Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

L'Unione europea e l'insostenibile leggerezza del Web (di Andrea Renda)


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SOMMARIO:

1. Il paradosso del Web: come può l’economia più insostenibile contribuire a un’Europa più sostenibile? - 2. Dai codici del diritto ai codici software: verso una via europea al ciberspazio - NOTE


1. Il paradosso del Web: come può l’economia più insostenibile contribuire a un’Europa più sostenibile?

A un quarto di secolo dal suo silenzioso e graduale ingresso nella vita quotidiana dei cittadini, il World Wide Web appare oggi come una fortezza inespugnabile, e in effetti appena scalfita, dalle maglie del diritto e della politica pubblica. Una fortezza sospinta, nella sua forza e prominenza, dalla pandemia che ne ha accelerato la trasformazione da universo parallelo a punto di accesso quasi unico, e di sicuro imprescindibile, alla realtà circostante. L’aumento vertiginoso del traffico online offre oggi una risposta definitiva a coloro – in verità, sempre meno numerosi – che ancora facevano ostinata resistenza all’idea che la rete Internet fosse da considerarsi infrastruttura critica, al pari della rete energetica, del sistema bancario e della filiera agroalimentare; e che l’accesso a questa “rete di reti” dovesse configurarsi come diritto costituzionalmente garantito, da perseguirsi con grado massimo di priorità per evitare di discriminare porzioni di territorio e popolazione, in spregio del moderno motto leave no one behind, tanto cari ai cultori dello sviluppo sostenibile [1].

All’economia digitale, e ancor più ai colossi che la dominano, facciamo dunque appello oggi per proteggere le nostre democrazie martoriate dal populismo e dalla disinformazione, nonché per sostenere e rilanciare la nostra economia, rivitalizzare i nostri rapporti sociali affievoliti dall’era del lockdown, avviare la trasformazione del nostro sistema economico verso nuovi lidi di resilienza e sostenibilità. Alla transizione “gemella”, verde e digitale, si affida ora l’Unione europea alla ricerca della ripresa resiliente e sostenibile [2]. Parimenti il nuovo governo Draghi si affida in Italia a due ministeri di transizione, ecologica e digitale, per cercare affannosamente la via della risalita.

Eppure, è più che evidente che affidarsi oggi al “digitale” come taumaturgo delle storture e delle difficoltà del mondo al tempo della pandemia appare tentativo a dir poco acrobatico, se non paradossale. In effetti, mai come in questo momento l’universo digitale appare esempio paradigmatico di insostenibilità. Basta guardarsi indietro di qualche anno per scoprire che le magnifiche sorti e progressive dell’era di Internet sono rimaste in gran parte scritte in un libro dei sogni, alimentato quotidianamente da una retorica di laisser faire che sin dagli albori dell’era connessa ha relegato il legislatore a ruolo di spettatore di una vagheggiata era della “innovazione senza permesso” (retorica che oggi viene riproposta, in modo quasi inalterato, per l’era degli smart contract e delle distributed ledger technologies[3].

Il cahier de doléances è fitto. Innanzitutto, l’insostenibilità economica si nutre della straordinaria concentrazione del potere economico nelle mani di alcune entità, peraltro dotate di una governance nei fatti alternativa e ibrida rispetto a quella dell’impresa e a quella del mercato come teorizzate da accademici come Ronald Coase e Oliver Williamson. Le c.d. “piattaforme”, in effetti, corrispondono ben poco alla nozione di impresa come contemplata dal nostro Codice Civile e dai suoi omologhi in Europa e nel mondo. Si tratta di soggetti in grado di catturare, grazie alla dinamica centripeta degli “effetti di rete”, gran parte del valore generato dall’ecosistema digitale; eppure, allo stesso tempo in grado di esternalizzare quasi tutte le funzioni di impresa, incluso il monitoraggio della performance dei dipendenti, nonché la verifica del rispetto della normativa da parte dei prodotti e servizi che vi transitano, generando succulente opportunità pubblicitarie e forzieri di dati che, una volta aggregati, generano valore senza precedenti [4].

