[2] In generale sul conflitto di competenze tra AGCM ed AGCOM in materia di tutela del consumatore nel settore delle comunicazioni elettroniche v. ex multis CARBONE-D’ADAMO-DELL’ORO, Ambito di operatività dell’Antitrust e dell’Agcom e principio di specialità, in Corr. giur., 2012, p. 883 ss.; NASTI, Pratiche commerciali scorrette nelle comunicazioni elettroniche: l’actio fiumum regundorum del Consiglio di Statoivi, p. 1363 ss.; PERUGINI, I “nuovi” strumenti di intervento dell’AGCMivi; NAVA, Il legislatore interviene nuovamente sul riparto di competenze tra AGCM e autorità di settore in merito all’applicazione delle pratiche commerciali scorrette: la soluzione definitiva?, in Dir. merc. tecn., 2014, 11, p. 44 ss.; ROSSI CARLEO, Il pubblic enforcement nella tutela dei consumatori, in Corr. giur., 2014; PETTI, Il riparto di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette nei settori regolati. Riflessioni sul decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 21, in federalismi.it, 2015; RABAI, La tutela del consumatore-utente tra Autorità Antitrust e Autorità di regolazione, in questa Rivista, p. 89 ss.; ZOPPINI, Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti ai “Codici di settore” (lo ius variandi nei Codici del consumo e delle comunicazioni elettroniche), in Riv. dir. civ., 2016; GALLO, Sanzione per pratica commerciale considerata aggressiva – La competenza sanzionatoria nei rapporti tra AGCM ed altre Autorità indipendenti, in Giur.it., 2016, p. 1206 ss..

[3] Le Autorità indipendenti riguardo alla protezione dei consumatori/utenti, ma anche a protezione di altri interessi come quelli alla tutela della concorrenza od alla sua promozione emettono, tra l’altro, inibitorie amministrative di attività nei confronti dei professionisti e/o delle imprese coinvolte. Le inibitorie amministrative consistono nell’ordine di astenersi da comportamenti lesivi di (altrui) diritti anche collettivi e/o diffusi provenienti da una pubblica autorità nell’esercizio di una competenza amministrativa in senso tradizionale o paragiurisdizionale. Quest’ultima funzione è tipica delle cd. autorità amministrative indipendenti e consiste nell’accertare e qualificare fatti, atti e comportamenti come leciti oppure illeciti in base ai criteri indicati dalla disciplina del settore che le stesse devono regolare e su cui devono vigilare.

L’attività svolta dalle cd. Authorities ivi compresa quella cd. paragiurisdizionale ha tuttavia natura amministrativa e non giurisdizionale in senso proprio: e questo tra l’altro perché è in via residuale attività amministrativa quanto non è riservato dalla legge alla competenza dell’Autorità giudiziaria e del Parlamento. La funzione paragiurisdizionale consiste quindi anche nel risolvere i conflitti tra gli operatori presenti sul mercato regolato e vigilare sugli stessi, sanzionandone le inosservanze. Su questi temi v. ex multis in dottrina GAROFOLI-FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Nel diritto editore, Roma, 2009, 2 ed., p. 261; CARINGELLA, Compendio di diritto amministrativo, DIKE, Roma, 2010, p. 662; TONOLETTI, La tutela della proprietà intellettuale tra giurisdizione e amministrazione, in AIDA, 2013, p. 341; ed in giurisprudenza ad esempio Cass. 20 maggio 2002 n. 7341, in Giur.it., 2003, 856, secondo cui “l’ordinamento giuridico non conosce un tertium genus tra amministrazione e giurisdizione, alle quali la Costituzione riserva rispettivamente gli artt. 111 e 97”. In generale sui provvedimenti delle autorità amministrative indipendenti sui relativi procedimenti sanzionatori v. ex multis CAMARDI, Inibitorie amministrative di attività, in AIDA, 2012, p. 268 ss.; MIRONE, Verso la despecializzazione dell’Autorità antitrust. Prime note sul controllo delle clausole vessatorie ai sensi dell’art. 37-bis cod. cons., ivi, p. 296 ss.; v. R. CHIEPPA, Le sanzioni delle Autorità indipendenti: la tutela giurisdizionale nazionale, in Giur. comm., 2013, p. 340 ss.; BRUZZONE-BOCCCACCIO-SAJA, Le sanzioni delle Autorità indipendenti nella prospettiva europea, ivi, p. 387 ss..

