Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Maria Rosaria Ferrarese, Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario, Il Mulino, 2017, pp. 208. Prometeo o Epimeteo? Le promesse mancate del capitalismo finanziario. (di Paolo Perulli)


   

SOMMARIO:

1. - 2. - 3. - 4. - 5. - 6. - 7. - 8. - Bibliografia - NOTE


1.

La sociologa del diritto Maria Rosaria Ferrarese ha scritto un notevole libro di critica del capitalismo finanziario, che merita di essere letto, discusso e inquadrato. E proprio da un inquadramento preliminare vorrei iniziare. Di capitalismo finanziario tanti si sono occupati tra i pensatori del XIX, XX e anche del XXI secolo, fino al recente fortunato libro dell’economista Thomas Piketty sulla distribuzione di ricchezza e patrimoni. La sua è l’ultima in ordine di tempo tra le diagnosi economiche sull’insostenibilità sociale del capitalismo. «Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita della produzione e del reddito – come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili» (Piketty 2014, p. 12). Questa diagnosi è chiara, basata sui dati della crescita del rendimento del capitale che eccede quello della crescita del prodotto. I capitalisti, i detentori di capitale e di rendite, specie di rendite finanziarie guadagnano troppo e il loro capitale non è tassato in modo sufficiente perché la crescita sia sostenibile dal resto della società. Se non sarà tassata la ricchezza patrimoniale dei capitalisti, il divario crescerà ancora. I soli periodi in cui ciò non è avvenuto sono stati quelli delle guerre mondiali del XX secolo, che hanno dato l’illusione che il capitalismo e le sue contraddizioni di fondo fossero superabili. La sostenibilità della crescita del capitalismo in quei periodi non è quindi dovuta tanto, secondo Piketty, a una democrazia capace di regolare, quanto a una dinamica del debito pubblico che, grazie all’aumento dell’inflazione che ha fatto scendere il valore del debito, ha svolto un decisivo ruolo redistributivo. Poi, la supremazia monetarista e la sua ossessione anti-inflazionistica hanno riaperto la forbice a favore dei detentori di capitale. Da questa analisi esce gravemente ridimensionata la capacità regolativa delle istituzioni sui mercati del capitale, in particolare quelli finanziari. Secondo Piketty la democrazia potrebbe riprendere il controllo del capitalismo solo se le nazioni si integrassero a scala mondiale, e per ora almeno a scala europea. Una prospettiva auspicabile ma improbabile. Il sociologo [continua ..]


2.

Il capitalismo come arricchimento finanziario (patrimonializzazione, lusso, beni d’arte, cultura, turismo) delle società occidentali (e forse ormai anche in quelle orientali) è stato recentemente affrontato dai sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre (Enrichissement, Gallimard 2017).Il primo dei due autori, Boltanski (in collaborazione con Eve Chiapello) aveva già dedicato al nuovo spirito del capitalismo un’analisi forte e polemica alcuni anni fa. Era il riconoscimento che il capitalismo di fine XX secolo aveva saputo rispondere ai suoi critici utilizzando le loro stesse argomentazioni: aveva inglobato la rivendicazione di maggiore flessibilità e lo spirito artista, innovando le vecchie strutture d’impresa e costruendo nuove gabbie reticolari. Nel capitalismo delle reti, flessibile e immateriale, primeggia il capitalismo finanziario. Oggi al centro dell’a­nalisi dei due sociologi francesi è nuovamente l’economia della varietà, la pluralità delle forme di messa in valore della merce. La merce non è (solo) standard, pura ‘commodity’ scambiabile su mercati generici. Essa è soprattutto specialty, valore raro e unico. Ma come si forma il valore? Si tratta di strutture della merce legate al numero e al valore delle transazioni di mercato, che richiedono una competenza specifica per la loro messa in valore. Ma possiamo andare oltre le merci che arricchiscono i loro detentori sui mercati del lusso. Il denaro, il capitalismo finanziario (i prodotti immateriali sofisticati dei mercati finanziari) sono parte di questo processo di arricchimento. Sono anzi insieme il mezzo e il fine dell’arricchimento. I valori di un prodotto finanziario, di un’azione di Amazon (passata da 1 a 1.000 dollari in vent’anni), di un bond costruito da una banca d’affari sono riferiti alla capacità di attori specializzati di giustificare il prezzo di quella ‘merce’. Il valore risiede quindi nella capacità di far credere all’acquirente che essa abbia il valore di arricchirlo. Con tutte le conseguenze simboliche di quel valore acquisito, dell’atto di quell’acquisto, dell’appartenenza a un club di consumatori, esclusivo, selezionato. Il capitalismo come religione è quindi una disposizione psicologica e morale dell’individuo contemporaneo. Riguarda [continua ..]