Come è noto ai più, le grandi piattaforme sono rimaste nel tempo scevre da responsabilità per molti dei rischi che la loro attività impone alla società, al­l’economia e all’ambiente, alla vita pubblica. La scelta di esonerare gli intermediari della Rete da qualsivoglia responsabilità relativa al contenuto e alle conseguenze del traffico da essi intermediato rispondeva inizialmente alla necessità di preservare la neutralità della Rete come locus di scambio libero di informazioni tra utenti, in modalità end to end. Oggi, però, il contesto è notevolmente mutato: la Rete (o almeno, la sua parte emergente) è nei fatti in mano a pochi soggetti che ne controllano i flussi informativi in modo assai ampio, governando l’attenzione degli utenti (di qui l’appellativo di “mercanti dell’at­ten­zione”) ed estraendone valore. Il risultato salta agli occhi: le (twotrillion dollar companies, ancor prima di vedere ulteriormente moltiplicato il loro valore in tempo di pandemia, pesano in modo così evidente da valore, da sole, più del­l’intero mercato azionario europeo [5]. Già all’inizio del 2020, le big tech valevano duemila miliardi in più rispetto al settore dei media [6]. Tale concentrazione di valore in poche mani risulta insostenibile per tutti gli attori economici che vedono progressivamente aumentare la loro dipendenza dai giganti del Web, con conseguente perdita di valore a loro vantaggio (si pensi al pedaggio del 30% richiesto da Apple a tutti i soggetti che ne utilizzano la piattaforma) [7].

Corollario di questa situazione è il deterioramento della capacità innovativa delle imprese di proporzioni inferiori, depredate progressivamente delle risorse necessarie a investire in ricerca e sviluppo, nonché frustrate nelle loro ambizioni da un contesto di mercato sempre meno premiante. Il problema della “cattura del valore”, denunciato tra gli altri da Mariana Mazzucato, e divenuto nel tempo tema scottante sui tavoli politici più esclusivi e influenti, è divenuto inizialmente problema geopolitico (posto che le piattaforme sono essenzialmente statunitensi o cinesi), e quindi ancor più pervasivo, con gli stessi Stati Uniti e Cina alle prese con un problema di distribuzione interna del valore economico, al punto da iniziare anch’esse a metter mano a forme di regolazione più stringenti [8].

Ma l’insostenibile leggerezza delle piattaforme digitali non si esaurisce con un semplice richiamo alla concentrazione del potere economico. Di là dal perimetro dei profitti e delle perdite, la precarietà e la svalutazione del lavoro umano in un contesto sempre più algoritmico si affaccia come scenario distopico eppure quanto mai realistico. Un recente rapporto dell’ILO evidenzia in modo quanto mai scioccante il progressivo deteriorarsi delle condizioni dei lavoratori nelle piattaforme digitali, man mano che al diritto del lavoro viene sostituita una rete di contratti a breve termine, senza garanzie di sorta [9]. Per di più, il lavoro ai tempi dell’algoritmo porta a scenari apocalittici, con intere schiere di lavoratori dediti a istruire macchine che un giorno, grazie a questo servizio, potranno finalmente sostituirli (è il caso del machine training). A riprova di una situazione tanto precaria, basta osservare l’evoluzione del tasso di disoccupazione negli Usa all’inizio della pandemia: nel giro di tre settimane, le persone sotto sussidio di disoccupazione sono passate da circa 300.000 a 30 milioni, e la successiva ripresa non è mai riuscita a recuperare l’occupa­zione perduta [10].

L’insostenibilità del ciberspazio ha anche risvolti ambientali, in particolare per quanto concerne il consumo energetico dei data center e dei moderni sistemi di deep learning, che per essere addestrati a dovere richiedono quantità immani di energia. Ancor più evidente è il caso di tecnologie di rete peer-to-peer che, per poter garantire la ridondanza dell’informazione, la sincronizzazione tra i nodi e complesse procedure crittografiche per la validazione delle transazioni, necessitano di quantità di energia sproporzionate (si pensi alla blockchain, che ad oggi si stima consumi più energia dell’intera Argentina) [11].

Si potrebbe andare avanti per molto, alla ricerca degli aspetti insostenibili dell’economia digitale. Da un lato, la cibersicurezza appare un miraggio, specialmente se si pensa all’ascesa dell’Internet delle Cose, che espone le reti alla minaccia di attacchi informatici rendendo la superficie d’attacco ogni giorno più densa e porosa. Dall’altro lato, le promesse di automazione del lavoro e la trasformazione delle catene del valore rischia di escludere interi paesi dal­l’economia globale, ancor più oggi che il re-shoring diviene prospettiva possibile e necessaria per ovviare al rischio-Paese indotto dalla pandemia. In questo contesto, il digital divide continua a penalizzare intere porzioni di territorio, anche all’interno della Ue e nel nostro Paese, potenzialmente configurando una perte de chance per tutti i cittadini che si ostinino a risiedere nelle zone meno “servite” dal digitale.

