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Sono passati cinque anni – era il giugno del 2012 – dall’annuncio trionfante della Commissione europea sul raggiungimento dell’accordo sulla Banking Union e già si sono accumulate critiche di giuristi, economisti e politici. Alcuni sostengono che il progetto non è stato completato come promesso in origine; in particolare, manca un sistema unico di assicurazione dei depositi. Altri sostengono che le difficoltà applicative rendono evidenti le debolezze del progetto. A sostegno di quest’ultima tesi, alcuni commentatori affermano che la gestione della crisi delle banche venete in difficoltà da parte dello Stato italiano abbia violato, nel luglio del 2017, lo spirito delle disposizioni contenute nella Banking Resolution directive, approvata solo nel 2014, minando la credibilità della Banking Union.
La Banking Union (di seguito BU) è un tema difficile da commentare usando i toni del bianco o del nero. Essa si presta a una lettura in chiaroscuro. L’entusiasmo del 2012 era giustificato per lo straordinario progresso che essa produce nel processo d’integrazione europea. D’altro canto, non si può sottacere che le difficoltà di applicazione di un impianto istituzionale così innovativo, soprattutto sul piano del diritto, possono condurre in concreto a incertezze e rallentamenti.
Per fondare queste considerazioni sui fatti è necessario ricordare brevemente i punti principali dell’accordo del 2012 e lo stato di attuazione del progetto.
I punti principali, meglio noti come i tre pilastri dell’accordo, riguardano la creazione di un meccanismo unico di vigilanza (Single Supervisory Mechanism) sulle banche dei paesi dell’area dell’euro, un meccanismo unico per la risoluzione (Single Resolution Mechanism) delle banche dei paesi dell’area dell’euro, un sistema armonizzato di schemi di assicurazione dei depositi.
Il primo pilastro, il Single Supervisory Mechanism (SSM), è stato varato in tempi brevi. Il Regolamento (UE) n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013 attribuisce alla BCE compiti di vigilanza prudenziale sulle banche dell’area dell’euro (e degli altri Stati membri che intendano aderire) e stabilisce i modi di funzionamento del SSM. La supervisione europea ha preso avvio ufficialmente il 4 novembre del 2014, dopo una fase preparatoria in cui la BCE ha condotto il c.d. comprehensive assessment per verificare lo stato di salute delle banche che sarebbero passate sotto la sua vigilanza. A settembre dello stesso anno, la medesima autorità ha individuato l’elenco dei soggetti che sarebbero stati assoggettati alla sua vigilanza diretta perché considerati significant (in funzione di criteri fissati nel Reg. n. 1024/2013, che fanno riferimento, in primo luogo, alle dimensioni degli attivi delle banche). Le banche less significant sono soggette alla vigilanza diretta delle autorità competenti nazionali. La BCE ha comunque la responsabilità complessiva del funzionamento del SSM, ha poteri esclusivi nei confronti di alcuni aspetti della vigilanza su tutte le banche, anche less significant, e può dare istruzioni di carattere generale alle autorità nazionali per la vigilanza su queste ultime.
Più complessa e lenta è stata la trattativa per la definizione di un meccanismo unico di risoluzione delle crisi. Il 15 aprile 2014 il Parlamento europeo ha approvato una direttiva che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione delle banche, la BRRD (dir. 2014/59/UE), che armonizza e aggiorna gli strumenti per affrontare le crisi bancarie in Europa e il regolamento che istituisce un Single Resolution Mechanism (SRM), che affida a un’agenzia europea di nuova istituzione, il Single Resolution Board (SRB), competenze per la risoluzione delle banche significant (il perimetro dei soggetti nei cui confronti il SRB ha competenza è coincidente in larga parte con quello delle banche soggette alla vigilanza diretta della BCE). Il regolamento sul SRM, Reg. n. 806/2014, istituisce un Single Resolution Fund (SRF), costituito da contributi obbligatori delle banche europee. Il Fondo non è interamente disciplinato dal regolamento sul SRM. Alcuni aspetti necessari per istituire il Fondo, come ad esempio il trasferimento dei contributi raccolti a livello nazionale nei confronti del Fondo unico e la “mutualizzazione” dei “compartimenti nazionali”, sono disciplinati da un accordo intergovernativo sottoscritto dagli Stati membri partecipanti che è stato firmato il 21 maggio 2014.
