Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Il diritto dell'economia finanziaria europea e l'approccio pluralista alla regolazione (di Di Matteo Ortino)


The goal of this study is to highlight and explain the fundamental regulatory approaches adopted by the European Union to manage the financial system, and particularly to address the plurality of its integrated and interdependent components. It is submitted that there are four (main) management methods or approaches to such plurality: these are the ‘hierarchical’, the ‘autonomous’, the ‘harmonizing’, and finally the ‘pluralist’ approach. They correspond to four ways of ordering (and therefore also regulating) plurality. The study will particularly focus on the ‘pluralist’ approach, which will be analysed in relation to two case-studies concerning the various constituencies involved in the regulation of the EU financial system, and the various decision and rule-making procedures in place under EU law to govern such system.

   

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Quattro approcci alla pluralità. Approfondimenti sul metodo plu­ralista - 3. L'approccio pluralista applicato al diritto finanziario dell'UE - 4. La logica pluralista per la gestione della molteplicità di constituencies nel diritto finanziario dell'UE - 4.1. Le ragioni del ricorso all'approccio pluralista - 4.2. Il bilanciamento tra le constituencies europee ed extra-UE - 4.3. Il bilanciamento tra le constituencies interne all'UE - 4.4. Pluralità di constituencies e Unione bancaria europea - 5. Pluralità di processi normativi e decisionali - 5.1. Meccanismi di delega espressamente previsti dai Trattati - 5.2. Meccanismi di delega ammessi implicitamente dall'ordinamento costituzionale UE - 6. Conclusioni - NOTE


1. Introduzione

Una delle manifestazioni e, allo stesso tempo, concause degli alti livelli di complessità raggiunti dal diritto dell’economia finanziaria, è costituita dal fenomeno della pluralità interdipendente e integrata dei suoi elementi.

La pluralità riguarda il numero e la natura composita degli elementi che compongono il diritto dell’economia finanziaria. Tale pluralità, crescente, caratterizza sia gli aspetti giuridici sia quella non giuridici dell’economia finanziaria, tanto nelle sue dimensioni globali quanto in quelle locali. Anche prendendo in considerazione la sola economia finanziaria dell’Unione europea (UE), molteplici sono i sistemi economici coinvolti, i segmenti finanziari, le tipologie di o­peratori e di attività, i prodotti, i modelli di business e di governance societaria interna, le tecnologie utilizzate; così come molteplici sono i rischi, le loro cause e i loro canali di trasmissione; ecc. Lo stesso accade per la componente giuridica, anche per effetto del tentativo dei regolatori di tenere il passo e gestire la complessità economica. In relazione all’economia finanziaria, come quella del­l’UE, molteplici sono i sistemi giuridici che vengono in rilievo, le fonti normative, i livelli di governo, i regimi giuridici, le tipologie di ‘regole’ che si applicano e di regolatori, le istituzioni politiche e tecniche competenti alla regolazione e alla vigilanza pubblica, le istanze giurisdizionali, gli interessi pubblici meritevoli di tutela, ecc.

Sul piano dei processi regolativi e decisionali, la complessità dei temi che l’ordinamento giuridico affronta è tale da dover ricorrere sempre di più a risorse specializzate, interne ed esterne, dando vita a nuove fonti – formali e informali – del diritto. Si pensi all’istituzione delle autorità amministrative indipendenti con specifici compiti di regolazione e di controllo, dotate di specifiche expertise tecniche. Oppure all’outsourcing a privati di attività regolative; in campo finanziario si può ricordare la decisione di vari ordinamenti tra cui quello dell’UE e quelli nazionali di attribuire “valore legale” alla valutazione del rischio di credito operata dalle agenzie di rating [1]. In altri settori il fenomeno è ancora più evidente e più diffuso; in base alla strategia normativa del c.d. nuovo approccio degli anni Ottanta del secolo scorso, ad esempio, l’elaborazione degli standard tecnici necessari all’attuazione della normativa legislativa UE funzionale alla libertà di circolazione europea, è affidata a organismi privati [2].

Ad aumentare ulteriormente la natura composita dei suddetti fenomeni contribuisce la crescente tendenza, sia degli operatori economici sia dei regolatori, ad agire negli interstizi del diritto formale. Dalla prospettiva dei regolatori, ciò costituisce spesso una reazione alla complessità della realtà da regolare, e risponde quindi a esigenze pragmatiche di superare le forme e gli strumenti giuridici non più adeguati, per adottarne di più flessibili al fine di realizzare lo scopo perseguito. Si pensi ad esempio alla natura informale del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria [3], che costituisce ormai la fonte di regolazione bancaria più importante a livello internazionale: esso, pur essendo composto da autorità pubbliche, riconducibili ad ordinamenti nazionali o regionali, non è basato su alcun trattato internazionale, non costituisce un’organizza­zione internazionale, né una fonte di diritto in senso formale.

Tenere conto della struttura composita dell’economia finanziaria europea e globale è di fondamentale importanza ai fini di qualunque prospettiva di analisi e di azione, giuridica o economica, anche se settoriale o locale. Quindi, non può essere relegata al margine neanche nell’analisi di quegli osservatori e di quella politica del diritto che si concentrano sulla dimensione nazionale del­l’e­conomia finanziaria. Non si tratta, infatti, di pluralità separate, bensì intrecciate, interconnesse e parzialmente sovrapposte. In altre parole, la complessità e l’importanza dei singoli elementi aumentano in modo esponenziale per effetto della loro interdipendenza. Tali elementi quindi possono essere compresi e ‘regolati’ solo se si adotta una visione più ampia e d’insieme. Non solo. La pluralità in esame è anche una pluralità ‘integrata’, in cui gli elementi in rilievo si collocano spesso a cavallo delle tradizionali distinzioni e categorie concettuali, o – come accennato – negli interstizi di tali blocchi. Ciò che si dice ormai da qualche decennio in merito all’offuscamento dei confini tra il settore bancario, finanziario e assicurativo, è ormai riscontrabile sul piano giuridico anche in altri ambiti e in riferimento ad altre distinzioni, come quella tra ordinamento nazionale e internazionale; tra diritto pubblico e diritto privato; tra attività amministrativa dell’UE e quella nazionale; tra attività di formazione delle norme e attività applicativa, ecc.

A tutto ciò si aggiunge l’integrazione di logiche e di razionalità nell’esercizio di singole attività pubbliche; come l’integrazione tra logica politica e democratica, da un lato, e logica scientifica o economica, dall’altro lato. Sul piano valutativo, tale integrazione è per certi versi indispensabile e meritoria, in quanto sono logiche necessariamente complementari, e non autosufficienti. Vi è tuttavia il rischio che scelte propriamente politiche siano delegate ad altri processi decisionali o nascoste da veli tecnici, a discapito dei basilari requisiti costituzionali di controllo, di trasparenza e di responsabilità politica, e viceversa, che imperativi tecnici siano sostituiti da scelte politiche non conformi (rischio, quest’ultimo, invocato per giustificare l’istituzione delle autorità amministrative indipendenti, già sopra accennate).

Le recenti crisi economiche hanno messo ben in evidenza il grado e le forme di interdipendenza e di integrazione esistenti tra le varie componenti, non solo del sistema economico, ma anche del sistema giuridico. L’interdipen­denza e l’integrazione tra diverse componenti del sistema economico – che, per quanto riguarda l’economia dell’UE, trova riconoscimento nelle stesse norme dei Trattati UE [4] – può dare vita ad un circolo virtuoso, ma anche ad una spirale negativa. La crisi del 2007 è partita come crisi del settore immobiliare, per trasformarsi nella crisi di un prodotto finanziario, e poi – a cascata – in una crisi bancaria, in una crisi economica, in una crisi dei debiti pubblici, in una crisi dell’euro, e di nuovo in una crisi bancaria etc. C’è quindi il rischio di un contagio all’interno del sistema economico, che va oltre il rischio sistemico; quest’ultimo termine infatti è solitamente riferito al sistema bancario e finanziario, ma in realtà va applicato anche alle altre componenti del sistema economico, incluse la componente economica in senso stretto (economia reale), quella delle finanze pubbliche e quella monetaria.

Questo rischio sistemico non può che coinvolgere anche il diritto. C’è una versione ‘giuridica’ del rischio sistemico: si tratta del rischio di contagio tra le varie componenti del sistema giuridico disciplinanti l’economia. Il mal funzionamento di una di tali componenti può ripercuotersi negativamente sulle altre. Se un determinato assetto istituzionale e normativo risulta inefficace a prevenire e/o gestire il cattivo funzionamento del sistema economico, ciò può contagiare altri assetti istituzionali e normativi, con possibile effetto domino sul funzionamento del sistema giuridico che si intreccia al contagio economico.

Il contagio è tanto più possibile quanto più fragili sono in partenza le singole componenti di un sistema. Ciò vale sia per il sistema economico in senso stretto che per il sistema giuridico. In materia giuridica quanto appena detto è ben testimoniato dal contagio verificatosi nell’ambito del diritto che regola l’U­nione economica e monetaria (UEM), cioè del diritto che regola la governance dell’UEM. Ciò che il contagio ha fatto emergere, infatti, sono le debolezze delle norme e delle istituzioni che avevano l’obiettivo di salvaguardare e far promuovere l’Unione economica e monetaria. Gli esempi di simili difetti normativi e istituzionali sono molteplici: l’inefficacia della normativa e vigilanza bancaria prudenziale, il fallimento del coordinamento a livello europeo delle politiche economiche nazionali, l’incompletezza dell’Unione monetaria, etc. Le debolezze delle singole componenti giuridiche, come detto, hanno accentuato il contagio nel sistema giuridico. In merito ad una di tali componenti e cioè la disciplina del Sistema europeo di banche centrali e della BCE, per esempio, si ritiene che i poteri della BCE così come risultano fissati dai Trattati europei siano inadeguati a contribuire efficacemente alla governance dell’Unione economica e monetaria. Una delle osservazioni più frequenti riguarda l’oppor­tu­nità che la BCE si occupi non solo di stabilità dei prezzi, ma anche di stabilità del sistema finanziario, che dovrebbe costituire un obiettivo di importanza e­quivalente a quello della stabilità monetaria [5].


2. Quattro approcci alla pluralità. Approfondimenti sul metodo plu­ralista

A fronte del fenomeno della pluralità interconnessa e integrata, descritto sopra a grandi linee, le istituzioni e la scienza giuridica sono alla ricerca di metodi analitici e strumenti concettuali e operativi adeguati, sia per comprendere sia per guidare normativamente la nuova realtà economica. In un contesto in cui si va oltre il diritto formale e le tradizionali categorie concettuali, il giurista ha bisogno di rinnovati – almeno nella loro combinazione – approcci e schemi di analisi per assolvere al proprio compito, che è quello di descrivere, spiegare e offrire una guida normativa; ossia, quello di dare un ordine giuridico, sia in senso positivo (relativo all’essere) sia in senso normativo (relativo al dover essere), al fenomeno della pluralità, in modo da avere una pluralità ordinata.

L’obiettivo del presente scritto è quello di sistematizzare e spiegare le modalità di fondo con cui l’ordinamento giuridico UE tenta di gestire il fenomeno della pluralità interdipendente e integrata nel sistema finanziario. A nostro avviso, le (principali) modalità di gestione o approcci alla pluralità sono attualmente quattro: vi è l’approccio che possiamo denominare “gerarchico”, quello “autonomista”, quello “uniformante”, e infine l’approccio “pluralista”. Essi corrispondono a quattro modalità di ordinare (e quindi, anche, di regolare) la pluralità. A seconda della modalità adottata cambia la configurazione giuridica dei rapporti tra gli elementi in questione e quindi la regolazione dell’economia finanziaria.

In sintesi, riteniamo che l’intervento dell’ordinamento dell’UE nell’economia finanziaria si regga su (o, il che è lo stesso, sia scomponibile in) quattro modalità di gestione della pluralità, cioè su quattro distinte tipologie di configurazione dei rapporti tra gli elementi costituenti la pluralità in oggetto. In altre parole, a nostro avviso, è possibile ricondurre la governance UE, intesa in senso ampio, dell’economia finanziaria a quattro modelli di regolazione giuridica della pluralità. La nostra tesi è che tali modelli, consapevolmente o meno, informano e spiegano l’intero ordinamento finanziario UE, nel senso che costituiscono quattro logiche – in parte alternative e in parte complementari – sottostanti l’esercizio tanto dell’attività legislativa, quanto di quella amministrativa e giurisprudenziale UE, rilevanti per la regolazione dell’economia finanziaria UE. Per tale motivo, lo studio di tali modelli può contribuire ad una visione più profonda e più chiara del diritto UE dell’economia finanziaria. [6]

Il riferimento è all’ordinamento UE nella sua interezza; quindi l’intervento in cui si ricorre ad una o più delle suddette modalità di gestione può essere messo in atto da una qualsiasi delle istituzioni o autorità UE (legislatore, giudice, agenzia, ecc.) mediante una qualsiasi delle attività di cui queste sono competenti (normativa, interpretativa, di regolazione, amministrativa, di vigilanza, ecc.). Quindi, per esempio, può essere il legislatore UE, così come la Corte di giustizia dell’UE, a configurare (e così regolare), sul piano rispettivamente legislativo e interpretativo, determinati rapporti o interessi in termini gerarchici oppure pluralistici (nel senso che spiegheremo infra). Nell’esempio, gli approcci in parola perciò possono orientare l’attività normativa o quella giurispru­denziale. Nel primo caso tali approcci contribuiscono a determinare le decisioni di politica legislativa, mentre nel secondo caso a determinare l’inter­pre­tazione e applicazione del diritto UE.

La natura dell’analisi da noi proposta è principalmente descrittiva ed esplicativa: lo sforzo cioè è concentrato sulla descrizione e comprensione del funzionamento di tali approcci, così come impiegati nel settore del diritto UE del­l’economia finanziaria, al fine di spiegare meglio come opera tale settore; e non è invece concentrato nel valutare, se non in una certa misura, l’adegua­tezza, ad es. sul piano dell’efficacia o della legittimità democratica, dei medesimi approcci, così come concretamente impiegati nel sistema vigente, e del relativo diritto UE dell’economia finanziaria.

Prima di una sintetica spiegazione dei quattro approcci, soffermandoci in particolare su quello pluralista, è forse opportuno ribadire due aspetti. Il primo è che gli approcci in parola, sebbene distinti, non sono necessariamente incompatibili; anzi, essi sono spesso complementari, utilizzati e utilizzabili in combinazione l’uno con l’altro. Il secondo aspetto da ribadire riguarda la natura dei molteplici elementi a cui applicare tali approcci: gli elementi da ordinare non sono solamente quelli di natura strettamente giuridica (si pensi ad es. alla pluralità di fonti normative, di ordinamenti giuridici o di procedure decisionali coinvolte nella regolazione di una determinata questione), ma sono anche quelli di altra natura. Nella regolazione di una medesima “fattispecie” concreta, per esempio, possono venire in rilievo, e quindi richiedere di essere ordinate, una pluralità di interessi pubblici, o una varietà di esigenze economiche, una pluralità di razionalità, di pareri tecnici, di espressioni culturali, così come una molteplicità di volontà democraticamente espresse. Detto ciò, possiamo sinteticamente distinguere i quattro approcci.