[4] L’art. 30 della proposta COM(2016) 287 presentata dalla Commissione europea in data 25 maggio 2016, che modifica la direttiva 2010/13/UE, obbliga gli Stati membri ad istituire Autorità indipendenti di regolazione anche per il settore dell’audiovisivo disciplinato nella dir. 2010/13. In questo modo dette competenze sono espressamente sottratte agli apparati amministrativi direttamente subordinati al Governo e/o al Ministro competente ed ai loro indirizzi politici. È evidente che sul punto la legislazione italiana è già conforme proprio grazie all’istituzione di AGCOM operata con l. 249/1997 ed alla sue competenze in materia di vigilanza, tutela del pluralismo e regolazione nel settore dell’audiovisivo.

[5] Su questo tema v. in dottrina ad esempio MARINI BALESTRA, Manuale di diritto europeo e nazionale delle comunicazioni elettroniche, CEDAM, 2013, p. 7 ss. e MANNONI, La regolazione delle comunicazioni elettroniche, Il Mulino, 2014, p. 70 ss..

[6] Così il punto 50 della citata pronuncia C-304/08 e la lettera di costituzione in mora della Commissione per la procedura di infrazione 2013/2169, che recepisce queste indicazioni.

[7] In particolare secondo il citato art. 20, comma 2 “[u]na pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”.

[8] In particolare rispettivamente secondo l’art. 21, comma 1 “[è]considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” e l’art. 24 “[è] considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.

[9] Detto considerando fornisce pure una definizione puntuale di consumatore medio secondo cui “[c]onformemente al principio di proporzionalità, e per consentire l’efficace applicazione delle misure di protezione in essa previste, la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, ma contiene altresì disposizioni volte ad evitare lo sfruttamento dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali”. Anche il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale (60ª edizione, in vigore dal 12 novembre 2015) fa riferimento al parametro del consumatore medio a partire dalla 44ª edizione dello stesso conformemente all’indicazione della dir. 2005/29 ed all’art. 20, comma 2, del Codice del consumo (cfr. l’art. 2, comma 2 del Codice nella versione attualmente vigente secondo cui “[n]el valutare l’ingannevolezza della comunicazione commerciale si assume come parametro il consumatore medio del gruppo di riferimento”). Recependo le indicazioni europee e nazionali, il Codice di autodisciplina ed il Giurì hanno quindi abbandonato il criterio autodisciplinare tradizionale relativo al consumatore più sprovveduto, cioè quello meno agguerrito criticamente nei confronti della pubblicità. Sul parametro del consumatore medio v. in generale ex multis TESTA, Concorrenza sleale, pratiche commerciali scorrette, pubblicità, segreto, in L.C. UBERTAZZI La proprietà intellettuale, Torino, Giappichelli, 2010, p. 421 ss.

Sulla definizione di consumatore medio v. ad esempio il punto 78 della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea 19 settembre 2006, causa C-356/04, LidlBelgiumGmbH& Co KG, (disponibile all’indirizzo http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?text=&docid=64423&page
Index=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=306633
) secondo cui “i detti organi giurisdizionali devono, da un lato, prendere in considerazione la percezione del consumatore medio dei prodotti o servizi oggetto della pubblicità di cui trattasi, di regola informato e ragionevolmente attento e avveduto (v. sentenze X, precitata, punti 15 e 16; 16 luglio 1998, causa C-210/96, GutSpringenheide e Tusky, Racc. pag. I-4657, punto 31; 13 gennaio 2000, causa C-220/98, EstéeLauder, Racc. pag. I-117, punto 27; 24 ottobre 2002, causa C-99/01, Linhart e Biffi, Racc. pag. I-9375, punto 31, e PippigAugenoptik, precitata, punto 55). Nel caso di specie, i due sistemi pubblicitari controversi si rivolgono non a un pubblico specializzato, ma al consumatore finale che effettui i suoi acquisti di consumo corrente in una catena di grandi magazzini”.