Il terzo punto dell’accordo riguarda il tema dell’assicurazione dei depositi, definiti con l’espressione inglese Deposit Guarantee Schemes (DGS). Se guardiamo la lettera del documento firmato nel 2012, che si limita ad auspicare un sistema armonizzato di DGS, anche questo aspetto dell’accordo è stato realizzato. Nella stessa data di approvazione della BRRD, il 15 aprile 2014, il Parlamento europeo ha approvato l’aggiornamento della direttiva sui sistemi di garanzia dei depositi che contiene una profonda armonizzazione dei regimi nazionali di garanzia che sono istituiti in ogni Stato membro (dir. 2014/49/UE). Inoltre, la BRRD disciplina le modalità di intervento dei DGS nell’ambito delle procedure di risoluzione. La medesima direttiva prevede anche meccanismi di coordinamento fra i fondi nazionali e fra gli interventi dei sistemi di assicurazione e il SRF.
Queste considerazioni sui DGS possono apparire in apparente contraddizione con la narrazione corrente, secondo cui al completamento del disegno della BU mancherebbe ancora il terzo pilastro, ossia un sistema europeo di assicurazione dei depositi. In realtà, il tema era stato discusso a lungo e nel 2010 la Commissione aveva istituito un gruppo di studio. Quest’ultimo, nel rapporto finale, aveva esplorato la possibilità di istituire un sistema di garanzia dei depositi Pan-europeo, sotto forma di un unico ente che avrebbe dovuto sostituire i regimi esistenti, ovvero come una “rete di sistemi” che avrebbero dovuto offrire reciproca assistenza. Questa soluzione era stata esclusa a causa delle difficoltà di raggiungere un compromesso politico. Il fallimento della trattativa nel 2010 non esclude nuovi tentativi di arrivare anche su questo punto a realizzare un sistema unico in Europa di assicurazione dei depositi, come sottolineato nel giugno del 2015 dal documento «Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa», sottoscritto dai 5 presidenti delle istituzioni europee: la Commissione, il Consiglio, l’Eurogruppo, il Parlamento, la Bce. Il rafforzamento del terzo pilastro della Banking Union, attraverso l’avvio di un sistema europeo di garanzia dei depositi, è una delle proposte cruciali del documento. Ma occorre riconoscere che pochi progressi sono stati ottenuti negli ultimi due anni.
Sull’importanza di un sistema unico di assicurazione dei depositi per completare il disegno della BU torneremo nelle conclusioni. Vorrei invece concentrare l’analisi sui problemi che possono ostacolare il funzionamento efficiente delle istituzioni e autorità europee a cui è affidato il compito di dare attuazione al nuovo quadro regolamentare disegnato con l’accordo sulla BU.
Il SSM e il SRM statuiscono l’accentramento presso istituzioni e autorità europee dell’esercizio di funzioni pubbliche e poteri nei confronti di intermediari dei paesi aderenti all’euro. Si tratta di una cessione di sovranità da parte dei singoli ordinamenti verso quello europeo. I “meccanismi unici” non hanno personalità giuridica, ma sono un sistema complesso, nel cui ambito lavorano sia istituzioni e autorità europee sia autorità competenti nazionali con diversi gradi e modi di interazione.