Infine, l’assenza di un controllo effettivo della governance della rete da parte delle istituzioni pubbliche comporta problemi sempre più evidenti anche per la stabilità del processo democratico. Chi si era stupito del caso Cambridge Analytica, affacciandosi per la prima volta sull’inquietante mondo degli esperimenti comportamentali che le reti sociali conducono ogni giorno su ignare masse di utenti, deve oggi arrendersi di fronte al diffondersi di pratiche algoritmiche di fatto senza responsabili, non solo nel settore privato ma anche nel governo. I recenti casi SyRi Gladsaxe in Europa e casi come quello del­l’algoritmo COMPAS negli Stati Uniti mostrano che il rapporto tra amministrazione e cittadini ha raggiunto ormai il livello di guardia, e che i benefici potenziali del governo digitale necessitano di un vaglio attento del modus operandi dei nuovi sistemi [12].

Non si tratta, pertanto, di rivendicare la primazia della governance pubblica rispetto a quella privata (delle piattaforme): semmai, si tratta di comprendere che entrambi i versanti rischiano di precipitare la società in un abisso insostenibile, se non si dotano di strumenti di trasparenza, controllo democratico e accountability. E sebbene sia sicuramente vero che le tecnologie digitali, per loro caratteristica intrinseca, sono al tempo stesso fonte e soluzione del problema, ciò non toglie che il “libero” dispiegarsi delle forze di mercato sia stato sin qui garanzia di insostenibilità, più che volano di magnifiche sorti e progressive.

In questo continuo divenire, già estremizzato dalla pandemia, un simbolico punto di non ritorno è rappresentato dall’attacco al Campidoglio statunitense del gennaio di quest’anno, al quale ha fatto seguito la decisione unilaterale di Twitter e Facebook di bandire per sempre dalle proprie comunità l’allora Presidente degli Stati Uniti. In quella vicenda si ritrovano, uno ad uno, quasi tutti i capi di questo filo aggrovigliato: dalla manipolazione delle reti sociali a uso politico, all’assenza di piena responsabilità da parte degli intermediari, fino al trionfo della governance privata, senza che alcuno strumento giuridico potesse anche soltanto impensierire la condotta delle piattaforme di turno. Un cruccio che da tempo disturba il sonno del legislatore europeo, e che ora inizia a impensierire anche i policymaker negli Stati Uniti, in Giappone e in Cina. O meglio, l’idea che nel nome della “innovazione senza permesso”, si sia legittimata anche la cattura del valore, il controllo del dibattito pubblico, e la sorveglianza senza permesso [13].


2. Dai codici del diritto ai codici software: verso una via europea al ciberspazio

L’enfasi europea sul digitale come strumento salvifico nasconde dunque un bisogno d’azione, la necessità di piegare il ciberspazio alle esigenze di protezione dei principi e valori fondamentali del diritto europeo. Tanto più che ai problemi evidenziati in precedenze si aggiunge, per l’Europa, un’angolatura geopolitica, dovuta al fatto che nessuna delle piattaforme che dominano il Web è europea, ma tutte le piattaforme si nutrono dei dati e comportamenti degli utenti europei, catturandone interamente il valore. Il problema della value capture si tinge dunque di doppio significato, reclamando un intervento di redistribuzione abbinato a un tentativo teso a “rimpatriare” i dati nel Vecchio Continente, o quanto meno ad assicurarsi che i dati prodotti in futuro non lascino l’Europa per finire inesorabilmente nelle mani di soggetti stranieri.

La necessità di una via europea al digitale appare però tanto evidente quanto complessa da realizzare. L’iniziativa simbolo degli ultimi anni, il regolamento europei sulla protezione dei dati personali, ha senz’altro avuto il merito di rilanciare il ruolo del soggetto pubblico nel governare il costante divenire del ciberspazio, ma ha anche dovuto alzare bandiera bianca di fronte alla capacità delle big tech di aggirare l’ostacolo. Ad oggi, il tasso di compliance delle imprese sembra attestarsi al di sotto del 30%, in particolare nel nostro Paese [14]: e anche ove i soggetti che elaborano dati s’ingegnino per rispettare i dettami del GDPR, il meccanismo che ne scaturisce appare poco orientato a un maggior controllo dei dati personali da parte dell’utente finale [15]. Così, mentre i legislatori di tutto il mondo, dal Brasile al Giappone e persino la California, si affrettano a copiare il GDPR come modello di regolazione digitale, ci si rende conto progressivamente che un approccio tradizionale alla regolamentazione, basato essenzialmente su un controllo ex post di condotte spesso quasi impossibili da osservare, non può che limitarsi a scalfire la superficie di un mondo che viaggia ad altri ritmi e con altre dinamiche.