L’art. 20, comma 3, del Codice pone una regola puntuale, ma coerente con il principio espresso al citato comma 2. Tale norma riprende testualmente ed attua nell’ordinamento nazionale l’art. 5, par. 3, ed il considerando 19 dir. 2005/29, essa stabilisce quindi una protezione rafforzata a favore sia di bambini ed adolescenti sia di soggetti la cui capacità decisionale sia influenzata da altri fattori come l’età avanzata, la salute ed ulteriori situazioni di disagio come ad esempio l’esistenza di problemi estetici. Quindi le cautele adottate dal professionista riguardo ad una comunicazione commerciale rivolta ad un pubblico “generico”, non saranno sufficienti ad esempio per una comunicazione indirizzata ad un pubblico composto da minori. Su queste tematiche v. in dottrina ex multis PONCIBÒ, Il consumatore medio, in Contr. impr. eur., 2007, p. 756 ss. e COTTAFAVI, sub art. 20 del Codice del consumo, in L.C. UBERTAZZI Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, CEDAM, Padova, 6 ed., 2016. Riguardo alle pronunce di AGCM relative ad un determinato gruppo di consumatori ex art. 20, comma 2, del Codice v. ad esempio PS 6285 – Fin.news-pubblicità finanziamenti, Provvedimento n. 22314, del 20 aprile 2011, con riferimento alla “debolezza dei destinatari, soggetti che presumibilmente versano in una situazione di particolare debolezza psicologica dovuta alle proprie condizioni economiche” (punto 17) e PS 5854 – Studio Rivolation 2009, Provvedimento n. 22673, del 4 agosto 2011, con riferimento alla “situazione di debolezza in cui si trovano i destinatari dell’inserzione pubblicitaria, normalmente soggetti in cerca di un’occupazione e, pertanto, facilmente attratti da offerte di lavoro all’apparenza allettanti” (punto 26).

[10] Secondo questa norma “[i]n caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”.

[11] Consiglio di Stato 3 ottobre 2008, in www.giustizia-amministrativa.it.

[12] Secondo la pronuncia dell’A.P. 11 maggio 2012, n. 13 “[i]l D.L. n. 7/2007, come convertito nella legge n. 40/2007, attribuisce alla competenza della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il potere di stabilire regole, di vigilare e di sanzionare chi violi le disposizioni concernenti la ricarica nei servizi di telefonia mobile, la trasparenza e la libertà di recesso dai contratti con operatori telefonici, televisivi e di servizi internet, con esclusione di una competenza concorrente della Autorità per la concorrenza nel mercato, che è invece titolare del potere di valutare autonomamente il profilo anticoncorrenziale di clausole contrattuali, poste in essere nell’ambito di condotte che integrano le fattispecie di abuso di posizione dominante o di intese restrittive della concorrenza” e “[o]ve la medesima fattispecie sia prevista tanto da una disciplina generale, come da una disciplina speciale, e questa seconda riproduca tutti gli elementi della prima, e aggiunga un ulteriore elemento di specificità, il principio di specialità è da considerarsi prevalente”, in Giorn. dir. amm., 2012, 953.

Tuttavia riguardo al mercato bancario con riferimento a condotte anteriori all’entrata in vigore del decr. leg. 13 agosto 2010 n. 141, il Consiglio di Stato ha riconosciuto la competenza di AGCM e non della Banca d’Italia per l’applicazione della disciplina delle p.c.s. ad un’impresa del settore finanziario soggetta alla disciplina del Testo unico bancario, attribuendo quindi competenza ad AGCM in quanto Autorità preposta in generale alla tutela del consumatore. Secondo A.P. 11 maggio 2012, n. 14, infatti “occorre ribadire e precisare quanto già evidenziato dal primo giudice, e cioè che il t.u.b. – quanto meno nella versione vigente all’epoca dei fatti per cui è causa – non contiene alcuna disposizione intesa a perseguire, direttamente o indirettamente, finalità di tutela del consumatore. […] Risulta dunque confermato che il d.lgs. n. 385 del 1993, nella versione che qui interessa, era volto a perseguire finalità le quali, ancorché genericamente riconducibili al corretto e trasparente funzionamento del mercato nel settore di riferimento, non comprendono fra di esse la tutela del consumatore in quanto tale. In particolare, resta fuori dall’area del controllo e delle possibili sanzioni la fase antecedente il contatto diretto tra operatore finanziario e risparmiatore finalizzato all’acquisto di un prodotto finanziario presso lo sportello bancario o presso gli uffici dell’operatore”.

[13] Su questi temi ed anche per ulteriori citazioni v. COTTAFAVI, sub art. 19 Codice del consumo, in L.C. UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, cit.; ALESSANDRI, sub art. 27 Codice del consumoivi.