3.

Il capitalismo finanziario, con la tecnica immateriale delle transazioni e dei flussi che lo sostiene e lo diffonde, è il nuovo Prometeo che ruba il fuoco agli dei, come sostiene Maria Rosaria Ferrarese (2017)? O non invece il suo fratello ritardato, Epimeteo, quello che ricevette da Zeus l’ambiguo dono di Pandora, che aprendo il vaso sparge su tutta la terra disgrazie e crisi, come suggerisce il filosofo Massimo Cacciari (2013)? L’anomia scatenata della finanza, il suo sistema produttore di crisi in permanente, inevitabile seppur irregolare riproduzione allargata, sembrerebbero indicare piuttosto questa seconda prospettiva. I doni di Prometeo, un mercato universale, invisibile e leggero in alternativa a uno Stato visibile, invadente e costoso sono ben rappresentati da Ferrarese nel sua rigorosa, densa e ricca ricostruzione critica delle teorie dell’economia e del diritto nell’epoca neoliberale. La costruzione di una pervasiva egemonia culturale – prima ancora che politica – del pensiero neoliberale è ben argomentata da Ferrarese, sulla scorta di un’accurata analisi delle sorgenti (i monetaristi della Chicago school guidati da Milton Friedman, gli economisti della nuova economia istituzionale come Oliver Williamson e Douglass North, i giuristi della Law and Economics come Richard Posner) che hanno predicato efficacemente il nuovo verbo a partire dagli anni ’70 del Novecento. Sono anche loro i sacerdoti della nuova religione. Curiosamente, di religione e di teologia parla anche a proposito di Keynes il suo principale biografo, quello Skidelsky che giustamente Ferrarese (a p. 33) cita nella sua opera. Ma è semmai una religione della ragione, una weberiana etica della responsabilità quella che guida l’economia e lo Stato keynesiani. Mentre la religione del debito e della colpa, quella che guida l’economia dell’epoca neoliberale, vede nella finanza la propria matrice: quel capitalismo da casinò condannato energicamente da Keynes. Sono liberale? la domanda che Keynes si rivolse significa oggi molto più di quanto egli stesso allora intendesse, nell’epoca del laissez faire che provocò la crisi del 1929. Sono neoliberale? si interrogherebbe certamente Hayek di fronte alla incredibile utilizzazione del suo pensiero in chiave anomica (la teoria dei mercati efficienti) da [continua ..]


4.

Perché nessun Keynes, nessun Weber sono in vista nell’epoca di Epimeteo? Perché, si può concludere, la ricostruzione razionale della società cui essi si sono dedicati nel secolo scorso non è più compatibile con la religione capitalistica del debito e della colpa, che si è affermata nel nuovo secolo. La svolta, o se si vuole l’oscillazione del pendolo di passioni e interessi, ha coinciso con la piena affermazione del capitale finanziario globalizzato prima e dopo la crisi del 2007-8. Tra la fine di Bretton Woods (1971) e lo svilupparsi di una lex mercatoria sui mercati delle transazioni economico-finanziarie globali esiste una continuità di disegno, un market design che non corrisponde però – a mio avviso – all’affermazione di forze e pratiche «spontanee» (Ferrarese, p. 65). È una megamacchina quella che si afferma, con proprie leggi e architetture di dominio, che nulla ha di “spontaneo”: la sua governance mondiale è frutto di istituzioni e sedi, WTO, FMI e Banca Mondiale, advisors e società di consulenza globali, grandi banche d’affari e società di rating finanziario da cui dipendono i debiti sovrani dei governi. I mercati secondo l’ambigua terminologia che accompagna le loro mosse, la loro produzione speculativa di prodotti tossici, il loro prendersi gioco del sistema stesso a fini privati sono i nuovi dominatori del mondo. Pronti a provocare le crisi, e a uscirne possibilmente indenni. Nulla di prometeico in essi, molto di epimeteico.


5.