L’approccio gerarchico imposta gli elementi che compongono la realtà sul piano – appunto – gerarchico, all’interno di un sistema unitario e piramidale. È un approccio formale alle relazioni, alle rivendicazioni, agli interessi, alle istituzioni; un approccio in cui le pluralità sono ordinate e i conflitti risolti in base ad un rigido schema binario prestabilito (superiore/inferiore; prevalente/soccom­bente; vincente/perdente; ordine ed esecuzione) e unidirezionale. Ad es. sul piano delle fonti normative, vi sono fonti sovraordinate e fonti subordinate; e anche in caso di fonti di pari ‘forza’ si applicano criteri per far prevalerne una (es. criterio temporale o di specialità).

L’approccio autonomista invece concepisce la pluralità di elementi in termini di reciproca indipendenza o autonomia e separazione; esso gestisce le relazioni, le rivendicazioni, etc., come elementi indipendenti, ciascuno nella propria area di competenza. Ad esempio, sul piano delle fonti normative, se una visione gerarchica vede e ordina le fonti lungo una scala gerarchica, facendo prevalere in caso di conflitto la fonte di rango superiore, in una visione autonomista, invece, due fonti possono essere considerate come separate e autonome; il loro rapporto non configurabile in termini gerarchici, ma ad esempio di distinta competenza.

Il terzo approccio è quello uniformante. Esso è teso a gestire la pluralità riducendola a unità, senza far affidamento sullo schema gerarchico. Si mira a far convergere le pluralità, rimuovendo o almeno riducendo le diversità tra gli elementi (ad esempio armonizzando diversi diritti nazionali) o integrandoli in una disciplina ‘unica’ anche se composita (ad esempio sommando le scelte politiche di fondo elaborate in seno ad un determinato forum internazionale con l’attuazione tecnica di tali scelte da parte di un distinto forum decisionale; oppure integrando la regolazione pubblica con quella complementare di origine privata) [7]. È un approccio applicabile in vari modi: mediante leggi nazionali, convenzioni internazionali, la giurisprudenza, e anche mediante l’attività regolativa di privati (es modelli di regolazione uniforme utilizzati nella regolazione contrattuale del commercio internazionale).

Infine, vi è l’approccio pluralista, che costituisce attualmente una delle modalità di maggior interesse per la comprensione e la gestione delle pluralità (giuridiche, economiche, ecc.). [8] L’approccio pluralista è flessibile e aperto; concepisce la pluralità e mira alla composizione della stessa, non sulla base della gerarchia né sulla base della separazione o dell’uniformizzazione, bensì affidandosi all’interazione, all’adeguamento reciproco, al coordinamento e al bilanciamento tra gli elementi rilevanti sul piano sostanziale. Non è una struttura operativa piramidale, gerarchica, bensì reticolare. Il processo decisionale non è dall’alto verso il basso, ma un processo multidirezionale (in verticale, in orizzontale, in diagonale e circolare), congiunto, multilaterale, basato su un’in­terazione cooperativa e sinergica, che mira a trovare una sintesi tra i molteplici elementi (es. regolatori, interessi, obiettivi) che compongono la struttura. La logica del diritto internazionale privato, per esempio, è prevalentemente pluralista, tesa a coordinare l’applicazione di una pluralità di ordinamenti giuridici a una singola fattispecie.

Il funzionamento di un’organizzazione sulla base di una logica pluralista è plastico. Non solo si basa sulla pluralità di elementi, riconosciuti nelle loro particolarità e differenze, ma tali elementi e soprattutto le loro interazioni possono cambiare. Ogni elemento è particolare così come il suo attuale o potenziale ruolo all’interno dell’organizzazione. Il contributo che ogni elemento dà al funzionamento complessivo può essere diverso da quello degli altri, e può cambiare nel tempo, in termini qualitativi (es. tipo di compiti ad esso affidati) o quantitativi (es. il suo contributo può essere più o meno importante per il funzionamento complessivo), così come il tipo di interazioni tra esso e gli altri componenti (es. in termini di autonomia decisionale).

In una prospettiva non meramente analitica ma tesa a intervenire sulla pluralità di elementi al fine di realizzare certi risultati, governare con metodo pluralista le diversità, le interazioni e le connessioni tra i vari elementi, significa tenere conto di tali rapporti e gestirli in funzione di determinati obiettivi. La governance pluralista bilancia le molteplicità di elementi giuridici quali i sistemi giuridici, le fonti normative, gli interessi coinvolti, i regimi giuridici, i regolatori, ecc., per plasmare l’insieme e raggiungere certi obiettivi di public policy. Il bilanciamento può riguardare le attività svolte da diversi organismi pubblici, mediante l’allocazione di compiti, di competenze e di responsabilità tra tali organismi in un contesto non di mera separazione, ma di interazione reciproca (collaborazione, controllo ecc.). La difficoltà insita in tale approccio è proprio quella di riuscire a comporre la pluralità, a trovare il giusto equilibrio tra la molteplicità degli elementi in questione al fine di raggiungere lo scopo prefissato.

Riassumendo, l’approccio gerarchico classifica la pluralità lungo un’unica scala gerarchica. Quello autonomista tiene separato. L’approccio uniformante conduce alla convergenza. Quello pluralista opera un accomodamento reciproco. Facciamo alcuni esempi.

Il primo esempio riguarda due norme giuridiche, una di diritto internazionale l’altra di diritto nazionale. L’approccio gerarchico le colloca in una scala gerarchica (superiore, inferiore, pari). L’approccio autonomista le tiene separate. L’ap­proccio uniformante agisce per uniformarne o avvicinarne il contenuto. L’ap­proccio pluralista ne dosa il contenuto sostanziale (ad esempio, a seconda dei casi, adeguando il contenuto della norma internazionale al contesto nazionale e/o il contenuto della norma nazionale a quanto prevede la norma internazionale).

Un secondo esempio può riguardare due interessi da tutelare. L’approccio gerarchico cerca di determinare quale interesse è superiore, e quindi prevalente. L’approccio autonomista li tiene separati (es. diritto soggettivo e interesse legittimo). L’approccio uniformante cerca elementi comuni. L’approccio pluralista ne opera un bilanciamento sostanziale.

In un terzo esempio, i quattro approcci possono essere applicati in relazione agli aspetti procedurali del processo normativo. L’ordinamento può stabilire che una norma risultante da una certa procedura normativa non può essere in conflitto con una norma risultante da un’altra procedura, gerarchicamente superiore. L’ordinamento può altresì stabilire che una norma risultante da una certa procedura non può regolare una certa materia riservata alla disciplina normativa prodotta da un’altra procedura, come nel caso della riserva di legge (approccio autonomista). Oppure, come vedremo al par. 5, in un’ottica pluralista, l’ordinamento può permettere al legislatore di scegliere caso per caso la procedura più adeguata allo scopo perseguito, così come, in un’ottica pluralista e uniformante, può ammettere di cumulare o integrare distinte procedure espressamente previste in una singola procedura [9].

A fronte dei fenomeni ricordati nell’introduzione, si ritiene che, al fine di poter comprendere e ordinare adeguatamente le pluralità in gioco, il giurista debba adottare una prospettiva multi-dimensionale, in grado di cogliere tutte e quattro le visioni e modalità ordinatorie. Spesso tutti e quattro gli approcci trovano contestuale applicazione, nella disciplina di un determinato oggetto e persino in un medesimo atto normativo.

Per quanto riguarda quest’ultima ipotesi, si pensi alla direttiva nell’ordi­na­mento UE. Essa è contestualmente un’applicazione dell’approccio gerarchico, in quanto le norme in esso contenute prevalgono sul diritto nazionale; dell’ap­proccio autonomista, in quanto la direttiva, priva di diretta applicabilità, opera sulla base di una separazione di competenze normative e di effetti giuridici tra l’atto UE e gli atti di recepimento nazionali dello stesso; dell’approccio uniformante, in quanto lo scopo generale della direttiva è quello di armonizzare i diritti degli Stati membri; e, infine, dell’approccio pluralista, in quanto la direttiva, lasciando per definizione margini di discrezionalità in capo ai singoli Stati su come dare attuazione alla stessa, implica una parziale varietà dei diritti nazionali.

Per quanto riguarda la contestuale applicazione dei quattro approcci nel­l’ambito di una determinata disciplina, un esempio è offerto, in materia bancaria, agli standard adottati in seno al Comitato di Basilea di vigilanza bancaria. Essi sono un’applicazione dell’approccio uniformante (convergente) teso ad elaborare un complesso di standard comuni ai Paesi partecipanti. In una prospettiva gerarchica, tali standard non sono formalmente obbligatori; tuttavia, in conseguenza di vari fattori (interni ed esterni al Comitato), essi producono una forza conformante (compliance pull) che vincola di fatto gli ordinamenti giuridici dei Paesi partecipanti, così come, in parte, di Paesi terzi. Nella prospettiva autonomista, per diventare norme devono essere recepite a livello nazionale. In quella pluralista, in primo luogo, gli standard costituiscono il risultato anche di natura compromissoria delle negoziazioni da parte di una molteplicità di banche centrali e autorità di vigilanza bancaria; in secondo luogo, gli stessi standard mirano a bilanciare la regolazione uniforme con le specificità nazionali (es. mediante la previsione di opzioni regolative negli stessi accordi di Basilea); infine, vi è al momento della loro attuazione nazionale un ulteriore adeguamento rispetto alle esigenze e dinamiche nazionali (l’osservanza degli standard a livello di recepimento nazionale infatti varia da paese a paese), così che la normativa bancaria finale è il risultato di una combinazione sostanziale di più fonti normative.


3. L'approccio pluralista applicato al diritto finanziario dell'UE

Il diritto che regola il sistema finanziario dell’UE offre un interessante caso di studio non solo per mettere in evidenza il fenomeno delle pluralità interdipendenti e integrate, ma anche e soprattutto per analizzare e valutare il ricorso all’approccio pluralista da parte dell’UE per la gestione di tale fenomeno.

Nel quadro della disciplina normativa e istituzionale del sistema finanziario europeo, possiamo soffermarci su quattro gruppi di elementi, quindi quattro pluralità. Il diritto finanziario dell’UE è composto da una molteplicità di constituencies, di regimi giuridici, di livelli regolatori, e di processi normativi e decisionali.

Nella regolazione lato sensu del sistema finanziario europeo, in primo luogo, vengono in rilievo una pluralità di constituencies, intese come ‘comunità’ o ‘basi sociali di riferimento’ i cui interessi sono difesi e promossi da un ‘rappresentante’, non necessariamente di origine elettorale.

In secondo luogo, il diritto UE in questo settore è composto da una pluralità di regimi giuridici, che corrispondono a diversi gradi di integrazione economica, giuridica e istituzionale raggiunti. In materia bancaria, per esempio, vi è un regime giuridico comprensivo di tutti gli Stati membri dell’UE, corrispondente al diritto ‘generale’ del mercato bancario interno e cioè a quelle norme sostanziali e a quella struttura istituzionale che vigono nei confronti di tutti gli Stati membri. Inoltre, vi è l’Unione bancaria, in cui alcuni Stati membri (tra cui tutti quelli della zona euro) hanno dato vita ad una integrazione maggiore del sistema istituzionale con compiti di vigilanza prudenziale e di gestione delle crisi bancarie rivolti limitatamente alle banche degli Stati membri partecipanti al progetto. E, infine, vi sono i singoli sistemi giuridici ed economici bancari nazionali.

In terzo luogo, vi è una pluralità di livelli regolatori: oltre a quello internazionale che incide indirettamente ma materialmente sul contenuto di alcune discipline finanziarie poste in essere dall’ordinamento europeo (il riferimento è in particolare alla disciplina prudenziale bancaria elaborata dal già menzionato Comitato di Basilea), vi è il livello dell’UE e il livello nazionale, entrambi costituiti da una componente legislativa e una amministrativa.

Infine, vi è una pluralità di processi normativi e decisionali. Nello stesso livello UE, le normative possono essere prodotte secondo vari procedimenti, che coinvolgono in varia misura diversi attori istituzionali, di derivazione UE o nazionale. Si pensi, per la fase di attuazione delle norme legislative UE, alla Commissione europea, al Consiglio, alle Autorità di vigilanza finanziaria (European Supervisory Authorities o “ESA”) [10], oltreché alla BCE [11].

L’analisi condotta nelle pagine seguenti mira a evidenziare in che modo la logica pluralista contribuisca a guidare l’ordinamento dell’UE nella gestione di tali pluralità. Ci soffermeremo in particolare sulle constituencies e sui procedimenti normativi e decisionali. Tali pluralità fanno parte dell’hardware del siste­ma, articolato in molteplici interessi, molteplici istituzioni e organismi pubblici, oltre che in una molteplicità di livelli di regolazione e di regimi giuridici. Il software è costituito dai quattro approcci sopra evidenziati. Tale software, applicato a tale hardware, ne determina le modalità operative, stabilendo le funzioni delle componenti, singolarmente e in relazione reciproca. In quanto software con una forte componente pluralista, il suo funzionamento operativo è basato sulla valorizzazione dei singoli elementi, sul loro reciproco bilanciamento e co­ordinamento, e sulla loro interazione sinergica.


4. La logica pluralista per la gestione della molteplicità di constituencies nel diritto finanziario dell'UE

4.1. Le ragioni del ricorso all'approccio pluralista

Nel diritto finanziario dell’UE, e in particolare in quello bancario, è possibile individuare almeno cinque constituencies, i cui interessi cercano in vario modo e in varia misura di trovare rappresentanza nel processo normativo e decisorio. Vi sono gli interessi di sistemi bancari nazionali extra-UE, gli interessi del­l’UE nel suo complesso, gli interessi dei 28 Stati membri che compongono il mercato bancario interno, gli interessi degli Stati membri dell’Unione bancaria, e gli interessi degli Stati non partecipanti all’Unione bancaria. L’UE ha il gravoso compito di far fronte alla pluralità di, e all’inevitabile conflittualità tra, tali interessi nella realizzazione dei propri obiettivi, ossia in particolare l’integra­zione e la stabilità dei mercati finanziari europei e il buon funzionamento della politica monetaria europea. La pluralità di constituencies si intreccia con la pluralità di livelli regolatori presenti: quello internazionale, quello UE e quello nazionale.