[14] Sul tema v. TAR Lazio, 18 febbraio 2013, n. 1742, in Leggi d’Italia De Agostini, secondo cui “[i]l principio di specialità – sancito nell’art. 19 d.lgs. 206/2005 (Codice del consumo) – comporta che la disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette non possa trovare applicazione quando sussista una disciplina speciale di settore che non si limiti a regolare puntualmente e compiutamente il contenuto degli obblighi di correttezza, sotto il profilo informativo e di condotta, in una specifica materia, ma definisca anche i relativi poteri ispettivi, inibitori e sanzionatori, attribuendoli ad una Autorità settoriale”; e TAR Lazio, 18 febbraio 2013, n. 1752, ivi, con analoga affermazione.

[15] Così la lettera di contestazione pag. 5 che cita la pronuncia del TAR Lazio, 17 gennaio 2013, n. 535, secondo cui “le disposizioni normative in rassegna evidenziano l’attribuzione in capo all’ISVAP di una generale competenza nella materia delle assicurazioni private anche con specifico riferimento alla tutela del consumo; dal descritto quadro normativo risulta infatti l’attribuzione all’Istituto di chiari e specifici poteri interdittivi, sanzionatori e prescrittivi in materia di pubblicità di prodotti assicurativi avendo, oltretutto, l’ISVAP dato attuazione alle disposizioni in questione mediante la suindicata Circolare, applicabile a tutte le fattispecie di pubblicità di prodotti assicurativi. […] Tanto basta […] per risolvere in favore dell’ISVAP il conflitto di competenze con l’AGCM in merito all’applicazione della normativa in materia di tutela del consumatore con riguardo ai prodotti assicurativi e per decretare la conseguente esclusione dell’applicazione delle norme generali del Codice del Consumo alla condotta in esame”.

[16] Nell’ambito della procedura d’infrazione 2013/2169.

[17] Così la lettera di contestazione pag. 6. Sulle affermazioni della Commissione e sulla interpretazione che quest’ultima ha adottato del principio di specialità ex art. 3 par. 4 dir. 2005/29 v. anche NAVA, Il legislatore interviene nuovamente sul riparto di competenze tra Agcom e Autorità di settore in merito all’applicazione delle pratiche commerciali scorrette: la soluzione definitiva?, cit., 56, disponibili all’indirizzo http://www.dimt.it/wp-content/uploads/2014/07/DIMT2014_1.pdf, secondo cui “la vis espansiva della direttiva 2005/29/CE non si limiterebbe a colmare le lacune della normativa speciale, ma si affiancherebbe ponendo ulteriori oneri agli obblighi informativi ritenuti sufficienti dalla regolamentazione settoriale (anch’essa di matrice comunitaria) ed imponendo in capo al professionista un duplice regime informativo, anche qualora l’Autorità di settore, delegata a regolare, vigilare e sanzionare l’operato dei professionisti del settore, abbia legittimamente ritenuto sufficiente un diverso grado o un diverso tipo (non incompatibile) di onere informativo”; quest’interpretazione secondo l’autorevole dottrina citata dovrebbe tuttavia essere vagliata dalla Corte di giustizia UE anche riguardo al principio del ne bis in idem.

[18] MARINI BALESTRA, Manuale di diritto europeo, cit., p. 16 ss., secondo cui l’esistenza di questa doppia barriera per le imprese (regolazione da un lato con competenza delle ANR, tutela della concorrenza dall’altro con competenza delle ANC) sarebbe contraria al principio del ne bis in idem.

[19] Per un’esposizione delle diverse argomentazioni offerte dalla sezione rimettente all’A.P. v. RABAI, La tutela del consumatore-utente tra Autorità Antitrust e Autorità di regolazione, cit., p. 110 ss.

[20] Sul principio del ne bis in idem in materia penale v. per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto penale Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2014, 7 ed., 636 ss.