Uno dei meriti dell’opera di Ferrarese è il ricorso molto puntuale al pensiero di Carl Schmitt, autore poco frequentato dai sociologi e spesso maledetto dai giuristi. Il passaggio da un’epoca europea ormai passata a una futura epoca planetaria: è questo l’orizzonte della storia mondiale tracciato (un secolo fa!) da Franz Rosenzweig nel suo Globus (1918) e poi da Schmitt ne Il nomos della Terra (1950). Il filosofo Rosenzweig, che prima di ogni altro ha individuato nei passaggi mondiali una teoria storico-universale dello spazio, indica le tappe che porteranno da ecumene a thalatta, da imperi territoriali a nuove potenze marittime.«La politica lavora certo per la prima volta con un planisfero interamente compilato, però questo planisfero non è disegnato sul globo, ma sulla superficie piana in base alla proiezione di Mercatore: esiste un solo mondo, un solo mare, le cui aree sono in comunicazione, ma questo mondo ha ancora centro ed estremità, le linee non ritornano ancora a congiungersi tutte, la terra in realtà non è ancora una sfera» (Rosenzweig 2007, p. 111). L’unificazione del globo immaginata da Rosenzweig è stata però compiuta non dalla politica ma dai mercati. Saranno essi, queste forze senza stato e senza nomos a unificare gli immensi spazi, come dirà trent’anni dopo il filosofo del diritto Carl Schmitt (1950, ed. it. 1991). C’è una potente analogia tra lo stato di natura prestatale di Hobbes e l’indiscriminata libertà del nuovo mondo al di là della linea, che Schmitt coglie pienamente. Non gli stati ma l’economia si sarebbe incaricata – osserva Schmitt con largo anticipo sui fatti – di aprirsi alla libera conquista territoriale. «Nella separazione tra politica ed economia risiede realmente la chiave per chiarire la contraddizione tra presenza e assenza, in cui deve incorrere il nuovo mondo (…) quando cerca di conciliare presenza economica e assenza politica» (Schmitt 1991, p. 387). Se Bretton Woods era stato per trent’anni lo speciale compromesso tra politica ed economia che aveva retto il mondo nell’epoca internazionale pre-globalizzazione, l’avvio di un sistema più squilibrato in favore dell’economia (Ferrarese p. 68) coincise con la creazione di [continua ..]


6.

La fine della storia, affrettamente proclamata dopo il crollo del socialismo realizzato del 1989, si è nel frattempo rivelata una cattiva lettura del grande testo hegeliano e kojèviano sulla fenomenologia dello spirito del mondo. Dalla direzione che quel grande testo ha impresso alla nostra visione del mondo occorrerà ripartire, vedendo nel capitalismo un erede della rivoluzione borghese che ha preteso di sussumere in sé ogni valore e ogni antagonismo dialettico. E nel contempo ha disconnesso, e in definitiva tradito, il movimento che univa in un unico processo di coevoluzione il politico e l’economico, lo stato e il mercato, la ragione e gli affari umani (per parafrasare il pensiero di Herbert Simon, altro grande maestro del secolo scorso ‘tradito’ da allievi interessati e ormai quasi dimenticato, invece giustamente citato da Ferrarese, p. 59). Quindi la regolazione dei mercati, e di quelli finanziari innanzitutto, è impresa davvero titanica: ma ci manca un Prometeo. È una grande impresa soprattutto culturale, di produzione di conoscenza quella da compiere. Per ora abbiamo solo un filone minoritario della scienza economica, che da Simon arriva al pensiero neo-istituzionalista più critico rispetto alla deriva neoliberale, e all’economia cognitiva e comportamentale. Questo filone pensa che i mercati siano imperfetti, che i fallimenti del mercato siano almeno altrettanto gravi dei fallimenti dello stato. E che vadano corretti da istituzioni indipendenti, terze. E un altro filone utile è quello del pensiero sociologico, che spiega i fallimenti della società nella regolazione dell’economia a causa di asimmetrie di informazione e di conoscenza, in definitiva di potere da parte dei gruppi sociali svantaggiati. E che indica nelle forme deliberative di democrazia, nella partecipazione attiva e nella cittadinanza transnazionale una strada impervia ma necessaria per correggere tali asimmetrie nell’epoca della globalizzazione (si pensi al lavoro di Habermas su potere autorità diritti, e a quello di Luhmann sulla società dei sottosistemi, un pensiero che – se ripreso – permetterebbe di isolare le crisi circoscrivendo il peso dei mercati economici e finanziari rispetto all’insieme della società).Solo questi difficili incrementi di potere della società sull’economia arriverebbero a [continua ..]


7.