La necessità di fare ricorso (anche) a un approccio pluralista per la gestione di una tale varietà di interessi e livelli regolatori è riconducibile sia a considerazioni pragmatiche che a motivi di diritto costituzionale UE. Le prime sono connesse alla consapevolezza del rapporto ambivalente tra i vari interessi in giuoco. I suddetti interessi infatti sono in parte conflittuali (quindi soddisfare uno significa sacrificare l’altro, e viceversa) e in parte interdipendenti (soddisfare uno aiuta anche l’altro, e viceversa). Non tenere nel debito conto una determinata constituency può andare a detrimento anche delle altre constituencies. La natura di interdipendenza e di integrazione dei loro rapporti fa sì che la realizzazione dell’interesse UE dipende in parte dal soddisfacimento di altri interessi. Al fine di raggiungere quest’ultimo risultato l’approccio pluralista risulta particolarmente adatto; a differenza di un mero approccio gerarchico che condurrebbe invece all’esclusione di certi interessi. Per esempio, in una prospettiva internazionale, è nello stesso interesse dell’UE arrivare a un accordo in seno al Comitato di Basilea, anche se tale accordo può prevedere una modulazione degli standard prudenziali non perfettamente in linea con gli interessi del sistema bancario dell’UE nel suo complesso. Quindi, può convenire all’UE fare concessioni a interessi extra-UE se i benefici per gli interessi dell’UE che ne derivano (in termini di stabilità finanziaria globale e di level playing field) comunque superano i costi. Quindi le concessioni possono essere tollerate fino a un limite quantitativo e qualitativo. In questo modo, si realizza un contemperamento che tiene conto di tutti gli interessi in gioco, anche se viene dato a ciascuno di loro un peso diverso.

Lo stesso dicasi per certi interessi nazionali degli Stati membri da cui dipende anche l’interesse UE. Per esempio, una regolazione bancaria efficace può richiedere che si tengano conto di specificità locali legate alle dimensioni, alle attività o alla governance delle banche in uno specifico Stato membro. Ciò significa evitare di introdurre un complesso normativo che sfavorisca ad e­sempio alcune tipologie di banche o di modelli di business bancari senza una sufficiente giustificazione in termini di tutela della stabilità finanziaria. Di conseguenza il sistema istituzionale e decisionale deve essere in grado di individuare e salvaguardare tali interessi nazionali/UE per realizzare il massimo benessere complessivo.

Abbiamo detto che un approccio pluralista alla gestione delle varie constituencies coinvolte nella regolazione bancaria europea è dettato anche da imperativi normativi di cui ai Trattati UE. Ne indichiamo due. In primo luogo, la competenza dell’UE a intervenire in materia bancaria sussiste solo se e nella misura in cui è giustificata dal perseguimento di un obiettivo previsto dall’ordinamento UE. Nel caso dell’intervento del legislatore UE, tale obiettivo è la realizzazione del mercato bancario interno, perseguibile tramite la rimozione degli ostacoli alle libertà di circolazione degli operatori economici nel campo bancario, dei loro servizi e dei loro prodotti. Tali ostacoli sono in gran parte costituiti dalla varietà di normative bancarie nazionali che, sebbene si frappongano all’integrazione bancaria europea, possono essere ammesse in via eccezionale dall’ordina­men­to UE in quanto rispondono a legittimi interessi pubblici nazionali. Tra questi interessi rientrano la salvaguardia del risparmio bancario e la stabilità sistemica. Di conseguenza, l’unica strada percorribile da parte del legislatore UE per la rimozione di tali ostacoli è adottare una normativa a livello UE che sia in grado di raggiungere due risultati allo stesso tempo. Il primo (l’obiettivo finale) è quello di rimuovere e prevenire le diversità dei diritti nazionali; e ciò è realizzato armonizzando questi ultimi e quindi prevedendo una disciplina uniforme in tutti gli Stati membri. Il secondo risultato (funzionale al primo) è quello di prevedere in tale normativa armonizzata una disciplina bancaria idonea a soddisfare i vari interessi pubblici (ad es. la stabilità del sistema bancario) che legittimano, o che altrimenti legittimerebbero, le diversità tra le normative nazionali. In definitiva, il mercato bancario interno può essere realizzato dal legislatore UE solo se riesce ad allineare l’interesse UE agli interessi pubblici nazionali, e cioè a trovare e re­alizzare il punto in cui si è in grado di soddisfare contestualmente l’interesse dell’UE e gli interessi nazionali.

Il secondo imperativo, che impone il bilanciamento tra l’interesse dell’UE e gli interessi nazionali, deriva dal principio di sussidiarietà, uno dei principi costituzionali dell’ordinamento UE. Per effetto di tale principio, la realizzazione del mercato bancario interno permette all’UE di dettare la regolazione bancaria e quindi di comprimere gli spazi di autonomia normativa nazionale, solo se e nella misura in cui le misure nazionali siano insufficienti a tale fine. Il principio di sussidiarietà quindi impone che venga operato il “corretto” dosaggio tra intervento a livello UE e autonomia nazionale.

Ai due imperativi costituzionali sopra indicati corrispondono due valutazioni: una tesa a trovare il corretto allineamento tra interesse UE e interessi nazionali, l’altra diretta a individuare il giusto dosaggio tra l’intervento a livello UE e quello a livello nazionale. È facile intuire il carattere relativo e contestuale di entrambe le valutazioni. La crisi finanziaria e dell’euro hanno modificato, sia il punto di allineamento, sia quello di bilanciamento tra l’interesse UE e gli interessi nazionali.

Per quanto riguarda il primo punto, la consapevolezza e i timori (dell’UE e nazionali) di crisi bancarie e di contagio sistemico sono aumentati. Ciò che l’UE e gli Stati membri considerano necessario in termine di politiche da attuare – nell’interesse tanto dell’UE quanto degli Stati membri – è cambiato; ne sono conseguite riforme normative e istituzionali che hanno intensificato e centralizzato l’intervento pubblico in materia bancaria. Per quanto riguarda il secondo punto, il bilanciamento tra l’interesse all’integrazione del mercato bancario europeo e l’interesse dei singoli Stati membri a mantenere un buon margine di autonomia nella regolazione e nella vigilanza della banca era diverso dal bilanciamento attualmente effettuato per effetto delle riforme legislative e istituzionali introdotte dall’UE (le ESA e l’Unione bancaria). Il peso del­l’integrazione è aumentato rispetto a quello dell’autonomia nazionale. Tale autonomia rimane sempre uno degli interessi legittimi da tutelare, ma in misura minore e soprattutto con modalità diverse. Quest’ultimo è un aspetto da mettere in risalto. Si pensi per es. alle differenze tra l’accentramento realizzato tramite il meccanismo di vigilanza unico e il sistema previgente, affidato all’ar­monizzazione essenziale e al mutuo riconoscimento. Rispetto a quest’ultima strategia, l’accentramento attuale consente in misura notevolmente maggiore di realizzare già a livello centrale il bilanciamento tra l’esigenza di una regolazione uniforme e le specificità nazionali (es. inserendo nella normativa bancaria comune a tutti gli Stati membri delle normative che tengano conto di particolarità locali). A sua volta, tale bilanciamento centralizzato consente o potrebbe consentire, come spieghiamo meglio infra, di evitare in modo più efficace un esercizio eccessivamente concentrato sugli interessi nazionali (contrapposti all’interesse dell’UE nel suo complesso) dei poteri di regolazione e di vigilanza in materia bancaria da parte degli Stati membri.

Riassumendo, le molteplicità delle constituencies esigono l’adozione (anche) di un approccio pluralista, teso a includere e, se necessario, bilanciare una molteplicità di elementi, tra cui i vari interessi che vengono in rilievo. Nei paragrafi seguenti sarà evidenziata la logica pluralista sottesa al diritto UE in materia finanziaria, nella gestione dei rapporti tra constituencies europee ed extra-UE (par. 4.2), e in quella tra constituencies interne all’UE mediante l’i­sti­tuzione del Sistema europeo di vigilanza finanziaria, prima (par. 4.3), e dell’U­nione bancaria europea, poi (par. 4.4).


4.2. Il bilanciamento tra le constituencies europee ed extra-UE

Gli interessi di alcuni sistemi bancari nazionali extra-UE finiscono per essere indirettamente rappresentati nella normativa bancaria vigente nell’UE tramite il processo di elaborazione degli standard all’interno del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria. Tradizionalmente gli interessi extra-UE come quelli dell’industria bancaria statunitense hanno un peso particolarmente rilevante ri­spetto alla generalità degli altri sistemi bancari da cui provengono gli altri membri del Comitato. Come è naturale in una negoziazione che tende a compromessi reciproci, è certo che alcuni aspetti degli standard alla fine elaborati soddisfano interessi extra-UE e non necessariamente quelli del mercato bancario UE o quelli nazionali europei. Gli standard adottati con il metodo del consensus dai componenti con diritto voto del Comitato, sebbene non giuridicamente vincolanti sono in gran parte recepiti nella regolazione prudenziale bancaria UE, costituendone quindi certamente una delle fonti materiali più importanti. Uno degli obiettivi espressi della rilevante normativa UE in materia è proprio quello di dare attuazione agli accordi di Basilea [12].

Per la gestione del potenziale attrito tra gli interessi europei e quelli extra-UE, se da un lato, come già detto, è fisiologico che ci siano delle concessioni reciproche, dall’altro lato, la posizione negoziale internazionale a favore degli interessi UE è tanto più forte quanto maggiore è la sua capacità di essere unitaria. Ciò implica la necessità che i componenti europei del Comitato costituiscano un fronte unico e promuovano una singola posizione negoziale concordata a livello UE per la tutela degli interessi del sistema bancario UE nel suo complesso. In particolare le autorità di vigilanza degli Stati membri che fanno parte del Comitato dovrebbero evitare di condurre in via autonoma le negoziazioni, tese a salvaguardare gli interessi nazionali potenzialmente confliggenti con quelli dell’UE, ma di sostenere invece una posizione negoziale unitaria concordata a livello UE, che salvaguarderebbe meglio gli interessi dell’UE a livello internazionale e da interessi nazionali interni confliggenti. Sono già state sostenute le ragioni per le quali si può ritenere che in base ai Trattati UE le autorità nazionali presenti nel Comitato sono obbligate ad attenersi a una posizione comune decisa dal Consiglio [13]. In sintesi, la natura giuridicamente non vincolante degli accordi di Basilea non impedisce loro di produrre effetti potenzialmente dannosi per gli interessi dell’UE del pari di quelli per i quali i Trattati UE prevedono la competenza esclusiva in capo all’Unione e, se del caso, l’obbligo degli Stati membri di attenersi alla posizione comune stabilita a livello UE. In particolare sul piano procedurale dovrebbe applicarsi per analogia l’art. 218, par. 9 TFUE che prevede l’ipotesi di decisioni da prendere all’interno di un organismo internazionale. È il Consiglio, su proposta della Commissione, che stabilisce le posizioni da adottare a nome dell’Unione all’interno di tale organismo. Nel caso del Comitato di Basilea tale posizione vincolerebbe non solo le istituzioni o l’agenzia UE in esso presenti (la Banca Centrale Europea/SSM, l’EBA oltre alla Commissione come osservatore), ma anche le autorità nazionali di alcuni Stati membri.


4.3. Il bilanciamento tra le constituencies interne all'UE

Oltre agli interessi extra-UE, all’interno della stessa Unione vi è una pluralità di constituencies relative all’industria bancaria che devono essere gestite. Una delle sfide istituzionali più difficili da affrontare per l’UE, in seguito all’e­rompere della crisi finanziaria e dei debiti pubblici, è quella di salvaguardare gli interessi dell’UE nel suo complesso – sul piano, in particolare, dell’inte­gra­zione e della stabilità del mercato bancario europeo – dagli effetti negativi derivanti dalla connessione troppo stretta, nel senso che spiegheremo, tra autorità nazionali e sistemi bancari nazionali. I due principali pilastri delle riforme UE in tema di regolazione bancaria, ossia l’istituzione delle Autorità di vigilanza europea e l’Unione bancaria europea, rispondono proprio all’esigenza di allentare tale connessione.

I modelli di vigilanza nazionale sono stati valutati inadeguati per motivi di natura ‘tecnica’ e di natura ‘politica’. Dal primo punto di vista, l’inadeguatezza deriva dal divario informativo e operativo tra le autorità nazionali e i mercati bancari transfrontalieri. Il divario è dovuto anche all’incapacità e alla mancata volontà – qui risiede l’aspetto politico-amministrativo del giudizio negativo di cui sopra – da parte delle autorità nazionali europee di cooperare e far convergere le loro attività verso un obiettivo comune. A conferma del fatto che tali inadeguatezze sono state alla base della realizzazione di un nuovo assetto istituzionale del Sistema europeo di vigilanza finanziaria, l’incipit dei regolamenti istitutivi delle ESA è il seguente: «I modelli di vigilanza nazionali non sono riusciti a stare al passo con la globalizzazione finanziaria e la realtà integrata e interconnessa dei mercati finanziari europei, nei quali numerosi istituti finanziari operano a livello internazionale. La crisi ha evidenziato gravi lacune in materia di cooperazione, coordinamento, applicazione uniforme del diritto dell’Unione e fiducia tra le autorità nazionali di vigilanza» [14]. Come detto, alle radici di tali lacune vi sono interessi nazionali diversi e divergenti. Il nuovo approccio alla realizzazione e regolazione del mercato unico bancario, risalente alla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, basato sull’armoniz­za­zione minima, mutuo riconoscimento e cooperazione tra le autorità del Paese di origine e di quello ospitante della banca [15], ha permesso politiche di vigilanza protezionistiche e spazi per una competizione ‘sleale’ tra sistemi giuridici ed economici bancari; a danno della robustezza complessiva della struttura normativa e istituzionale in materia bancaria, e quindi del sistema finanziario europeo [16]. Si può inquadrare il problema in termini di esternalità negative: in considerazione dell’interdipendenza e delle interconnessioni tra i vari sistemi bancari nazionali all’interno dell’UE, una regolazione e una vigilanza finanziaria nazionale inadeguata – per esempio, in quanto eccessivamente permissiva sul piano dei requisiti prudenziali e compiacente sul piano dei controlli – può essere tale da scaricare parte dei costi, anche in termini di rischio di una crisi sistemica, sugli altri sistemi nazionali.

Anche per fare fronte a tali esternalità negative, con la creazione del Sistema europeo di vigilanza finanziaria, l’UE ha aumentato il grado di centralizzazione dell’attività normativa secondaria e della vigilanza. Il nuovo assetto ruota intorno al lavoro delle ESA e della Commissione; tuttavia anche il Consiglio, il Parlamento europeo e a volte i rappresentanti dei governi nazionali (tramite i comitati della procedura di comitologia) sono coinvolti. Le ESA sono il motore dietro ai nuovi poteri esercitati a livello europeo di elaborazione di standard tecnici vincolanti, diretti ad aumentare il livello di armonizzazione. Sono le ESA, ciascuna nel proprio settore finanziario di competenza, a elaborare gli standard che devono poi essere approvati dalla Commissione.