Come già ricordato, il Regolamento n. 1024 in materia di SSM prevede in primo luogo una distribuzione di competenze fra la BCE, a cui è affidata la vigilanza “diretta” sulle banche significant e le autorità nazionali alle quali è affidata la vigilanza “diretta” sulle banche less significant. In maniera simile, il Regolamento n. 806 affida competenze decisionali al nuovo Single Resolution Board sull’insieme delle banche significant (e su altri intermediari) e alle autorità di risoluzione nazionale su tutte le altre banche. L’interpretazione della distribuzione di competenze alla luce del quadro del Trattato è stata oggetto di dibattito. Un punto di riferimento importante è la pronuncia della Corte di Giustizia (General Court, Case T-122/15 del 16 maggio 2017, Landeskreditbank Baden-Württemberg - Förderbank v. ECB) in materia di esercizio di funzioni di vigilanza da parte della BCE. Il Tribunale, in base ad una serie di indizi normativi presenti nel Reg. n. 1024/2013 afferma che nell’ambito del SSM “the national authorities are acting within the scope of decentralized implementation of an exclusive competence of the Union, not the exercise of a national competence” (parr. 50-60). La Corte esclude che la vigilanza sulle banche less significant possa essere riconducibile all’esercizio di competenze nazionali, perché ritiene che la scelta operata dal Reg. n. 1024/2013 abbia trasferito in via esclusiva alla BCE i compiti di vigilanza, individuati dallo stesso regolamento, su tutte le banche aderenti all’area dell’euro (cfr. parr. 53-54 della decisione).
Le autorità nazionali peraltro non giocano solo questo ruolo nell’ambito del SSM e del SRM. Esse operano anche nell’ambito della fase decisionale e di quella operativa della BCE quando questa esercita le sue funzioni di vigilanza dirette e del SRB quando esso assume le decisioni di sua competenza. Si tratta di una “integrazione funzionale” fra istituzioni e autorità europee e autorità nazionali che non abbiamo sperimentato neppure in campo antitrust, dove da più tempo coesistono competenze di istituzioni europee e autorità nazionali nel rispetto del principio di supremazia dell’ordinamento europeo. Le autorità competenti nazionali sono parte integrante del SSM, come del SRM. Esse svolgono un ruolo importante, sia sul piano decisionale (facendo parte di un soggetto cruciale del processo decisionale della BCE in materia di vigilanza, quale è il Supervisory Board), sia su quello dell’attività di vigilanza day to day anche nei confronti degli intermediari “of significant relevance”: le autorità nazionali partecipano infatti con i loro rappresentanti ai Joint Supervisory Teams che esercitano una funzione centrale nell’esercizio continuo della vigilanza sulle banche. Anche nel SRM le autorità nazionali partecipano alla fase decisionale e applicativa dei provvedimenti che ricadono nella competenza di questa autorità. Si tratta di un’integrazione che comporta una sorta di gestione “in condominio” delle funzioni di supervisione e di risoluzione che deve essere studiata da parte dei giuristi.
Il funzionamento dei “meccanismi unici” in cui operano insieme autorità europee e autorità nazionali richiede regole comuni e, soprattutto, un modo comune di interpretare le norme che dipende anche da fattori culturali e linguistici.
Purtroppo invece non abbiamo ancora un vero diritto comune in questo settore e, soprattutto, non abbiamo approcci interpretativi comuni.
Lo stesso Reg. 1024 prende atto della possibile coesistenza di norme e regole differenti considerato che all’art. 4, par. 3 precisa che la BCE “… applica tutta la normativa pertinente dell’Unione e, se tale normativa dell’Unione è composta da direttive, la legislazione nazionale di recepimento di tali direttive. Laddove la normativa pertinente dell’Unione sia costituita da regolamenti e al momento tali regolamenti concedano esplicitamente opzioni per gli Stati membri, la BCE applica anche la legislazione nazionale di esercizio di opzioni”.
Può sembrare strano porre l’accento sulle tante differenze a distanza di molti anni dalla firma del Trattato che dava vita al progetto europeo nel 1957 e dall’avvio del mercato unico dei servizi bancari che risale al 1993. Ancora più sorprendente può sembrare rilevare l’esistenza di differenze fra le regole di vigilanza, considerando che il processo di armonizzazione è iniziato con la prima direttiva di coordinamento in materia bancaria del 1977. Inoltre, di recente sono stati fatti progressi con l’adozione, per molti aspetti della vigilanza, dello strumento del regolamento, invece di quello della direttiva, ed è stata creata una nuova agenzia, l’European Banking Authority (EBA), nel 2010, con lo scopo di redigere il Single rulebook. Nonostante le numerose iniziative, un’analisi puntuale della materia evidenzia ancora molte differenze fra le legislazioni nazionali riguardanti aspetti cruciali per assicurare un’attuazione uniforme delle regole di vigilanza bancaria presenti in direttive e regolamenti europei. Faccio riferimento alle regole di corporate governance, alle regole sui requisiti di onorabilità e professionalità degli esponenti aziendali, alla disciplina dei gruppi societari, alla disciplina fallimentare.