[21] Infatti secondo l’art. 27, comma 9 del Codice del consumo “[c]on il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Autorità dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 euro a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Nel caso di pratiche commerciali scorrette ai sensi dell’articolo 21, commi 3 e 4, la sanzione non può essere inferiore a 50.000,00 euro”; invece secondo l’art. 98, comma 16, del Codice delle comunicazioni elettroniche “[i]n caso di inosservanza delle disposizioni di cui agli articoli 60, 61, 70, 71, 72 e 79 il Ministero o l’Autorità, secondo le rispettive competenze, comminano una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 58.000,00 ad euro 580.000,00”. La sanzione comminabile da AGCM è quindi più afflittiva nel massimo edittale, pur non essendolo nel minimo visto che può essere astrattamente applicata anche a professionisti che abbiamo un’attività economica davvero limitata e rilevante soltanto a livello locale.

[22] Così RABAI, La tutela del consumatore-utente tra Autorità Antitrust e Autorità di regolazione, cit., pp. 112-113.

[23] Con riferimento alle pratiche commerciali ingannevoli l’unica graduazione della sanzione amministrativa pecuniaria in base alla tipologia di condotta è quella riguardante l’art. 21, commi 3 e 4 secondo cui “[è] considerata scorretta la pratica commerciale che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, omette di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza” ed “[è] considerata, altresì, scorretta la pratica commerciale che, in quanto suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti, può, anche indirettamente, minacciare la loro sicurezza”.

[24] Per ulteriori citazioni sul punto e per la critica di questa prassi anche in base al principio del ne bis in idem v. MARINI BALESTRA, Manuale di diritto europeo, cit., p. 16 ss..

[25] Si tratta della pronuncia del Tribunale, 10 aprile 2008, T‑271/03, Deutsche Telekom AG, par. 263 secondo cui “per quanto riguarda la censura della ricorrente secondo cui la Commissione sottoporrebbe le tariffe praticate dalla ricorrente a una doppia regolamentazione e avrebbe quindi violato i principi di proporzionalità e di certezza del diritto, si deve rilevare che il quadro normativo comunitario cui fa riferimento la ricorrente, menzionato al precedente punto 258, non incide minimamente sulla competenza ad accertare le infrazioni agli artt. 81 CE e 82 CE conferita alla Commissione direttamente dall’art. 3, n. 1, del regolamento n. 17 nonché, dal 1° maggio 2004, dall’art. 7, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio 16 dicembre 2002, n. 1/2003, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli [81 CE] e [82 CE] (GU 2003, L 1, pag. 1)” e par. 268 “le decisioni della RegTP non contengono alcun riferimento all’art. 82 CE (v. supra, punto 114). Inoltre, le affermazioni della RegTP secondo cui «la lieve differenza tra le tariffe al dettaglio e le tariffe all’ingrosso non limita le possibilità dei concorrenti di competere nell’ambito della rete locale a tal punto da rendere economicamente impossibile un ingresso vantaggioso sul mercato, o addirittura la sopravvivenza sul mercato» (decisione della RegTP 29 aprile 2003), non escludono che le pratiche tariffarie della ricorrente falsino la concorrenza ai sensi dell’art. 82 CE. Anzi, dalle decisioni della RegTP risulta implicitamente ma necessariamente che le pratiche tariffarie della ricorrente hanno un effetto anticoncorrenziale, dato che i concorrenti devono fare ricorso a una sovvenzione incrociata per poter rimanere competitivi sul mercato dei servizi di accesso (v. supra, punti 119 e 238)”. Per ulteriori citazioni sul punto v. sempre MARINI BALESTRA, Manuale di diritto europeo, cit., p. 16 ss..

[26] Per un commento a questo pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo v. ex multis PALLADINO, Il potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti tra matière pénale e divieto di bis in idem (note a margine della sentenza Corte EDU, Grande Stevens e altri c. Italia, 4 marzo 2014), in questa Rivista 2014; GUIZZI, La sentenza CEDU 4 marzo 2014 e il sistema delle potestà sanzionatorie delle Autorità amministrative indipendenti: sensazioni di un civilista, in Corr. giur., 2014, p. 1321 ss..

[27] PALLADINO, op. cit., p. 2 ss..

[28] Cfr. sul tema la pronuncia della Corte Menarini, citata appena dopo, punto 38.

[29] Per un primo commento a questa pronuncia della Corte CEDU v. VIGANÒ, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in www.penale
contemporaneo
.it all’indirizzo http://www.penalecontemporaneo.it/d/5063-la-grande-camera-della-corte-di-strasburgo-su-ne-bis-in-idem-e-doppio-binario-sanzionatorio.