La questione che viene in rilievo è se la nuova governance sia capace di rimuovere le esternalità negative derivanti dai modelli di vigilanza nazionali. È lecito nutrire qualche dubbio. Il grado di centralizzazione e di indipendenza del nuovo assetto istituzionale UE è da considerarsi insufficiente. Ciò fa sì che le autorità nazionali sono ancora in controllo dell’elaborazione delle norme secondarie bancarie e della loro applicazione. Le autorità nazionali godono ancora di un sufficiente spazio di intervento per tutelare gli interessi nazionali a detrimento di quelli comuni.

Sotto il profilo della centralizzazione, lo spostamento di poteri dal livello nazionale a quello europeo è da considerarsi incompleto. Il grado di armonizzazione europea non è sufficiente a rimuovere le differenze ingiustificate tra le norme degli Stati membri e tra le pratiche di vigilanza nazionali. Varie sono le cause.

In primo luogo, la legislazione bancaria dell’UE prevede ancora numerose opzioni e discrezionalità (O&D) nazionali. L’opzione fa riferimento alla situazione in cui le autorità nazionali o gli Stati membri si vedono attribuiti la possibilità di scegliere come dare adempimento ad una determina prescrizione selezionando da un ventaglio di alternative previste dal legislatore UE. La discrezionalità nazionale invece riguarda le situazioni in cui le autorità competenti o gli Stati membri hanno il potere di decidere se dare applicazione oppure no a una determinata norma legislativa UE. Alcune O&D sono esercitabili dal legislatore nazionale (queste sono quelle indirizzate agli Stati membri), mentre altre sono di competenza delle autorità di vigilanza nazionali (queste sono quelle indirizzate alle autorità competenti).

Per esempio, tra gli obiettivi perseguiti dal legislatore UE in tema di requisiti patrimoniali mediante il già citato regolamento (UE) n. 575/2013 (CRR) e la direttiva 2013/36/UE (CRD IV) [17] vi è quello di affrontare il problema delle opzioni e discrezionalità previste nel precedente regime al fine di realizzare un corpus unico di norme applicato a tutte le banche dell’UE (il c.d. single rulebook). Tuttavia, in tali atti legislativi rimangono nel complesso più di 150 opzioni e discrezionalità nazionali [18]. L’ostacolo all’armonizzazione costituito dalle O&D è stato in parte affrontato dalla BCE all’interno del Meccanismo di vigilanza unico (SSM). Divenuta ‘autorità competente’ per gli enti creditizi classificati come significativi dal diritto bancario UE, la BCE ha assunto il potere di esercitare le rilevanti opzioni e discrezionalità ‘nazionali’. La BCE ha lavorato all’armonizzazione delle O&D, che essa vede come causa di distorsioni concorrenziali, di un ulteriore strato di complessità normativa, e di ulteriori costi legali e di ampie opportunità per arbitraggi normativi [19].

In merito all’elaborazione di un single rulebook in materia bancaria, l’a­do­zione della prospettiva pluralista – che si affianca all’approccio uniformante e gerarchico – mette in risalto l’importanza di trovare un giusto equilibrio tra l’e­sigenza di armonizzazione normativa e la necessità di tenere conto e anzi salvaguardare alcune diversità locali di carattere economico. La stessa BCE ha stabilito che nell’assolvimento dei suoi compiti di vigilanza deve «tenere pienamente conto delle diversità degli enti creditizi, delle loro dimensioni e del loro modello imprenditoriale, nonché dei vantaggi sistemici della diversità nel settore bancario» [20]. Deve quindi essere introdotta una disciplina che sia uniforme ma allo stesso tempo sufficientemente articolata da adeguarsi ai differenti scenari socio-economici locali. Ad esempio, la regolazione bancaria deve essere in grado di gestire la circostanza che i cicli creditizi ed economici non sono sincronizzati in tutta l’UE. Per questa ragione, per essere efficace la regolazione prudenziale bancaria deve permettere la possibilità che alle banche in uno specifico mercato nazionale (ad es. in cui è presente una bolla speculativa immobiliare) siano imposti requisiti di capitali più severi (es. in riferimento ai prestiti nel settore dell’edilizia). Tuttavia, alla luce del mal funzionamento della previgente strategia europea di regolazione, basata sul modello della vigilanza nazionale, l’allineamento tra uniformità e diversità può essere garantito solo se effettuato a livello UE. È la stessa normativa armonizzata che deve prevedere al suo interno norme speciali che permettano ‘deviazioni’ nazionali dalla disciplina UE standard. La regolazione delle diversità, come quelle richiamate sopra dalla BCE, deve far parte della disciplina UE, approvata da autorità UE, e non lasciate al regolatore nazionale.

Altri ostacoli alla realizzazione di un effettivo corpus unico di norme in materia bancaria riguardano il mandato attribuito dal legislatore UE alle ESA. In alcuni casi si chiede a queste ultime di sviluppare standard tecnici di immediata applicazione. Come affermato dallo stesso Presidente dell’EBA, Enria, l’at­tuazione di direttive di armonizzazione limitata mediante regolamenti (elaborati dalle ESA e approvati dalla Commissione) risulta fonte di complessità e sembra spesso concepita a livello legislativo proprio per evitare l’armoniz­za­zione massima [21]. Altri fattori, di natura propriamente istituzionali, riguardano i poteri attribuiti alle ESA dai loro atti istitutivi. L’elaborazione degli standard avviene a livello UE (tramite la delega del legislatore UE alle ESA e alla Commissione), ma gli Stati membri rimangono in controllo delle fasi di attuazione e di applicazione delle regole e degli standard, armonizzati a livello UE nella fase legislativa e amministrativa. Pratiche nazionali divergenti possono mantenere la frammentazione giuridica e quindi la concorrenza tra ordinamenti nazionali e le esternalità negative all’interno del settore bancario UE. Nel quadro del Sistema europeo di vigilanza finanziaria, l’enforcement delle regole finanziarie è ancora una competenza nazionale (ad eccezioni di casi limitati, riguardanti, ad esempio, i poteri di intervento in situazioni di emergenza di cui all’art. 18, par. 4, dei regolamenti ESA e il potere di vigilanza dell’ESMA sulle agenzie di credito di cui agli artt. 21 e ss. del regolamento (CE) n. 1069/2009 relativo alle agenzie di credito [22]). Solo l’enforcement nei confronti degli Stati membri è centralizzato. A questo riguardo, le ESA non hanno poteri di intervento diretti in caso di inadempienze da parte degli Stati membri. Solo la Com­missione può agire contro uno Stato membro, sulla base delle procedure generali previste all’art. 258 TFUE.

La nuova governance finanziaria risulta carente anche in termini di indipendenza. Per fare fronte agli approcci ‘nazionalistici’ alla vigilanza finanziaria, la (piena) centralizzazione dei poteri a vantaggio del livello UE non sarebbe comunque sufficiente. Occorre anche che l’esercizio dei poteri centralizzati sia immune alla logica di contrapposizione tra “nazionale e straniero”, per essere sostituita da quella della tutela dell’“interesse esclusivo dell’UE nel suo insieme” [23]. Invece, i processi decisionali interni alle ESA sono ancora dominati dalle prospettive locali e da bias nazionali: i 28 membri del Consiglio delle autorità di vigilanza con diritto di voto sono costituiti dai vertici delle autorità di vigilanza nazionali. Gli standard tecnici sono adottati alla maggioranza qualificata dei componenti. La composizione e il sistema di voto sono tali da far emergere il rischio che considerazioni politiche di matrice nazionale guidino le decisioni del Consiglio delle autorità di vigilanza. Nell’elaborazione degli standard tecnici al­l’interno delle ESA, è possibile evitare la logica binaria nazionale/straniero dal­l’azione delle singole autorità nazionali, ma non dall’azione collettiva degli Stati membri costituenti la maggioranza. Le decisioni possono essere prese nel­l’interesse nazionale della maggioranza, invece che nell’interesse dell’UE nella sua interezza. L’e­si­stenza di questo rischio trova conferma nell’emenda­mento del 2013 apportato alle procedure di voto del Comitato di Supervisori dell’EBA. Per il timore che il gruppo di autorità nazionali partecipanti al Meccanismo di vigilanza unico (SSM) possa dominare la funzione regolatoria del­l’EBA, è stato modificato l’art. 44 del regolamento istitutivo dell’EBA in modo che preveda una doppia maggioranza (degli Stati partecipanti al SSM e degli Stati non partecipanti).

A parte i rapporti tra il Meccanismo di vigilanza unico e l’EBA, se le ESA dovessero prendere misure con il fine di promuovere gli interessi della maggioranza dei suoi membri, a detrimento di quelli comuni, sarebbero in violazione dei loro obblighi ‘statutari’. In base ai regolamenti istitutivi il presidente e i componenti con diritto di voto del Consiglio delle autorità di vigilanza devono agire «in piena indipendenza e obiettività nell’interesse esclusivo dell’Unione nel suo insieme, senza chiedere né ricevere istruzioni da parte di istituzioni o organi dell’Unione, dai governi degli Stati membri o da altri soggetti pubblici o privati» [24]. La questione che in questa sede vogliamo mettere in evidenza non riguarda tanto l’illegittimità delle misure adottate dalle ESA, quanto il difetto congenito del meccanismo decisionale di tali autorità in relazione agli interessi per la tutela dei quali queste sono state istituite. Il legislatore UE delega alle ESA determinati poteri decisionali, affinché questi siano esercitati «nell’in­te­resse esclusivo dell’Unione» nel suo insieme [25]. Tuttavia, il meccanismo decisionale previsto all’interno delle ESA non garantisce che quest’ultimo sia effettivamente l’obiettivo perseguito; anzi, è un meccanismo strutturalmente soggetto a un bias a vantaggio degli interessi nazionali maggioritari, potenzialmente in conflitto con quanto stabilito dal legislatore UE.

Ai rilievi critici di cui sopra, si potrebbe obiettare che il ruolo della Commissione nel quadro dell’adozione delle misure elaborate dalle ESA permetta alla governance europea dei sistemi finanziari di possedere un grado adeguato di indipendenza dagli interessi nazionali. È infatti la Commissione ad avere l’ul­tima parola in merito alla quasi totalità delle misure proposte dalle ESA. È la Commissione che formalmente adotta gli standard tecnici (in base agli articoli 290 e 291 TFUE e artt. 10-16, regolamenti ESA), che obbliga gli Stati membri a dare applicazione alla normativa finanziaria UE (art. 17, regolamenti ESA) e che prende le misure di emergenza (art. 18, regolamenti ESA). Il ruolo centrale della Commissione se da un lato rappresenta indubbiamente un fattore capace di rafforzare la dimensione sovranazionale della governance europea dei sistemi finanziari, dall’altro lato tuttavia non costituisce una garanzia assoluta. E ciò alla luce di varie constatazioni. In primo luogo, il processo decisionale della stessa Commissione non è immune da considerazioni politiche e non strettamente tecniche. Gli osservatori hanno già da tempo evidenziato come tale istituzione abbia negli ultimi anni assunto sempre più natura politica. In secondo luogo, è il procedimento di approvazione degli standard tecnici che consente l’emergere di interessi nazionali: gli standard di regolamentazione devono essere (tacitamente) accettati anche dal Consiglio (organo rappresentativo degli interessi nazionali per eccellenza) (arti. 290 TFUE e artt. 15 e ss. regolamenti ESA), così come, ove previsto, gli standard di attuazione devono passare dal processo di Comitologia (rappresentativo di nuovo degli interessi nazionali) (art. 291 TFUE). Infine, per effetto delle loro specifiche expertise tecniche e delle loro informazioni, che le differenziano dalla Commissione, è probabile che in merito agli aspetti più tecnici della regolazione finanziaria, le decisioni risolutive siano il più delle volte quelle volute dalle ESA.

La contraddizione tra la governance delle ESA incentrata sulle autorità nazionali e il loro mandato è stata evidenziata sia dal Parlamento europeo che dalla Commissione. Quest’ultima ha recentemente avanzato una proposta di regolamento per apportare una serie di modifiche al funzionamento delle ESA, tese tra l’altro a rendere la loro governance più efficace [26]. Nell’analisi che ha accompagnato la proposta, la Commissione valuta l’attuale struttura decisionale delle ESA non sufficientemente “indipendente” (p. 6). Secondo la valutazione, la struttura di governance delle ESA rende «difficult to manage conflicts between EU and national interests, creating the risks that ESA decisions are not always taken in the common interests of the EU, that decision-making is delayed or that there is an inaction bias, notably as regards non regulatory activities (binding mediation, breach of EU law procedures, initiation of peer reviews)» [27]. Sussiste «an inherent tension between the European mandate of the ESAs and the national mandate of the competent authorities that are members of the ESA Boards» [28]. Al fine di rendere il processo decisionale delle ESA più indipendente, e quindi rafforzare la prospettiva UE, la Commissione propone di affiancare componenti indipendenti con diritto di voto alle autorità nazionali nel processo decisionale; di introdurre una nuova procedura di nomina e un nuovo ruolo per il presidente e di sostituire il Consiglio di gestione con un Consiglio esecutivo indipendente composto da membri a tempo pieno, nominati esternamente.


4.4. Pluralità di constituencies e Unione bancaria europea

Come già sopra accennato, anche il progetto dell’Unione bancaria è mosso dall’intento di risolvere il problema delle connessioni ‘nocive’ tra Stati membri e sistemi finanziari, in particolare quello bancario. Come il Sistema europeo della vigilanza finanziaria, anche l’Unione bancaria va nel senso di una centralizzazione e di una maggiore indipendenza del regolatore. La motivazione di base è che nel campo della vigilanza prudenziale, della gestione e della prevenzione delle crisi bancarie, per essere efficaci i poteri pubblici debbano essere almeno in parte trasferiti a livello UE; e che l’esercizio dei poteri a livello nazionale debba essere soggetto ad un controllo e a un coordinamento più forte da parte delle autorità UE. I passati modelli di governance basati sul mero coordinamento e sulla cooperazione tra autorità nazionali sono risultati insufficienti ad assicurare efficacia alla vigilanza prudenziale, alla gestione delle crisi e ad una attuazione uniforme delle norme armonizzate UE (v. in tal senso il considerando 5 e 87 del regolamento SSM). Per questa ragione, alcuni poteri previamente di competenza nazionale sono stati attribuiti alla BCE (es. l’au­torizzazione bancaria), e a un’agenzia UE, il Comitato di risoluzione unica o Single Resolution Board (SRB) (es. l’adozione di piani di risoluzione bancaria) nel quadro rispettivamente dell’SSM e del Meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism – SRM) [29]. Entrambi i meccanismi sono composti anche da autorità nazionali (oltre che, nel caso dell’SRM, dalla Commissione e dal Consiglio). La logica sottostante tali riforme non è il ‘mero’ trasferimento verso l’alto dei poteri, quanto invece una più intensa integrazione e cooperazione multilaterale a trazione europea. Per esempio, la decisione della BCE in merito all’autorizzazione bancaria è basata su una precedente valutazione da parte della competente autorità nazionale (art. 14 del regolamento SSM). È una logica pluralista, che riflette la consapevolezza della necessità di un sistema capace di integrare soggetti diversi con distinte competenze al fine di sfruttarne le sinergie. L’integrazione è calibrata a seconda di quelle che sono considerate le esigenze in campo e realizzata tramite una conseguente articolazione dei processi decisionali e operativi che coinvolgano e colleghino in senso multidirezionale un centro (il SSM/BCE) e una molteplicità di snodi decentrati.