Al problema della mancata armonizzazione si aggiunge il problema linguistico. Non a caso in questo scritto ho scelto di utilizzare solo le espressioni inglesi per definire istituti e organi previsti dal nuovo quadro normativo, a iniziare dal termine Banking Union invece di Unione bancaria. Considerato che tutte le lingue degli Stati membri sono lingue ufficiali dell’Unione, ogni banca può scegliere di dialogare con la BCE utilizzando la propria lingua. Questo aspetto rende questa istituzione una grande macchina di traduzioni, con oneri notevoli in termini di costi e di allungamento dei tempi delle procedure. Esso, inoltre, crea rilevanti problemi interpretativi, considerato che la traduzione nelle varie lingue non riesce a ottenere sempre norme omogenee, in virtù dei differenti significati che un termine può avere nei diversi ordinamenti. In alcuni casi non esistono espressioni che rendano adeguatemene un concetto giuridico adottato in un ordinamento in un altro. Un esempio: l’art. 16 del Reg. n. 1024. Il primo comma di quest’articolo attribuisce alla BCE il potere di richiedere alle banche di “adottare per tempo le misure necessarie per affrontare problemi pertinenti in qualsiasi delle seguenti circostanze …”, ad esempio la violazione dei requisiti di capitale. La versione inglese della norma così recita: “The ECB shall have the powers … to require any credit institutions … to take the necessary measures at an early stage to address the relevant problems …”. I margini di discrezionalità della BCE sono diversi se essa può agire “at an early stage” o “per tempo”.
L’esperienza ci insegna che arrivare in un futuro prossimo a un ordinamento comune con regole uguali in tutti i settori è utopistico. D’altro canto, quest’ostacolo potrà essere superato se abbiamo approcci interpretativi comuni.
Di recente, tre economisti (Markus K. Brunnermeier, Harold James, Jean-Pierre Landau, The Euro and the battles of ideas, Princeton University Press, 2016) hanno sostenuto che alla base delle differenti visioni che contraddistinguono i paesi aderenti all’euro in materia di politica monetaria ci sono differenti approcci filosofici fra i paesi fondatori, in particolare fra Francia e Germania. La Germania, uno Stato federale con forti governi regionali, ha visto il Trattato di Maastricht, il quadro per l’euro, come un insieme inflessibile di regole. La Francia, d’altra parte, caratterizzata da un sistema di governo più centralizzato, ha visto il quadro normativo come flessibile, ossia da interpretare e governare. Gli autori concludono che i problemi affrontati dall’Euro hanno portato i suoi Stati membri a concentrarsi sulle risposte nazionali e non collettive, una reazione spiegata dalla ripresa della “battaglia delle idee”: le regole contro la discrezionalità, la responsabilità contro la solidarietà, la solvibilità contro la liquidità, l’austerità contro lo stimolo.
La rilevanza di questi differenti approcci filosofici alla base degli ordinamenti nazionali è sottolineata anche dai giuristi. Giuliano Amato, (Le radici dell’Europa: il diritto, Lezione tenuta il 27 aprile 2017 nell’ambito del ciclo “Le radici dell’Europa” organizzato dalla LUISS School of European Political Economy) sottolinea come nel processo di integrazione europeo sono rimaste differenze radicali fra gli ordinamenti nazionali che vengono dal passato. In Germania gli orrori del nazismo, perpetrati per lo più nel rispetto della legge, hanno portato al totale ripudio del riconoscimento dovuto al potere pubblico, per il sol fatto che esso risulti esercitato in base alla legge. L’ordoliberalismo, scuola cresciuta a Friburgo proprio negli anni del nazismo, ha generato la nozione di governo delle regole, secondo la quale le istituzioni di governo, ancorché investite di mandato popolare, non debbano per ciò stesso essere guidate soltanto dall’apprezzamento della propria discrezionalità. Esse devono essere permanentemente sotto il governo delle regole, unica garanzia, secondo gli ordoliberali, nei confronti di esorbitanze e abusi. Non è questa l’idea di governo che la Francia ha ereditato da quella nozione di potere, non limitato, ma legittimato, che fu la prima eredità della rivoluzione. È un’idea che esalta la discrezionalità di chi governa e affida a essa, più ancora che alle regole, l’efficacia dell’azione pubblica.