Negli ultimi anni, pertanto, l’Unione europea ha gradualmente modificato la propria visione del mercato unico digitale, agendo su vari fronti e con diversi strumenti per “addomesticare” il ciberspazio alla necessità di protezione dei diritti fondamentali, alle esigenze del Green Deal, nonché all’ambizione europea di maggiore sovranità tecnologica e autonomia strategica.

Tra le traiettorie più evidenti a livello comunitario, le seguenti paiono particolarmente rilevanti da una prospettiva di diritto dell’economia. Innanzitutto, è evidente che l’Unione, spinta da alcuni stati membri, stia lavorando a una graduale e progressiva rivisitazione del campo di applicazione del diritto della concorrenza. La necessità di metter mano allo strumentario tradizionale del diritto antitrust era emersa già in epoca risalente, ad esempio durante gli anni del caso Microsoft statunitense e in seguito in quelli europei dell’era Monti [16]. Negli anni successivi, non i principi ma piuttosto gli strumenti utilizzati dal diritto della concorrenza si sono mostrati sempre meno efficaci e appropriati, perché costruiti in modo da attagliarsi a un’economia di mercato “analogica” [17]. Così, sia nel campo dell’abuso di posizione dominante che in quello del controllo delle concentrazioni, e persino in quello dei cartelli per l’emergere di forme di allineamento del tutto algoritmiche, il ruolo del diritto della concorrenza come strumento di promozione di un’economia dinamica e di massimizzazione del benessere sociale ha progressivamente perso smalto, determinando un cambiamento di direzione che – almeno in embrione – comincia ad affiorare in alcune nuove proposte a livello europeo. In particolare, dopo anni nei quali la DG COMP perseguiva l’armonizzazione “al ribasso” del diritto della concorrenza nazionale, attraverso l’eliminazione di normative sulla condotta unilaterale tanto diffuse a livello nazionale quanto prive di cittadinanza in quello dell’Unione, nell’ultimo lustro la necessità di flessibilizzare il diritto antitrust per catturare situazioni di dipendenza economica e abuso di posizione domante “relativa” è emersa con forza [18]. Ciò ha determinato sia un’espansione del controllo ex post al di là del tradizionale perimetro antitrust (ad esempio, superando le strette maglie della definizione del mercato rilevante e persino l’evidenza di un abuso, come nella recente proposta di Digital Markets Act), sia una transizione dal controllo ex post verso forme di regolamentazione ex ante (si pensi al regolamento Platform-to-Business o P2B, e più recentemente la proposta di Digital Services Act) [19]. In questo mutato contesto, ai grandi soggetti della rete, definiti “guardiani” (gatekeeper) più che imprese dominanti, vengono attribuiti un ruolo e una responsabilità che in passato si riservava per le imprese superdominanti, o ancor meglio ai proprietari di infrastrutture o input essenziali, in ossequio alla essential facilities doctrine. Con un doppio risultato: da un lato, si inasprisce il regime di responsabilità degli intermediari di­gitali – come si è detto, un tempo esonerati da obblighi specifici – rispetto all’equità e alla trasparenza delle condizioni praticate sulle loro piattaforme; dall’altro, piuttosto che privilegiare la contendibilità del mercato, si cristallizza la posizione delle grandi imprese digitali come garanti di una sana concorrenza intra-platform, senza che ne derivi una vera pressione verso una struttura di mercato meno dominata dai big tech.