[30] Questa circostanza sembra considerata anche da NAVA, Il legislatore interviene nuovamente sul riparto di competenze tra Agcom e Autorità di settore in merito all’applicazione delle pratiche commerciali scorrette: la soluzione definitiva?, cit., p. 56.

[31] Così ad esempio COTTAFAVI, sub art. 19 del Codice del consumo, in L.C. UBERTAZZI Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, cit., e BARGELLI, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di DE CRISTOFARO, Giuffrè, Milano, 2008, p. 103.

[32] Così COTTAFAVI, sub art. 19 del Codice del consumo, cit., ed in giurisprudenza ad esempio TAR Lazio 9 agosto 2010, n. 30428, secondo cui il legislatore ha adottato una definizione di p.c.s. “estremamente ampia, essendo sufficiente che la condotta venga posta in essere nel quadro di un’attività d’impresa finalizzata alla promozione e/o commercializzazione di un prodotto o di un servizio”.

[33] Così D’ANTONIO, La comunicazione commerciale, in SICA e ZENO-ZENCOVICH, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, CEDAM, Padova, 2012 3 ed., p. 242 ss. e COTTAFAVI, sub art. 20 del Codice del consumo, cit.

[34] Si tratta del “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette, violazione dei diritti dei consumatori nei contratti, violazione del divieto di discriminazioni, clausole vessatorie”. Secondo l’art. 16, commi 3, 4 e 5 di questa delibera:

3. Il responsabile del procedimento, nei casi di cui all’articolo 8, comma 6, del decreto legislativo sulla pubblicità ingannevole ovvero all’articolo 27, comma 6, del Codice del Consumo, prima dell’adempimento di cui al comma 2 del presente articolo, [rimessione degli atti al Collegio per la decisione finale] richiede il parere all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, alla quale trasmette gli atti del procedimento secondo le modalità di cui all’articolo 19, comma 1. L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni comunica il proprio parere entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta.

4. In caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere o senza che l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni abbia rappresentato esigenze istruttorie, l’Auto­rità Garante della Concorrenza e del Mercatoprocede indipendentemente dall’acquisi­zione del parere stesso.Nel caso in cui l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni abbia rappresentato esigenze istruttorie, il termine di conclusione del procedimento è sospeso, per un periodo massimo di trenta giorni, dalla data di ricezione, da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, delle notizie e documenti richiesti sino alla data in cui pervenga il relativo parere.

5. Il presente articolo trova applicazione anche con riferimento ai procedimenti in cui sono previsti i pareri di cui all’articolo 27, comma 1-bis, del Codice del Consumo.Nell’ambito di questi procedimenti, in caso di presentazione di impegni, ove l’Autorità non ritenga la pratica commerciale manifestamente grave e scorretta ai sensi dell’art. 27, comma 7, del Codice del Consumo ovvero non ritenga manifestamente inidonei gli impegni proposti, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera a) del presente regolamento, il termine per rendere il parere è di quarantacinque giorni dal ricevimento della richiesta ed il termine del procedimento si estende di quindici giorni” (sottolineatura aggiunta).

[35] Sul tema v. in dottrina FUSI-TESTA-COTTAFAVI, La pubblicità ingannevole, Giuffrè, Milano, 1993, 294; TESTA, sub art. 16 delibera AGCM 15 novembre 2007 n. 17590, in L.C. UBERTAZZI Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, CEDAM, Padova, 5 ed., 2012. In giurisprudenza secondo TAR Lazio 29 dicembre 2009, n. 13789, “[v]a in proposito ribadito quanto in proposito da questa Sezione più volte affermato (cfr., ex multis, sentenza 16 aprile 2007 n. 3293), in ordine al carattere obbligatorio, ma non vincolante, assunto dal parere che quest’ultima è chiamata a rendere nel procedimento per la repressione di condotte commerciali non corrette, laddove – come appunto nel caso in esame – la diffusione del messaggio avvenga attraverso la stampa periodica o quotidiana ovvero per via radiofonica o televisiva, o, comunque, mediante altro mezzo di telecomunicazione. Se, conseguentemente, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ben può discostarsi da tale parere mediante ostensione di adeguato apparato motivazionale, nel caso in esame il difforme convincimento che ha condotto AGCM a ritenere violate le citate norme del Codice del Consumo si rivela congruamente esplicitato” (sottolineatura aggiunta).

Fascicolo 2 - 2016