L’approccio “più regole e meno discrezionalità” si riscontra anche in campo bancario. A mio avviso un esempio è rappresentato dalla direttiva BRRD che prevede molte rigidità nelle norme di gestione delle crisi, con poca possibilità per le autorità di esercitare scelte discrezionali. Basti un esempio: le norme non si limitano a prescrivere il principio che i salvataggi pubblici rappresentano la last resort nella gestione della crisi, ma arrivano a stabilire in maniera fissa, un ammontare numerico, 8 per cento delle passività, di perdite che devono essere sopportate dai privati perché lo Stato possa intervenire. Questo approccio appare inadatto a gestire le crisi bancarie, se si tiene conto che, parafrasando una nota frase di Tolstoj in Anna Karenina, “tutte le gestioni bancarie in good times si somigliano, ma ogni crisi bancaria è disgraziata a modo suo”. Pertanto sono necessari ampi margini di discrezionalità delle autorità e pochi paletti rigidi nei testi normativi. Alla luce di queste considerazioni possono essere spiegate le scelte delle autorità italiane per la soluzione della crisi delle banche venete nel giugno 2017. Il percorso normativo prescelto, la liquidazione coatta amministrativa invece della risoluzione e l’intervento pubblico – che rispetta la lettera della disciplina dell’Unione in materia, come confermato dalle stesse autorità europee – si giustifica in funzione della tutela di specifiche esigenze e interessi pubblici coinvolti in questa crisi, in primo luogo il risparmio di clienti e investitori e la struttura produttiva locale.
Come conciliare queste differenti filosofie? La presa d’atto delle differenze attuali non deve scoraggiare il raggiungimento in futuro di un common understanding delle norme e della loro portata applicativa. Esso potrà derivare con il tempo anche con il fondamentale supporto della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea che sarà chiamata a vagliare la legittimità delle decisioni assunte da istituzioni e autorità europee. Come sottolinea ancora Amato, nella lezione prima citata, la Corte del Lussemburgo ha svolto un ruolo cruciale per rendere comune il patrimonio giuridico alle radici degli ordinamenti europei rappresentato dai “diritti fondamentali”. Questi ultimi sono stati affermati con forza dalla Corte di Giustizia nelle sentenze che riconoscevano diritti alla “persona” a partire dagli anni settanta del secolo scorso. Solo molto più tardi, nel 2009, la Carta dei diritti è stata approvata e resa vincolante dal Parlamento europeo.
Certamente questo processo richiede tempo e soprattutto la creazione di un clima politico e sociale favorevole all’integrazione. Questi due aspetti appaiono cruciali anche per completare il disegno della Banking Union con il tassello del sistema unico di assicurazione dei depositi.
La realizzazione del terzo pilastro è molto importante, ma non perché rappresenti un elemento essenziale per la gestione delle crisi. Sistemi coordinati di assicurazione dei depositi possono svolgere in maniera sufficiente il loro ruolo nella gestione di crisi di banche europee, anche se gestite da autorità accentrate. I sistemi di assicurazioni di depositi se intesi come puri strumenti per rimborsare i depositanti di banche in caso di crisi (non è mai stato così in Italia) hanno il ruolo limitato di contribuire (insieme ad altri interventi pubblici) ad evitare o quanto meno allontanare il rischio di una “corsa al ritiro dei depositi”. Il nuovo impianto normativo della BU attribuisce un ruolo più rilevante al Single Resolution Fund per contribuire a gestire la crisi; la BRRD e il Trattato intergovernativo del maggio 2014 stabiliscono un meccanismo di funzionamento del Fondo che, in maniera limitata e solo con una scadenza temporale lunga, porterà alla “mutualizzazione” delle perdite fra intermediari di paesi diversi. Diversamente, la piena realizzazione di un sistema unico di assicurazione dei depositi è molto importante per il valore simbolico che esso ha per avanzare verso una vera Unione in cui trasferimenti finanziari, se pur limitati, possano rappresentare un modo per irrigare e rinsaldare l’integrazione europea.