L’articolazione della struttura pluralista è plasmata in base alle specifiche esigenze da affrontare, in funzione delle quali il grado di centralizzazione della struttura può essere diverso, così come la ripartizione delle competenze tra il centro e gli snodi. Nel caso dell’SSM, la costituzione di un centro intorno al quale ruota una rete di autorità di vigilanza nazionali risponde tra l’altro al rischio di interferenze e di esternalità negative di matrice nazionale sulla governance dei mercati finanziari. Nell’istituire l’SSM, il legislatore UE giustifica la parziale sostituzione di poteri nazionali con competenze europee facendo esplicito riferimento, oltre che alla struttura paneuropea del mercato bancario, al rischio di «impatto del fallimento di enti creditizi sugli altri Stati membri» (considerando 87 del regolamento SSM). In un contesto di moneta unica, una governance europea che si affidi al solo coordinamento tra autorità nazionali è particolarmente inefficace, e il rischio e le conseguenze di esternalità negative derivanti da modelli nazionali di vigilanza sono particolarmente seri (considerando 5 e 11 del regolamento SSM). Per effetto degli “stretti legami e intercon­nessioni” tra gli Stati membri aderenti all’euro, le preoccupazioni sulle e­ster­nalità negative non riguardano solo i mercati bancari, ma si estendono al mercato dei titoli pubblici e al funzionamento della moneta unica e della politica monetaria. È per tale ragione che tutti gli Stati facenti parte della zona euro devono necessariamente aderire all’Unione bancaria.

Tuttavia, la rimozione della logica binaria ‘nazionale/straniero’ all’interno del­l’UE non è venuta meno con l’introduzione dell’SSM. Quest’ultimo meccanismo lascia spazio a esternalità negative transfrontaliere tra gli Stati partecipanti e quelli non partecipanti. Una supervisione bancaria inadeguata all’inter­no dell’Unione bancaria così come negli Stati membri non partecipanti può contagiare i mercati bancari all’interno dell’UE. Di nuovo, in teoria, cioè in base alla law in books i membri dell’SSM devono proteggere non solo gli interessi della zona euro e quelli degli altri Stati partecipanti all’Unione bancaria, ma gli interessi dell’intera Unione. Tuttavia, in pratica, nella law in action, le priorità possono risultare diverse. Inoltre, centralizzazione non necessariamente equivale a indipendenza da interessi nazionali. La composizione del Consiglio di vigilanza è in gran parte costituita da “rappresentanti” delle autorità nazionali competenti degli Stati membri partecipanti (art. 26). In teoria, essi dovrebbero agire nel solo interesse dell’Unione nel suo complesso, subordinando gli interessi dei rispettivi Stati di appartenenza. Così recita il regolamento SSM:

«I membri del consiglio di vigilanza e il comitato direttivo agiscono in piena indipendenza e obiettività nell’interesse dell’Unione nel suo complesso, senza chie­dere né ricevere istruzioni da parte di istituzioni od organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri o da altri soggetti pubblici o privati.» (articolo 19)

«Tutti i membri del consiglio di vigilanza agiscono nell’interesse dell’Unione nel suo complesso.» (articolo 26)

Il dovere di indipendenza sarà osservato? A noi appare sussista una contraddizione: da un lato, compiti di vigilanza sono stati sottratti alle autorità nazionali a causa anche del fatto che tali poteri erano esercitati con un sguardo eccessivamente parziale rivolto agli interessi nazionali. Dall’altro lato, però, la pianificazione e l’esecuzione della vigilanza nell’SSM rimane nelle mani di un organismo costituito in maggioranza da autorità nazionali. A nostro avviso, per il perseguimento di un interesse propriamente europeo, occorre che le decisioni abbiano effettivamente natura sovranazionale e quindi non possano essere di competenza di un organismo composto da autorità nazionali. Altrimenti, rimane troppo spazio per prospettive nazionalistiche e per conflitti tra interessi nazionali e tra questi e l’interesse dell’UE.

Per esempio, la BCE potrebbe essere criticata per una vigilanza non imparziale se le sue decisioni risultassero più favorevoli ai sistemi bancari di certi Stati membri a danno degli altri. Nel concentrarsi sul rischio di credito, e mettendo in secondo piano i rischi di mercato e legali, la BCE è già stata ‘sospettata’ di favorire gli Stati membri del nord Europa, le quali banche si occupano più di trading e/o sono coinvolte in costose azioni giudiziarie (es. Deutsche Bank) [30]. Dinamiche di contrapposizione tra maggioranza e minoranza di Stati membri partecipanti possono attivarsi nel processo di adozione delle decisioni da parte del Consiglio direttivo della BCE. Tale organo costituisce la sede decisionale finale, da cui però gli Stati membri partecipanti all’SSM ma non aderenti all’euro sono assenti. Per questa ragione il Consiglio direttivo «dovrebbe invitare i rappresentanti degli Stati membri partecipanti la cui moneta non è l’euro quando considera di sollevare obiezioni riguardo ad un progetto di decisione preparato dal consiglio di vigilanza o quando le autorità nazionali competenti interessate comunicano al consiglio direttivo il proprio disaccordo motivato su un progetto di decisione del consiglio di vigilanza, qualora tale decisione sia indirizzata alle autorità nazionali in relazione ad enti creditizi di Stati membri partecipanti la cui moneta non è l’euro.» (considerando 72 del regolamento SSM). Il Consiglio direttivo deve prontamente decidere in merito a qualunque progetto di decisione del Consiglio di vigilanza con cui uno Stato membro esterno alla zona euro non concorda, tenendo pienamente conto delle motivazioni e spiegando per iscritto la sua decisione allo Stato membro interessato. Quest’ultimo può chiedere alla BCE di porre fine alla cooperazione stretta con effetto immediato e non sarà vincolato dalla successiva decisione (art. 7, par. 8, del regolamento SSM). Queste regole speciali costituiscono un’arma a doppio taglio. Da una parte, coinvolgendo le autorità competenti in merito ad una decisione che riguarda le banche sotto la vigilanza di quest’ul­time, si vuole evitare le dinamiche negative tra maggioranza e minoranza di Stati membri. Dall’altra parte, però, in questo modo si reitera la logica nazionalista che identifica l’autorità di vigilanza con lo Stato membro di appartenenza, e lo Stato membro con le ‘sue’ banche. Inoltre, permettendo a uno Stato mem­bro di minacciare di lasciare l’Unione bancaria a causa di decisioni individuali concernenti le ‘sue’ banche, mostra che il processo decisionale UE è ancora permeato da una prospettiva nazionale, ed è quindi debole nel perseguimento degli interessi dell’intera Unione.

Un particolare dovere finalizzato ad assicurare l’imparzialità nell’esercizio della vigilanza prudenziale da parte delle autorità nazionali, e quindi a prevenire l’esternalità negative a danno di sistemi bancari stranieri, è bene esemplificato dall’art. 31, par. 2, del regolamento SSM. La BCE ha il potere di imporre una composizione multi-nazionale dei gruppi di vigilanza che intervengono su un’istituzione finanziaria. Nell’obbligare il coinvolgimento di personale proveniente dalle autorità nazionali competenti di altri Stati partecipanti, e quindi nel rendere possibile un controllo reciproco e continuativo tra le autorità di vigilanza [31], si vuole assicurare che la vigilanza sia esercitata nell’interesse comune e non di singoli Stati. Si vuole prevenire situazioni di conflitto di interessi [32] in cui in particolare autorità nazionali possano essere tentati di subordinare gli interessi UE per proteggere i campioni nazionali o comunque gli interessi nazionali (bancari o no).


5. Pluralità di processi normativi e decisionali

L’approccio pluralista è essenziale nel comprendere anche le pluralità dei processi normativi e decisionali. Oltre che su una pluralità di constituencies, la governance dei mercati finanziari è basata su una pluralità di processi normativi e decisionali a cui si può ricorrere in modo flessibile a livello UE. In tale materia il legislatore UE ha fatto ampio uso del margine di scelta concessogli dai Trattati UE, in particolare in tema di delega di poteri [33]. Infatti, il diritto costituzionale UE attribuisce al legislatore UE un buon grado di flessibilità nel decidere se, che cosa e a chi delegare. La disciplina costituzionale in tema di delega di poteri normativi e decisionali impone certamente dei vincoli al legislatore; questi ultimi però delimitano dei confini sufficientemente ampi da permettere al legislatore UE un buon margine di manovra.

La flessibilità di cui il legislatore UE gode nella delega dei poteri è non solo prevista ma promossa dall’ordinamento costituzionale UE al fine di salvaguardare l’efficienza e l’efficacia delle funzioni di regolazione. Ciò che è stato appena detto trova riscontro sia nel contenuto normativo espresso delle disposizioni costituzionali UE, sia nella loro interpretazione giurisdizionale.

I mercati finanziari costituiscono un settore particolarmente adatto e interessante per illustrare la flessibilità dell’ordinamento UE in tema di produzione di norme e di atti amministrativi, e per chiarire le esigenze che tale flessibilità intende soddisfare.

Come detto, nel settore finanziario, il legislatore UE ha sfruttato ampiamente e in vario modo la flessibilità concessa dall’ordinamento costituzionale UE in tema di delega di poteri. Si possono individuare almeno sei distinti meccanismi per la delega di poteri che il legislatore UE ha adottato in tale settore. Tali meccanismi, spesso combinati tra di loro per il conferimento e la disciplina di singoli poteri, possono essere così elencati:

1) delega di poteri di vigilanza alla BCE in base all’art. 127, par. 6 TFUE;

2) delega del potere di adottare atti delegati alla Commissione ai sensi del­l’art. 290 TFUE (‘delega a guida Commissione’);

3) delega del potere di adottare atti di esecuzione alla Commissione ai sensi dell’art. 291 TFUE (‘delega a guida Commissione’);

4) delega di poteri ‘autonomi’ ad agenzie in base all’art. 114 TFUE;

5) delega ad agenzie del potere di elaborare proposte di ‘standard tecnici di regolamentazione’ (STR) ai sensi dell’art. 114 TFUE che devono essere approvate dalla Commissione ai sensi dell’art. 290 TFUE (‘delega a guida agenzia’);

6) delega ad agenzie del potere di elaborare proposte di standard tecnici di attuazione (STA) ai sensi dell’art. 114 TFUE che devono essere approvate dalla Commissione ai sensi dell’art. 291 TFUE (‘delega a guida agenzia’).

L’analisi che segue prende avvio dai meccanismi espressamente previsti dalle norme dei Trattati. Seguirà l’esame degli altri meccanismi che, con il supporto della giurisprudenza UE, il legislatore ha utilizzato in materia finanziaria.


5.1. Meccanismi di delega espressamente previsti dai Trattati

Il primo meccanismo della lista è l’unico previsto dai Trattati UE specificatamente in materia finanziaria. È quello di cui dall’art. 127, par. 6, TFUE, utilizzato per la prima volta al fine di creare l’SSM e di conferire alla BCE poteri di vigilanza prudenziale.

Il secondo e terzo meccanismo, anch’essi oggetto di una normativa costituzionale esplicita, costituiscono invece il sistema generale previsto nei Trattati UE per la delega legislativa e di adozione di atti di esecuzione da parte del legislatore UE, ossia da parte del Parlamento europeo e del Consiglio.

La disciplina di cui agli artt. 290 e 291 TFUE ben esemplifica la flessibilità dell’ordinamento UE in tema di delega di poteri. Tali articoli, infatti, nel disciplinare la delega da parte del legislatore UE in tema di “atti delegati” e “atti di esecuzione”, prevedono differenti opzioni. L’art. 290 TFUE, al primo paragrafo, prevede che “un atto legislativo”, adottato ai sensi dell’art. 289 TFUE, possa «delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano elementi non essenziali dell’atto legislativo» (la delega di poteri c.d. ‘quasi legislativi’) [34]. A sua volta, l’art. 291 TFUE prevede varie opzioni in tema di attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE. Se da un lato, al primo paragrafo, in linea generale il legislatore UE deve affidare l’attuazione agli Stati membri, al secondo paragrafo, si prevede che quando l’opzione di cui al primo paragrafo non garantisce le necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE, «questi conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione o, in casi specifici debitamente motivati […], al Consiglio».

Sul piano procedurale, i due meccanismi di cui agli artt. 290 e 291 TFUE contengono alcune differenze, oltre a quella appena indicata relativa al soggetto delegato, che nel caso degli atti di esecuzione può essere anche il Consiglio, e non solo la Commissione. La più importante differenza riguarda il controllo e­sercitato sull’istituzione delegata nell’adozione degli atti delegati e in quella degli atti di esecuzione. Nel primo caso, è lo stesso legislatore UE a mantenere il controllo sull’esercizio della delega. L’atto legislativo fissa esplicitamente le con­dizioni anche di natura procedurale cui è soggetta la delega; tra queste, vi è la possibilità da parte del Parlamento europeo o del Consiglio di revocare la delega stessa, e la possibilità di condizionare l’entrata in vigore dell’atto delegato all’assenza di obiezioni da parte delle medesime istituzioni (art. 290, par. 2, TFUE). Nel caso degli atti di attuazione, in base all’art. 291 TFUE, sono invece gli Stati membri a controllare l’attività esecutiva della Commissione. Generalmente questo controllo avviene mediante la procedura c.d. di comitologia [35].

Nel decidere se adottare un meccanismo di delega, ed eventualmente quale dei due, riteniamo che il legislatore UE goda di un’ampia libertà decisionale. Il legislatore può decidere quanto regolare direttamente mediante l’atto legislativo (art. 289 TFUE) e se, ed eventualmente, quanto affidarsi all’atto delegato della Commissione (art. 290 TFUE). Così come può decidere quanto lasciare l’attuazione del diritto UE agli Stati membri (art. 291, par. 1, TFUE) e invece quanto eventualmente affidarsi alla Commissione o al Consiglio (art. 291, secondo paragrafo TFUE). Non essendo questa la sede per argomentare in modo dettagliato l’interpretazione appena sostenuta, ci limitiamo ad alcune sintetiche considerazioni.