Il sistema bancario come disseminatore di fattori di rischio (Ferrarese p. 90) è il protagonista degli ultimi due decenni di capitalismo finanziario. Qui i problemi di rischio morale, di collusione tra politica regolativa e interessi, di intreccio tra missione creditizia e produzione/diffusione speculativa di prodotti tossici all’intera società si sono ingigantiti. E rendono credibile la proposta, da alcuni sostenuta, che una riforma di nuova separazione tra banca commerciale e banca di investimento andrebbe compiuta. Efficace è la discussione (in Ferrarese, p. 94 ss.) di una straripante creazione di moneta da parte delle istituzioni bancarie centrali, e delle politiche di quantitative easing (QE) praticate dalle banche centrali americana, europea e giapponese. Andrebbe messo in luce che questa enorme espansione monetaria, non solo non corrisponde affatto alla creazione di ricchezza reale, ma soprattutto crea debito, da parte degli Stati e dei privati. È questo l’effetto del QE attraverso cui la banca centrale compra titoli di stato; quello che le banche ottengono attraverso il QE non rifluisce nell’eco­nomia delle imprese ma resta investito nei prodotti finanziari delle banche; e il QE ha anche un enorme effetto redistributivo a favore dei detentori di ricchezza, le famiglie più ricche e i debitori netti. Mentre la tesi ufficiale per cui il QE favorendo la ripresa economica e l’occupazione produrrebbe effetti positivi sulle classi meno abbienti si basa su una doppia equazione (crescita = occupazione, occupazione = classi più povere) ormai indimostrabile. La debt economy è il necessario outcome di un processo che ha reso l’economia dipendente dalla finanza e non viceversa. L’inventiva del debito (Ferrarese p. 123) prodotta dalla finanziarizzazione, consiste nella creazione di prodotti speculativi sempre più incerti e rischiosi basati sulla produzione di debito. Commercializzando i titoli di debito, entro prodotti e veicoli ad hoc, il sistema ha prodotto una monetarizzazione del debito. Il debito cioè diventa moneta circolante; senza più rapporto con il capitale delle banche; al punto che i debiti circolanti nei prodotti e veicoli arrivano a superare di 30 volte il capitale delle banche. I tentativi di riportare una ratio capitale [continua ..]


8.

Ma quali doni, o promesse mancate, aveva inaugurato l’epoca del capitalismo finanziario? Sta qui forse la domanda cruciale. Ebbene guardando ai manifesti del pensiero neoliberale, poco se ne ricava da questo punto di vista. Era stato promesso un mondo basato sull’homo oeconomicus, quell’idiota razionale che domina l’economia neoclassica. I suoi vantaggi, la sua capacità, i suoi interessi erano proclamati come universali – non certo quelli dell’umanità. Le promesse di conoscenza, giustizia, benessere per i molti non facevano affatto parte di quel manifesto. L’idea per cui Zeus manda a tutti la giustizia e il rispetto attraverso Ermes, simbolo alato del commercio, perché tutti ne siano partecipi (Platone, Protagora, 322 d) si rovescia qui nella partecipazione dei pochi alle arti della finanza [2]. Se quindi il regolatore dovesse sviluppare la sua governance sull’intera Città, come nel testo platonico, dovrebbe proprio fare quello che viene considerato di scarso peso e plausibilità da molti autori, compresa Ferrarese (p. 129): distribuire la conoscenza a tutti, sui prodotti e i problemi, sulle minacce e i rischi, sulle opacità e i segreti del capitalismo finanziario. Richiedere trasparenza nella finanza. Rompere la credenza nel capitalismo come religione del debito, per riprendere la lucida profezia benjaminiana. Non certo questo significa tornare al Leviatano però: anche il Leviatano si è ammantato di arcana imperii, ha occultato e secretato, ha usato la teologia politica per essere creduto. Invece significa competere con il nuovo dis-ordine globale inaugurato dall’epoca epimeteica, di cui il diritto privato transnazionale è massima espressione. Ferrarese sostiene che il contratto è il braccio giuridico di Prometeo: ma di nuovo, si tratta invece di una discutibile lettura del processo dis-ordinato inaugurato da Epimeteo. Solo un altro contratto sociale, stavolta globale, potrà frenare/arrestare il dis-ordine epimeteico. Esso dovrà competere, nel senso di rendere competenti i molti verso i pochi: il 99% verso l’1%. Infatti l’asimmetria tra chi ha potere e informazioni e chi non ne ha (Ferrarese p. 175) nel panorama dei contratti finanziari non è affrontabile se non [continua ..]


Bibliografia

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NOTE