Per quest’ultimo passo è mancato, e ancora manca, la necessaria volontà politica dei governi europei. Non ci sono visioni di statisti in grado di accettare le critiche popolari, come è accaduto per la riunificazione tedesca. In quest’ultimo caso, un politico come Helmut Kohl impose il cambio alla pari (“uno ad uno”) fra il marco della Repubblica federale e la moneta della Germania est nonostante la Bundesbank considerasse troppo generosa perfino la conversione di 1 a 2. Si potrà obiettare che ciò è stato possibile perché i tedeschi parlano la stessa lingua e hanno una cultura comune. D’altro canto, erano uno Stato dal 1871 alla fine della seconda guerra mondiale.
Il clima politico che caratterizza l’Europa nell’ultimo anno non è una buona premessa per confidare che si arrivi in tempi brevi ad accordi che consentano il trasferimento di risorse finanziarie fra Stati. Nonostante in diversi paesi i partiti nazionalisti siano usciti sconfitti dalle elezioni nel 2016/2017, su un tema cruciale come quello delle migrazioni dal continente africano anche la Francia e la Germania si dichiarano contrarie a iniziative che possano rappresentare una condivisione sostanziale della prima accoglienza dei migranti e del successivo ricollocamento fra tutti i paesi europei. Fino a ora il peso delle migrazioni continua a pesare sulle spalle dei paesi che sono la frontiera geografica con l’Africa, come Italia e Grecia.
L’assenza della condivisione di costi e oneri della partecipazione all’Europa e la mancanza di trasferimenti fiscali fra i paesi dell’Unione potrebbero comportare l’implosione del progetto varato nel 1957 con la firma dei Trattati di Roma.
Il progetto europeo ha origine nella consapevolezza delle drammatiche conseguenze della seconda guerra mondiale. Come sottolineato dall’obituary dedicato a Kohl dall’Economist all’indomani della sua scomparsa (The Economist, Germany’s Helmsman, 24th-30th June 2017) egli era appena quindicenne quando la guerra finì ed era consapevole della fortuna di essere nato tardi per la guerra “The first Americans he met gave him sweets. Had the war gone on longer, he would have been fighting them”. Questa consapevolezza lo ha indotto a stringere la mano di Mitterand nella famosa foto che li ritrae a Verdun. Oggi questa spinta sembra aver perso la sua capacità propulsiva. Noi che siamo nati quando la guerra era oramai lontana – e a maggior motivo i giovani – dobbiamo trovare altre ragioni per superare i nazionalismi.
È necessario cercare nuovi motivi che rendano utile al benessere sociale dei cittadini europei stare insieme. Come ricorda il presidente della BCE (Mario Draghi, “The Monnet method – its relevance for Europe then and now”, speech for the Award of the Gold Medal of the Fondation Jean Monnet pur l’Europe, Lausanne, 4 maggio 2017), in commento alle idee di Monnet, l’Europa deve progredire in settori in cui può dare un valore aggiunto che i singoli Stati non possono raggiungere da soli: … and makes it clear to citizens how joining together adds to their lives”. Sulla stessa linea di pensiero Salvatore Rossi (Europa: dall’Unione monetaria all’Unione economica e oltre, Intervento all’Almo Collegio Borromeo, Pavia 14 giugno 2017) individua alcuni beni pubblici che sono motori dello sviluppo economico nel tempo moderno e che a suo avviso possono essere garantiti solo in una casa comune europea: la pace e la sicurezza interna ed esterna; l’educazione e la capacità innovativa.
Per realizzare questo ambizioso progetto serve certamente tempo ma soprattutto politici che non siano limitati dalla “veduta corta” – come ricordato da Padoa-Schioppa in un libro scritto subito dopo la crisi finanziaria (T. PADOA-SCHIOPPA, La veduta corta, Il Mulino, Bologna, 2009) – incapaci di andare oltre il calcolo di breve periodo e di guardare al futuro.
[1] Professore Associato di Diritto dell’Economia presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi del Sannio, di Benevento.