Per quanto riguarda la prima opzione, ossia quella tra disciplina ‘legislativa’ e disciplina quasi legislativa ‘delegata’, l’art. 290 TFUE permette al legislatore l’uso della delega per ‘integrare o modificare’ gli elementi non essenziali del­l’atto legislativo. L’atto delegato non può toccare gli elementi essenziali dell’­atto legislativo, potendo solo integrare o modificare di esso solo gli “elementi non essenziali”. Il criterio distintivo relativo alla natura essenziale e non essenziale degli elementi normativi in questione di fatto vincola solo in misura limitata la scelta del legislatore. Ci sono certamente determinati aspetti dell’at­to legislativo che possono essere oggettivamente considerati di fondamentale importanza nell’impianto normativo dell’atto, e che quindi – in quanto elementi essenziali – rientrano nella giurisdizione esclusiva del legislatore. Tuttavia, è ampia la zona grigia in cui non è agevole effettuare oggettivamente tale distinzione. In buona misura, l’essenzialità di una componente normativa è una nozione relativa e contestuale. In ultima analisi, a nostro avviso, è una scelta di natura ‘politica’ da parte del legislatore UE. Per esempio, alcuni requisiti normativi diventano essenziali se sono politicamente controversi.

Per quanto riguarda la seconda opzione, ossia quella tra atti delegati e atti di esecuzione, il criterio più comunemente invocato per distinguere l’art. 290 dall’art. 291 TFUE è quello tra “integrare” inteso come ‘aggiungere nuovi elementi’ [36] (art. 290 TFUE) e “precisare” gli elementi già contenuti in un atto legislativo (ai sensi dell’art. 291 TFUE) [37]. Tuttavia l’effettiva capacità distintiva della contrapposizione tra integrare e precisare è a nostro avviso molto debole, così come debole è di conseguenza il vincolo giuridico-formale alla libertà di scelta del legislatore tra atto delegato e atto di esecuzione. Infatti, in senso stretto, aggiungere nuovi elementi non essenziali a quelli già previsti dall’atto legislativo richiederebbe da parte del delegato l’adozione di norme che non sono in nessun modo previste dal delegante. Tuttavia, quest’ultimo, nell’eser­cizio stesso della delega deve in qualche modo prevedere gli elementi normativi che la Commissione deve adottare, visto che «gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere» devono essere esplicitamente delimitati nell’atto legislativo delegante (art. 290, par. 1, secondo sotto-paragrafo). Quindi, l’atto delegato che integra un atto legislativo inevitabilmente ne specifica il contenuto normativo, rendendo così vana la contrapposizione con la presunta funzione distintiva dell’atto di esecuzione di “precisare” un atto normativo.

Da quanto sopra deriva che il legislatore di fatto gode di un buon margine di libertà nello scegliere le opzioni normative previste dall’ordinamento UE. Questa possibilità ben si concilia con un approccio pluralista alla funzione nor­mativa, in quanto permette al processo normativo e decisionale UE il grado di elasticità necessario per adattarsi alla molteplicità di scenari possibili (elasticità di cui sarebbe privo ove si applicassero i soli approcci gerarchico e autonomista). Riteniamo infatti che al di là dei limiti previsti dalle suddette norme del Trattato, come detto poco restrittivi della libertà del legislatore, quest’ultimo effettua la scelta delle opzioni in campo sulla base di considerazioni e criteri di natura pragmatica e politica, piuttosto che sulla base di criteri giuridico-formali. Poiché le stesse considerazioni politiche sono alla base anche della scelta tra le ulteriori opzioni normative a disposizione del legislatore UE in materia finanziaria, rinviamo l’approfondimento di tale interpretazione al paragrafo successivo, dopo la seppur breve descrizione degli altri processi normativi e decisionali utilizzabili dal legislatore in materia finanziaria.


5.2. Meccanismi di delega ammessi implicitamente dall'ordinamento costituzionale UE

Nel precedente paragrafo ci siamo soffermati sul secondo e terzo meccanismo di delega tra quelli sopra elencati. Il quarto meccanismo è il conferimento da parte del legislatore di poteri vincolanti ad agenzie UE ai sensi dell’art. 114 TFUE. Questi poteri possono essere denominati ‘poteri autonomi’ dell’a­gen­zia, in quanto il loro esercizio da parte di quest’ultima produce direttamente effetti giuridici vincolanti, senza che ci sia il bisogno, dopo il loro conferimento, dell’intervento di istituzioni UE o di autorità nazionali.

La possibilità che il legislatore possa attribuire simili poteri ad agenzie UE non è espressamente prevista dai Trattati UE, ma è stata da essi ricavata in via interpretativa dalla Corte. In tale riconoscimento si ha un’ennesima prova dell’elasticità dell’ordinamento costituzionale in tema di delega di poteri. Nella sentenza Short selling [38], nell’affrontare le questioni giuridiche sollevate dal Regno Unito, la Corte ha salvaguardato, e per certi aspetti aumentato, tale elasticità. Ai fini del presente lavoro, ci concentreremo su due questioni.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione «se gli autori del Trattato FUE abbiano inteso stabilire, agli articoli 290 TFUE e 291 TFUE, un quadro normativo unico che consenta di attribuire esclusivamente alla Commissione taluni poteri delegati e di esecuzione oppure se il legislatore dell’U­nione possa prevedere ulteriori sistemi di delega di poteri siffatti ad organi o ad organismi dell’Unione» [39]. La Corte ha negato che la Commissione (ed eccezionalmente, il Consiglio) abbiano l’esclusiva sui poteri delegati. Infatti, sebbene i Trattati non contengano alcuna disposizione che consenta di attribuire competenze a un organo o a un organismo dell’Unione (e quindi ad un soggetto UE diverso dalla Commissione e dal Consiglio), secondo i giudici europei molte disposizioni del Trattato FUE, come gli articoli 263, 265, 267 e 277 TFUE, presuppongono l’esistenza di una siffatta possibilità [40]. Quindi la Corte ammette che il legislatore UE può decidere di affidarsi ad agenzie, piuttosto che alla Commissione (o al Consiglio) per l’esercizio di «taluni poteri delegati e di esecuzione» [41] come quelli previsti agli artt. 290 e 291 TFUE.

La flessibilità del sistema costituzionale UE in materia di delega di poteri è funzionale all’efficienza e all’efficacia del processo normativo e decisionale dell’UE. Le Autorità di vigilanza UE, come l’ESMA – nel caso di specie –, sono concepite quali organismi dotati di una expertise e di conoscenze altamente specializzate finalizzate ad uno specifico scopo, e cioè quello di gestire in modo efficace gli sviluppi continui e complessi dei mercati finanziari. La Corte ha riconosciuto la differenza tra l’ESMA e la Commissione in termini di un’esi­genza che è soddisfatta dalla prima (in quanto autorità di vigilanza finanziaria ad hoc) e non, o comunque meno adeguatamente, dalla seconda. La Corte afferma che l’attribuzione dei poteri all’ESMA «non corrisponde ad alcuna delle ipotesi delimitate dagli articoli 290 TFUE e 291 TFUE» (pt. 83); si ritiene che la differenza risieda nella destinataria della delega: non è la Commissione ma l’ESMA. Quest’ultima è scelta come delegata di poteri allo scopo di garantire il perseguimento della stabilità finanziaria nell’UE. La stessa ragione d’essere dell’ESMA è la necessità di gestire le sfide sempre più complesse derivanti dai mercati finanziari, in particolare sul piano dell’adozione di misure amministrative urgenti [42]. Il bisogno di creare autorità ad hoc, che coordinino una rete di organismi di vigilanza nazionali, spiega e supporta la decisione del legislatore UE di non utilizzare la delega ‘ordinaria’ di poteri alla Commissione, ai sensi degli artt. 290 e 291 TFUE, ma di realizzare invece una struttura istituzionale ‘su misura’ dei mercati finanziari [43].

Nella medesima sentenza – e questa è la seconda questione che ci interessa in questa sede sottolineare – la Corte è stata capace di estendere ulteriormente la flessibilità del diritto costituzionale UE disciplinante la delega dei poteri. La questione era se la giurisprudenza Meroni della Corte si applicasse al caso di specie, e se, in caso positivo, i poteri attribuiti all’ESMA in causa (ex art. 28 del regolamento n. 236/2012) fossero compatibili con i requisiti discendenti da tale giurisprudenza. La Corte ha risposto in senso affermativo a entrambi gli interrogativi. Da un lato essa ha reiterato per l’ennesima volta le formule della giurisprudenza Meroni, in particolare quella secondo cui la delega ad agenzie di poteri che implicano «un vero potere discrezionale» è vietata dal Trattato TFUE [44]. Solo «i poteri di esecuzione nettamente circoscritti» che quindi comportino uno stretto margine di discrezionalità possono essere legittimamente delegati (pt. 41 e 42). I poteri attribuiti all’ESMA rientrano secondo la Corte in questo secondo tipo, risultando quindi legittimi. Dall’altro lato, tuttavia, l’interpre­ta­zione e l’applicazione che la Corte dà di questo stesso requisito – e cioè che il potere delegato deve comportare un grado limitato di discrezionalità – è di fatto difforme dalle precedenti sentenze della giurisprudenza Meroni. Il caso Short selling ha sostanzialmente allargato il ventaglio di poteri che possono essere legittimamente delegati, ritenendo legittimi i poteri delegati al­l’ESMA nonostante essi implichino in realtà un ampio margine di discrezionalità. La Corte ha quindi dato un’interpretazione ampia alla condizione da essa stessa stabilita secondo cui per essere legittimamente delegati i poteri devono essere «disciplinati in modo preciso e sono soggetti a un controllo giurisdizionale alla luce degli obiettivi stabiliti dall’autorità delegante» (pt. 53). Di conseguenza, alla luce della sentenza Short selling, i poteri delegati che sono soggetti ad una precisa e dettagliata condizionalità sono costituzionalmente legittimi, sebbene il loro esercizio comporti un ampio margine di discrezionalità, e non solo di natura tecnica, come alcuni dei poteri dell’ESMA, che richiedono il bilanciamento di interessi confliggenti, dimostrano (art. 28(3) lett. c), del regolamento n. 236/2012).

Oltre ai poteri autonomi dell’agenzia di cui al solo art. 114 TFUE, vi sono altri due meccanismi di delega di poteri alle agenzie, che abbiamo già sopra denominato meccanismi di “delega a guida agenzia”. Essi si basano sull’art. 114 TFUE e sull’art. 290 o 291 TFUE, e costituiscono una modalità speciale di applicazione degli artt. 290 e 291 TFUE, che si aggiungono ai meccanismi ‘ordinari’ di delega, a guida Commissione (basati esclusivamente sugli artt. 290 e 291 TFUE). Ai sensi dell’art. 114 TFUE, il legislatore UE può delegare alle ESA il compito di elaborare proposte di standard tecnici da sottoporre alla Commissione per la loro approvazione, ai sensi dell’art. 290 o 291 TFUE, rispettivamente come atti delegati (gli standard tecnici di regolamentazione, STR) o come atti di esecuzione (gli standard tecnici di attuazione, STA). Diversamente dai poteri autonomi dell’agenzia, in meccanismi di delega a guida agenzia, le agenzie non adottato formalmente l’atto normativo. In più, a differenza della delega a guida Commissione, nel caso di atti di attuazione ex art. 291 TFUE, la procedura di comitologia non trova applicazione. Quest’ultima è sostituita da una speciale procedura normativa, in cui le commissioni di comitologia composte dalle autorità nazionali vengono in qualche modo rimpiazzate dalle ESA.

Quindi, nell’applicazione degli artt. 290 e 291 TFUE, il legislatore può scegliere tra le due coppie di sistemi di delega: a guida Commissione o a guida agenzia. Quale dei due meccanismi troverà concreta applicazione è deciso caso per caso a livello legislativo, ossia nei singoli atti legislativi che prevedono la specifica delega di poteri. Lo stesso atto legislativo nella pratica prevede spesso l’applicazione di entrambe le coppie di delega, affidandosi alla delega a guida Commissione per l’emendamento e il completamento di certe norme legislative (come atti delegati e/o atti di esecuzione) e alla delega a guida a­genzia per l’emendamento e il completamento di altre norme (come STR o STA) [45].

Nella scelta tra i quattro meccanismi sopra indicati, l’aspetto che ci preme sottolineare in questa sede, oltre a quello della pluralità di processi normativi a cui l’ordinamento UE ricorre per la regolazione dei mercati finanziari, riguarda i criteri che determinano la scelta concreta tra gli stessi. Come già anticipato supra, il legislatore gode di un’ampia discrezionalità nello scegliere il ‘tipo’ di delega da utilizzare, e i fattori che guidano la scelta concreta sono prevalentemente di natura pragmatica e politica. Riteniamo inoltre che la concessione da parte dell’ordinamento UE di tale discrezionalità politica sia funzionale a garantire che il processo normativo e decisionale dell’UE sia dotato del necessario grado di flessibilità. Quest’ultima a sua volta è strumentale a mettere in grado il regolatore di adottare caso per caso la soluzione regolatoria più adeguata in relazione alle specifiche esigenze del caso. Questo obiettivo di fondo è chiaramente visibile quando si passa in rassegna la varietà di istituzioni e di organismi che possono essere coinvolti nel processo normativo e decisionale. La scelta di delegare poteri a uno piuttosto che a un altro soggetto è determinata dal tipo di questione da affrontare e dal tipo di interessi coinvolti. I poteri sono delegati a quell’istituzione o quell’organismo che si valuta più adatto a risolvere il problema e a soddisfare gli interessi che vengono in rilievo nel caso specifico. La valutazione di adeguatezza discende dalle specifiche caratteristiche dell’istituzione o dell’organismo in esame, e dagli interessi che vengono in giuoco. Una particolare questione normativa potrebbe richiedere una decisione o un punto di vista di tipo politico oppure di tipo tecnico; oppure potrebbe esigere un regolatore indipendente o uno dotato di una forte legittimità democratica invece che una legittimità tecnica; oppure un decisore con una specifica expertise tecnica ed esperienza in un determinato campo; o potrebbe necessitare una decisione da parte di una istituzione UE, e non sem­plicemente di un agenzia creata dal legislatore; e così via. In sintesi, quindi, la logica sottostante la scelta tra istituzioni o organismi alternativi ai quali delegare il potere normativo o decisorio è quella di assicurare che l’ordina­mento UE fornisca le soluzioni più efficaci ai problemi e alle sfide che devono essere affrontate.

Al fine di capire le difficoltà inerenti alla ricerca della soluzione ‘più efficace’, è necessario evidenziare che una simile soluzione comporta l’esigenza di tenere conto di una molteplicità di interessi eterogenei, dovendo se del caso bilanciare interessi confliggenti. I compiti e le competenze attribuite dal legislatore alle istituzioni e alle agenzie nei sistemi finanziari ben esemplificano la com­plessità che tale esigenza comporta.

A questo proposito è possibile fare due esempi paradigmatici. Come primo esempio, l’art. 14 del regolamento SRM [46] elenca ben cinque categorie di o­biettivi che nella risoluzione bancaria devono essere perseguiti da tutte le autorità pubbliche coinvolte, e cioè dalla Commissione, dal Consiglio e dal Comitato di risoluzione unico, oltre che, ove rileva, dalle autorità nazionali di risoluzione. Gli obiettivi della risoluzione bancaria sono i seguenti: garantire la continuità delle funzioni essenziali; evitare effetti negativi significativi sulla stabilità finanziaria, in particolare attraverso la prevenzione del contagio, anche delle infrastrutture di mercato, e con il mantenimento della disciplina di mercato; salvaguardare i fondi pubblici riducendo al minimo il ricorso al sostegno finanziario pubblico straordinario; tutelare i depositanti e gli investitori; tutelare i fondi e le attività dei clienti. È importante mettere in rilievo, soprattutto in una prospettiva pluralista, che lo stesso art. 14 stabilisce anche che «i diversi o­biettivi della risoluzione rivestono pari importanza e sono ponderati come opportuno a seconda della natura e delle circostanze di ciascun caso.».

Nel secondo esempio, se le ESA da un lato costituiscono agenzie specializzate con particolari responsabilità e competenze relative a specifiche questioni dei mercati finanziari, dall’altro lato, esse sono destinatarie di una gamma di compiti dal raggio relativamente ampio e capaci di incidere su interessi diversi. La lista dei compiti inclusi nel mandato delle ESA è sufficientemente illustrativa di quanto appena affermato e quindi delle difficoltà inerenti alle attività delle agenzie in parola. Alle ESA viene demandato di migliorare il funzionamento del mercato interno, in particolare assicurando un livello di regolamentazione e di vigilanza elevato, efficace e uniforme, tenuto conto degli interessi diversi di tutti gli Stati membri e della natura diversa degli istituti finanziari; tutelare i valori di pubblico interesse quali la stabilità del sistema finanziario, la trasparenza dei mercati e dei prodotti finanziari e la tutela dei depositanti e degli investitori; prevenire l’arbitraggio regolamentare e garantire condizioni di parità, nonché rafforzare il coordinamento internazionale della vigilanza, nel­l’interesse dell’economia nel suo complesso, compresi gli istituti finanziari e le altre parti interessate, i consumatori e i dipendenti; promuovere la convergenza in materia di vigilanza e fornire consulenza alle istituzioni dell’Unione nei settori della regolamentazione e della vigilanza dell’attività bancaria, dei pagamenti e della moneta elettronica e nelle materie ad esso connesse della governance, della revisione contabile e dell’informativa finanziaria; tenere debitamente conto dell’impatto delle sue attività sulla concorrenza e sull’inno­va­zione nel mercato interno, sulla competitività globale dell’Unione, sull’in­clu­sio­ne finanziaria e sulla nuova strategia dell’Unione per la crescita e l’occu­pa­zione [47].

Quindi, al fine di trovare le soluzioni più efficaci a complesse questioni giuridiche relative ai mercati finanziari, la decisione di delegare poteri normativi e amministrativi a certe istituzioni o a organismi piuttosto che ad altri può dipendere da quali tipi di interesse vengono in rilievo. Questa stessa logica determina anche cosa non può essere legittimamente delegato. A quest’ultimo proposito, così come esplicitamente indicato dall’art. 290, par. 1, TFUE e dalla relativa giurisprudenza europea, le scelte politiche fondamentali relative a una determinata materia a livello UE possono essere effettate esclusivamente dal legislatore UE. Sono scelte politiche, e quindi non delegabili, ad esempio quelle riguardanti diritti fondamentali della persona o diritti sovrani di Paesi terzi.

Al di là delle scelte politiche, per quanto riguarda le decisioni che possono essere delegate, la scelta, per esempio, tra la Commissione e il Consiglio come destinatario della delega di poteri di attuazione ai sensi dell’art. 291, par. 2, TFUE, può dipendere dal diverso grado di importanza politica degli interessi in questione. In questi termini va letto il regolamento SRM, laddove spiega chiaramente le ragioni per le quali la decisione legislativa di coinvolgere il Consiglio, e non solo la Commissione, nell’esercizio di poteri di attuazione riguardanti la risoluzione di banche:

«Stante il notevole impatto delle decisioni di risoluzione sulla stabilità finanziaria degli Stati membri e sull’intera Unione nonché sulla sovranità di bilancio degli Stati membri, è importante che al Consiglio siano conferiti i poteri di esecuzione necessari all’adozione di determinate decisioni in materia di risoluzione. Dovrebbe pertanto essere il Consiglio, su proposta della Commissione, ad esercitare un controllo efficace sulla valutazione fatta dal Comitato della sussistenza di un interesse pubblico e a valutare eventuali modifiche non irrilevanti dell’ammontare delle risorse del Fondo da utilizzare per un dato intervento di risoluzione» [48].

La stessa logica sottende la distribuzione dei compiti e delle competenze tra la Commissione e le ESA. Nel meccanismo di delega a guida agenzia, calcoli di efficienza e di adeguatezza portano ad affidare alle ESA, in quanto organismi con una expertise altamente specializzata, l’elaborazione di standard tecnici che non comportano scelte politiche [49]. Dal canto suo, però, la Commis­sione può decidere di non approvare tali standard, al fine di tutelare un’am­pia gamma di interessi, indicati genericamente come “interessi dell’U­nione” [50]. In altre parole, le ESA hanno il compito di proteggere vari interessi in parte contrastanti, che quindi richiedono un margine di discrezionalità; tuttavia la Commissione, in quanto istituzione semi-politica e semi tecnica prevista dagli stessi Trattati UE, ha il potere di decidere di non approvare la proposta del-l’a­gen­zia, sostituendo la valutazione di quest’ultima (es. in termini di bilanciamento di interessi) con la propria, e/o ritenendo certi interessi più importanti rispetto a quelli affidati all’agenzia.

Vediamo più da vicino come quanto sopra detto si applica alla scelta tra i quattro meccanismi di delega. Per quanto riguarda la distinzione tra atti delegati e atti di esecuzione, come detto, il criterio a cui si fa riferimento più comunemente per separare gli ambiti di applicazione degli artt. 290 e 291 TFUE è basato sulla contrapposizione tra ‘aggiungere nuovi’ elementi giuridici e ‘fornire ulteriori dettagli’ a elementi giuridici. Ma questo criterio non trova costante applicazione da parte del legislatore UE nel settore dei mercati finanziari. Il legislatore ha delegato alla Commissione l’adozione di numerosi atti delegati al fine di specificare norme contenute nell’atto legislativo, invece di aggiungere nuovi elementi (non essenziali) a quanto già disposto da quest’ultimo [51].

A nostro avviso, il principale fattore nella scelta tra le due tipologie di misure (e lo stesso vale tra gli standard tecnici di regolamentazione, STR, e quelli di attuazione, STA, previsti dai regolamenti ESA) è l’importanza politica/tec­ni­ca del loro contenuto. Gli atti delegati, diversamente dagli atti di esecuzione, comportano decisioni che modellano il contenuto normativo del regime giuridico. Gli atti di esecuzione invece non hanno tale impatto, essendo la loro funzione principale quella di contribuire a rendere concretamente ‘funzionanti’ le norme legislative e gli atti delegati, regolando aspetti più pratici e operativi del regime. Per esempio, mentre gli atti delegati specificano il contenuto di obblighi sostanziali o di diritti, gli atti di esecuzione prevedono i passi procedurali e le formalità necessarie per adempiere tali obblighi ed esercitare tali diritti. Non è quindi una questione di ‘aggiungere nuovi’ o di ‘prevedere ulteriori dettagli a’ elementi giuridici (una distinzione in realtà di difficile applicazione pratica): sia gli atti delegati che quelli di attuazione sono in grado di aggiungere nuovi dettagli/nuovi elementi giuridici alla misura legislativa. È piuttosto il tipo di nuovi dettagli/nuovi elementi che tende a essere diverso. Se i nuovi dettagli/elementi sono considerati dai regolatori come politicamente importanti, ad es. in quanto sono tali da determinare la configurazione di aspetti fondamentali della disciplina in questione, l’atto sarà adottato come atto delegato. Invece, se i nuovi dettagli /nuovi elementi non sono considerati politicamente importanti, ma rilevanti ‘solo’ in una prospettiva pratica, la scelta andrà nella direzione degli atti di attuazione.

Per quanto riguarda la scelta tra la delega a guida Commissione e quella a guida agenzia nella regolazione dei mercati finanziari, a oggi nella maggior parte dei casi è quest’ultimo il meccanismo applicato. A nostro avviso, ciò è riconducibile a due fattori. Primo, la Commissione difetta di un adeguato livello di risorse tecniche, expertise e informazioni nel campo della regolazione dei mercati finanziari. Secondo, gli Stati membri hanno tutto l’interesse a conservare un ruolo centrale in questa fase del processo normativo. La Commissione sembra essere più interessata a essere il regolatore ‘principale’ in merito alle decisioni nor­mative più politicamente sensibili. Di conseguenza essa concentra su di esse le proprie risorse limitate, affidandosi al ruolo trainante delle ESA, e quindi alle risorse, expertise e informazioni delle autorità di vigilanza nazionali, per il resto, ossia per gran parte della complessa e tecnica regolazione finanziaria. Per quanto riguarda il secondo fattore, gli Stati preferiscono il processo a guida a­genzia in quanto offre loro una migliore possibilità – mediante le autorità nazionali di vigilanza che sono rappresentate negli organi delle ESA – di influenzare il processo normativo. Quanto detto è ben esemplificato dalla direttiva 2014/59/UE che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione delle banche (c.d. direttiva BRRD) [52]. Tale direttiva prevede sia la delega a guida Commissione sia la delega a guida agenzia. Per esempio, il legislatore UE in tale direttiva si affida quasi sempre alla prima tipologia di delega per l’esercizio di poteri normativi che riguardano direttamente gli interessi più politicamente sensibili, quali quelli relativi alle risorse finanziarie sovrane, ai soldi dei creditori delle banche (es. nel bail in) o alle relazioni internazionali. La delega a guida agenzia si applica alla altre decisioni politiche/tecniche; attinenti per esempio alla valutazione dell’impatto del fallimento di una istituzione sui mercati finanziari, sulle altre istituzioni o sulle condizioni di finanziamento al fine di concedere una versione semplificata di obbligazioni riguardanti la preparazione dei piani di risanamento e di risoluzione (art. 4, par. 6, della direttiva BRRD, che prevede l’adozione di standard tecnici di regolazione); oppure attinenti all’insieme minimo di informazioni sui contratti finanziari da inserire nelle documentazione particolareggiata e alle circostanze in cui imporre tale obbligo (art. 71, par. 8 della direttiva BRRD; e regolamento delegato (UE) 2016/1712) [53].


6. Conclusioni
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Lo scopo del presente lavoro era quello di evidenziare una delle modalità di regolazione dell’economia finanziaria UE. È un approccio pragmatico e flessibile, di natura “pluralista”: si basa sull’adeguamento reciproco e sul bilanciamento della pluralità degli elementi che vengono in giuoco nella disciplina del sistema finanziario UE. Abbiamo esaminato tale approccio ‘all’opera’, soffermadoci su due casi studio, e cioè in relazione alla molteplicità di constituencies rilevanti nella disciplina del sistema finanziario UE, e alla varietà di meccanismi decisionali e normativi idonei a regolare tale sistema. Nel quadro di tale esame, è possibile rilevare che tale modalità di regolazione non esclude, ma integra approcci più formalisti e rigidi, come quello gerarchico; e che tale integrazione appare indispensabile per affrontare efficacemente il grado sempre maggiore di complessità, e quindi di imprevedibilità, del sistema finanziario, tanto dal punto di vista economico quanto da quello di policy e di regolazione.

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NOTE

[1] M. LIBERTINI-P. FABBIO, Concorrenza e rating finanziario, in A. PRINCIPE (a cura di), Le agenzie di rating, Giuffrè, Milano, 2014, pp. 156-157.

[2] Risoluzione del Consiglio, del 7 maggio 1985, relativa ad una nuova strategia in materia di armonizzazione tecnica e normalizzazione, GU C 136 del 4 giugno 1985 pp. 1-9. Secondo tale strategia, l’armonizzazione legislativa si limita all’approvazione, mediante direttive, dei requisiti essenziali di sicurezza (o di altre esigenze di interesse collettivo) ai quali devono soddisfare i prodotti immessi sul mercato che, in tal caso, possono circolare liberamente nella Comunità, affidando agli organi competenti per la normalizzazione industriale (il CEN e il CENELEC) il compito di elaborare le specifiche tecniche, tenendo conto del livello tecnologico del momento, di cui le industrie hanno bisogno per produrre ed immettere sul mercato prodotti conformi ai requisiti essenziali fissati dalle direttive.

[3] Lo statuto, le attività svolte e le altre informazioni relative al Comitato sono visibili al sito https://www.bis.org.

[4] Nel quadro dei Trattati UE, per esempio l’intreccio economico tra politica monetaria e politica economica si riflette sul piano normativo, tra l’altro, nella disciplina dei poteri tesi a perseguire gli obiettivi di politica monetaria e di politiche economiche. L’intreccio normativo è visibile in almeno due punti del Trattato. Da un lato, l’art. 119, par. 2, TFEU, così come l’art. 127, par. 1, TFUE prevedono che l’Unione nel perseguire l’obiettivo principale della stabilità dei prezzi persegua se possibile anche l’obiettivo secondario di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione. Quindi, si ha l’azione monetaria che persegue contestualmente obiettivi di politica economica. Dall’altro lato, l’art. 119, par. 3, TFUE prevede che sia gli Stati membri sia l’Unione, sia in tema di politica economica che in tema di politica monetaria, devono rispettare i seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane, nonché bilancia dei pagamenti sostenibili.

[5] P. DE GRAUWE, Economia dell’unione monetaria, Il Mulino, Bologna, 2009.

[6] Per uno studio parallelo di tali approcci applicati alla regolazione dell’attività bancaria internazionale, in una prospettiva di diritto dell’economia internazionale, si veda M. ORTINO, The Governance of Global Banking in the face of Complexity, in Journal of International Economic Law, vol. 22, issue 2, June 2019, pp. 177-204.

[7] V. sul tema del rapporto tra diritto pubblico internazionale e diritto privato transnazionale, F. CAFAGGI, The Many Features of Transnational Private Rule-Making: Unexplored Relationships between Custom, Jura Mercatorum and Global Private Regulation, in University of Pennsylvania Journal of International Law, vol. 36, issue 4, 2015.

[8] La dottrina giuridica discute di ‘pluralismo’, in un’accezione vicina a quella utilizzata nel presente studio, in svariati ambiti, specialmente ove vengono in rilievo contestualmente vari ordinamenti giuridici. Per esempio, in diritto costituzionale, una parte della dottrina che studia la natura dell’Unione europea e i rapporti tra il diritto dell’Unione europea e il diritto costituzionale degli Stati membri, sostiene le teorie del “pluralismo costituzionale” (v. N. MACCORMICK, The Maastricht Urteil: Sovereignty Now, in European Law Journal, vol. 1, issue 3, 1995, pp. 259-266). Il concetto di ‘legal pluralism’ è affrontato anche nello studio dei rapporti compositi tra diritto amministrativo UE e diritto amministrativo nazionale (cfr., inter alia, M. WEIMER, Administrative Constitutionalism and European Conflicts Law, in C. JOERGES (ed.), in cooperation with T. RALLI, After Globalization. New Patterns of Conflict and their Sociological and Legal Re-constructions, Arena Report n. 4/11, Oslo 2011, pp. 159-193); nello studio del diritto bancario (M. AVBELJ, Constitutional and Administrative Pluralism in the EU System of Banking supervision, in German Law Journal, vol. 17, n. 5, 2016, pp. 779-798); così come nello studio del diritto internazionale e dei suoi rapporti con il diritto nazionale (cfr., per esempio, A. VON BOGDANDY, Pluralism, direct effect, and the ultimate say: On the relationship between international law and domestic constitutional law, in International Journal of Constitutional law, vol. 6, nn. 3 & 4, 2008, pp. 397-413). Il fil rouge che accomuna tali discipline nello studio del pluralismo giuridico è, da un lato, la critica al ricorso al (solo) criterio gerarchico per configurare i rapporti giuridici (tra gli ordinamenti giuridici e tra autorità pubbliche) e per risolvere i loro eventuali conflitti, e, dall’altro lato, il sostegno ad una configurazione (almeno in parte) eterarchica di tali rapporti, all’insegna del bilanciamento e del contemperamento tra le rivendicazioni normative derivanti dagli ordinamenti giuridici in un contesto di parziale sovrapposizione.

[9] Nell’ordinamento UE, nel caso in cui per l’adozione di un atto vengano in rilievo più basi giuridiche che prevedono differenti procedure, la Corte ammette la possibilità di dare applicazione congiunta di tali basi a condizione che le rispettive procedure non siano tra loro incompatibili. V. ad es. la sentenza della Corte del 6 novembre 2008, C-155/07, Parlamento c Consiglio, EU:C:2008:605.

[10] In seguito alle raccomandazioni della relazione del gruppo di esperti de Larosière su come rafforzare i meccanismi europei di vigilanza, è stato introdotto nel 2010 il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF), divenuto operativo il 1° gennaio 2011. Il SEVIF è composto dal Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS), dalle tre autorità europee di vigilanza (o European Supervisory Authorities – ESA) – segnatamente l’Autorità bancaria europea (EBA), l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (EIOPA) – e dalle autorità di vigilanza nazionali. Le tre ESA sono state istituite da tre distinti regolamenti dal contenuto pressoché identico (in breve i “regolamenti ESA”) In particolare, l’EBA è stata istituita dal regolamento (UE) n. 1093/2010 (regolamento EBA), l’ESMA dal regolamento n. 1095/2010 (regolamento ESMA), e l’EIOPA dal regolamento (UE) n. 1094/2010 (regolamento EIOPA).

[11] In base alle norme dei Trattati, i processi legislativi UE in materia finanziaria devono coinvolgere la BCE, la cui consulenza è obbligatoria in merito a “qualsiasi proposta di atto dell’Unione” e “sui progetti di disposizione legislative” che rientrano nelle sue competenze (art. 127, par. 4, TFUE; art. 129, par. 3 e 4 TFUE; art. 219, par. 1, TFUE). Tuttavia, il ruolo svolto dalla BCE nella regolazione finanziaria è accresciuto per effetto dell’istituzione del Meccanismo di vigilanza unico (Single Supervisory Mechanism o SSM), all’interno del progetto più ampio dell’Unione bancaria europea. La BCE è diventata l’autorità di vigilanza prudenziale principale nella zona euro (v. il regolamento (UE) n. 1024/2013 del Consiglio dell’UE che attri­buisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi). L’Unione bancaria è stata istituita in risposta alla crisi finanziaria e alla crisi dei debiti pubblici ed è costituita, oltre che dal, dal Meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism o SRM). Mediante l’assegnazione alla BCE di alcuni poteri di controllo e il coordinamento tra la BCE e le autorità di vigilanza nazionali, l’SSM vigila sulle banche più grandi e più importanti della zona euro (ed eventualmente di altri Stati membri che intendano aderire) direttamente a livello europeo; mentre l’SRM mira alla risoluzione ordinata delle banche in dissesto, a un costo minimo per i contribuenti e l’economia reale. Un terzo elemento, un sistema europeo di assicurazione dei depositi (EDIS), è al momento in fase di discussione. Sull’unione bancaria, la letteratura è ormai molto vasta; per una prospettiva multidisciplinare si veda ad es., M.P. CHITI-V. SANTORO (a cura di), L’Unione bancaria europea, Pacini, Pisa, 2016. Sulla questione relativa alla natura normativa o esecutiva delle responsabilità della BCE nel quadro dell’SSM, si veda la “controversia” tra la BCE e il Parlamento europeo e Consiglio in merito al documento della BCE, Addendum alle linee guida della BCE per le banche sui crediti deteriorati (NPL): livelli minimi di accantonamento prudenziale per le esposizioni deteriorate, ottobre 2017, e relativi pareri legali contrari del Parlamento europeo (Legal Opinion D(2017)44064 dell’8 novembre 2017) e del Consiglio dell’UE (n. 14837/17 del 23 novembre 2017).

[12] V. in tal senso il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento [CRR], GU L 176 p. 1, considerando 41, «[i]l 26 giugno 2004 il CBVB [Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria] ha approvato un accordo quadro sulla convergenza internazionale della misurazione del capitale e dei requisiti in materia di fondi propri (“quadro di Basilea II”). Le disposizioni delle direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE riprese nel presente regolamento costituiscono l’equivalente delle disposizioni del quadro di Basilea II. Di conseguenza, con l’inte­gra­zione degli elementi supplementari del quadro di Basilea III, il presente regolamento costituisce l’equivalente delle disposizioni dei quadri di Basilea II e III.».

[13] M. ORTINO, External Competences and the Participation to the Basel Committee on Banking Supervision, in European Business Law Review, 28(6), 2017, p. 911.

[14] Regolamenti ESA, considerando 1.

[15] G. ALPA-F. CAPRIGLIONE, Diritto bancario comunitario, UTET, Torino, 2002.

[16] A. ENRIA, The single rulebook in banking: is it “single” enough?, Lectio magistralis, Università di Padova, 29 settembre 2015.

[17] Direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 sull’acces­so all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento [CRD IV], GU L 176 p. 118.

[18] Il legislatore ha concesso «questa flessibilità, da un lato, per facilitare la transizione a un nuovo regime regolamentare, dall’altro, per lasciare spazio ad approcci di vigilanza differenti, quando ancora non si pensava ad un’autorità di vigilanza unica europea» (I. Angeloni, Scambio di opinioni su tema di vigilanza con la Commissione Finanza e Tesoro del Senato della Repubblica italiana, 23 giugno 2015). Questi poteri discrezionali danno origine a significative differenze tra paesi, in tema di quantificazione del capitale, riserve di liquidità, trattamento dei grandi rischi. Visto che alcune O&D permettono di prevedere a livello nazione requisiti meno stringenti di quelli dettati nella normativa UE, non è possibile parlare neanche di armonizzazione minima.

[19] Per gli enti creditizi significativi sotto la vigilanza della BCE, l’armonizzazione si è conclusa nel 2016 (regolamento (UE) n. 2016/445 della Banca centrale europea del 14 marzo 2016 sull’esercizio delle opzioni e delle discrezionalità previste dal diritto dell’Unione, GU L 78/60). Tuttavia, al fine di assicurare parità concorrenziale e una applicazione omogenea degli standard di vigilanza in tutta l’Unione bancaria, la BCE sta attualmente lavorando all’armonizzazione le O&D per le banche più piccole che sono vigilate dalle autorità competenti nazionali sotto il controllo della BCE (ECB, Guide on options and discretions available in Union law. March and October 2016). Al di là delle competenze della BCE, rimangono le O&D all’interno della Unione bancaria che possono essere esercitate dai legislatori nazionali, e quelle applicabile al di fuori dell’Unione bancaria.

[20] Regolamento (UE) 2016/445 della Banca centrale europea del 14 marzo 2016 sull’e­sercizio delle opzioni e delle discrezionalità previste dal diritto dell’Unione, GU L 78/60, considerando 4.

[21] A. ENRIA, The single rulebook in banking: is it “single” enough?, Lectio magistralis, Università di Padova, 29 settembre 2015.

[22] GU L 302 del 17 novembre 2009, p. 1.

[23] Regolamenti ESA, artt. 42 e 46.

[24] Art. 42 dei regolamenti ESA.

[25] Artt. 1, 42 e 46 dei regolamenti ESA.

[26] Commissione, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 1093/2010 che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria europea) etc., (20 settembre 2017), p. 3. La proposta è attualmente in discussione in Consiglio.

[27] Ibidem, pp. 9-10.

[28] Ibidem, p. 3.

[29] Regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 luglio 2014 che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo di risoluzione unico e del Fondo di risoluzione unico e che modifica il regolamento (UE) n. 1093/2010, GUUE L 225, 30 luglio 2014, pp. 1-90 [regolamento SRM].

[30] A. BAGLIONI, The European banking union. A critical assessment, Palgrave, London, 2016.

[31] Considerando 79, regolamento SSM.

[32] Considerando 40 della prima proposta di regolamento del Consiglio che attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi, COM (2012) 511 final, 12 settembre 2012.

[33] Sentenza della Corte del 13 giugno 1958, 9/56 e 10/56, Meroni c. Alta Autorità, EU:C:1958:7.

[34] V. ad esempio, l’espressione utilizzata nella sentenza della Corte del 22 gennaio 2014, Short selling, C-270/12 EU:C:2014:18, pt. 76.

[35] La comitologia, o procedura del comitato, si applica quando la Commissione ha ricevuto delle competenze di esecuzione in un testo legislativo ex art. 291. La Commissione è assistita da un comitato di rappresentanti nazionali esperti, per definire le misure contenute nell’atto di esecuzione che ne deriva. La procedura del comitato non è obbligatoria per tutti gli atti di esecuzione – la Commissione può adottarne alcuni senza consultare un comitato (ad es. per l’as­segnazione di sovvenzioni al di sotto di un determinato importo). Regolamento (UE) n. 182/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011 che stabilisce le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione, in GU L 55, p. 13.

[36] Sentenza del 18 marzo 2014, Commissione c Parlamento europeo e Consiglio (Biocidi), C-427/12 EU:C:2014:170, pt. 38.

[37] L’altra differenza concettuale, meno problematica, deriva dalla seconda funzione degli atti delegati oltre a quella di integrare gli elementi non essenziali dell’atto legislativo, che è quella di modificarli.

[38] Sentenza della Corte del 22 gennaio 2014, Short selling, C-270/12 EU:C:2014:18.

[39] Ibidem, pt. 78.

[40] Ibidem, pt. 79.

[41] Ibidem, pt. 78.

[42] Ibidem, pt. 85.

[43] Cfr. le conclusioni dell’avvocato generale Jääskinen del 12 settembre 2013, Short selling C-270/12 ECLI:EU:C:2013:562, pt. 99.

[44] Sentenza della Corte del 22 gennaio 2014, Short selling, EU:C:2014:18.

[45] Si veda, per esempio, il regolamento (UE) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, sugli strumenti derivati OTC, le controparti centrali e i repertori di dati sulle negoziazioni, art. 29, par. 5, come STA, art. 81, par. 5, come STR, per le delega a guida agenzia (ESMA); e art. 2 (a), come STA, art. 64, par. 7, e art. 72, par. 3, come STR, per la delega a guida Commissione. Oppure, il regolamento CRR, art. 107, par. 4, art. 114, par. 7, art. 146 (a), come STA, e gli artt. 456, par. 1, e 460, come STR, per la delega a guida Commissione; mentre gli altri articoli prevedono in gran parte la delega a guida agenzia (EBA) come STR e STA.

[46] Regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 luglio 2014 che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo di risoluzione unico e del Fondo di risoluzione unico e che modifica il regolamento (UE) n. 1093/2010, GUUE L 225, 30 luglio 2014, pp. 1-90.

[47] Regolamenti ESA, considerando 11 e 13.

[48] Regolamento SRM, considerando 24.

[49] Regolamenti ESA, considerando 22.

[50] Art. 15, par. 1, regolamento ESA. In senso più restrittivo v. il considerando 23 del medesimo regolamento in cui si indicano dei motivi più limitati a giustificazione della decisione della Commissione di non approvare la proposta delle ESA e di chiederne la modifica.

[51] Possiamo limitarci a un esempio, ben conosciuto per effetto della sentenza Short selling della Corte. L’art. 28 del regolamento (UE) n. 236/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 marzo 2012, relativo alle vendite allo scoperto e a taluni aspetti dei contratti derivati aventi ad oggetto la copertura del rischio di inadempimento dell’emittente (credit default swap) (GU L 86 del 24 marzo 2012, p. 1) attribuisce all’ESMA il potere di agire in circostanze eccezionali in cui c’è «una minaccia all’ordinato funzionamento e all’integrità dei mercati finanziari o alla stabilità di tutto o di parte del sistema finanziario dell’Unione e sussistono implicazioni transfrontaliere». Gli artt. 30 e 42 dello stesso regolamento affidano alla Commissione il potere di adottare atti delegati che specifichino i criteri e i fattori da prendere in considerazione dall’ESMA nel determinare i casi in cui tali minacce sono da ritenersi sussistere. La Commissione ha conseguentemente adottato il regolamento delegato n. 918/2012 (GU L 274 del 9 ottobre 2012, p. 1), al cui art. 24 ha definito in maggiore dettaglio il significato del criterio previsto dal legislatore. Poiché il regolamento delegato specifica una norma legislativa, invece di aggiungere nuove regole all’atto legislativo, potrebbe essere sostenuto che avrebbe dovuto essere una misura di attuazione e non una misura delegata.

[52] GU L 173, 12 giugno 2014, p. 190.

[53] GU L 258, 24 settembre 2016, p. 1.