Una seconda tendenza che si ritiene di evidenziare è il graduale superamento del principio di neutralità della Rete, che si è tradotta sin qui in un’assenza di responsabilità degli intermediari per la condotta dei propri utenti. Man mano che la Rete diviene infrastruttura critica per l’economia e la società, il principio di neutralità (già ampiamente aggirato dalla Rete stessa) non risulta più facile da giustificare, a meno che non si accetti di creare un’im­mensa zona grigia all’in­terno del tracciato delle politiche pubbliche. Tale pressione, anche in questo caso, muove nella direzione di un maggior controllo sulle piattaforme digitali. Peraltro, mentre nel Regno Unito la riflessione avviata con il Libro Bianco sugli Online Harms ha portato a un’attribuzione di responsabilità più pervasiva in capo alle grandi piattaforme, la proposta di Digital Services Act mantiene, con molte eccezioni il principio di non-responsabilità già contenuto nella direttiva sul commercio elettronico, figlia di una generazione in cui l’intrusione degli intermediari nel contenuto scambiato dagli utenti si riteneva eretica ed eccentrica rispetto alla costituzione materiale del ciberspazio [20]. Per altri versi, alle grandi piattaforme viene oggi chiesto di porre in essere misure molto più stringenti per assicurare il corretto e legittimo svolgimento delle relazioni sociali e della vita economica nel contesto dei loro ecosistemi. Ciò include, per il momento, una vagheggiata possibilità di introdurre ispezioni sugli algoritmi utilizzati per profilare gli utenti e ordinare i risultati delle ricerche individuali – possibilità, peraltro, difficile da tradurre nella pratica data la scarsa disponibilità di competenze specifiche nelle autorità preposte al controllo. S’impone, da questo punto di vista, un ulteriore passo in avanti rispetto a quanto la Commissione europea sembra disposta a fare nel DSA, quanto meno per superare il “paradosso necessario” della legislazione europea in tema di piattaforme nell’ultimo decennio: quello di delegare agli stessi soggetti demonizzati dai policy-maker (i c.d. “GAFTAM”) l’ap­plicazione algoritmica di norme di condotta assai delicate dal punto di vista dei diritti fondamentali, come quelle sullo hate speech o sulla protezione del diritto d’autore. Tale passo in avanti, come si dirà più diffusamente in chiusura, non può che contemplare forme tecnologiche di ispezione in tempo reale del funzionamento e comportamento degli algoritmi dispiegati dagli intermediari della rete. Allo stato, salvo quanto si dirà qui di seguito, le istituzioni comunitarie sembrano assai lontane dallo sviluppare questa visione technology-enabled del diritto e della sua applicazione concreta.

La terza traiettoria da rilevare è per l’appunto la necessità di proporre soluzioni tecnologiche che incorporino i dettami regolatori come caratteristiche di design. Il fallimento dei meccanismi tradizionali di applicazione della legge, dalle autorità regolatorie ai giudici, impone al legislatore uno sforzi di compatibilità, teso a parlare la stessa lingua della materia soggiacente ch’es­so intende regolare. Pertanto, forme di regolamentazione algoritmica diventano pressoché inevitabili, con tutti i caveat del caso – se l’intelligenza artificiale erra nel settore privato, di certo può anche mandare il legislatore fuori traccia [21]. Da questo punto di vista, un esempio sfolgorante quanto ancora embrionale è il tentativo di contrapporre allo strapotere dei giganti del cloud non già un gigante europeo, quanto una nuvola “federata”, un coacervo di protocolli tecnici da applicare obbligatoriamente a chiunque voglia erogare servizi cloud in Europa, e tali da imporre l’ottemperanza alla regolazione europea – in primis, il GDPR – “by design”. In questo contesto, il diritto si fa tecnologia, i codici giuridici diventano codici informatici, le pandette si fanno interfacce [22]. Il principio, più che la sua implementazione, è molto semplice: basta ricordare quanto Lawrence Lessig anticipava in modo mirabile già alla metà degli anni Novanta – che cioè nel ciberspazio è l’architettura tecnologica a definire i limiti di ciò che è possibile (e percepito come lecito), e ciò che non lo è [23]. E che il diritto può davvero influenzare la condotta degli utenti del ciberspazio solo ove si faccia code, permeando e contaminando la materia di cui sono fatti i bit. Il tentativo europeo sul cloud federato, basato sull’inizia­tiva franco-tedesca GAIA-X, promette dunque di rivoluzionare il diritto della rete, dando la stura a possibili future incursioni giuridiche nell’arbitrio tecnologico dei privati, ad esempio intervenendo per dare giurisdizione e direzione agli smart contract [24].

A queste tre tendenze, in via residuale, ne andrebbe aggiunta una che forse più di tutte rappresenta l’essenza della nuova traiettoria della cyberlaw. Nel tracciato della Commissione è europea appare evidente che l’era degli open data, del flusso libero di informazioni che rappresentava il vessillo più rivoluzionario della Rete nel suo complesso, è entrata in una fase di declino, almeno per quanto riguarda alcune province del ciberspazio. Elemento chiave, in questo contesto, è la nuova strategia europea sui dati, presentata nel febbraio 2020 e già rappresentata da una prima – invero assai timida – proposta di Data Governance Act, alla quale seguiranno alcune altre proposte di regolazione [25]. Nell’immaginare spazi di dati separati, nei quali le imprese dell’economia reale possano coordinarsi per ottimizzare i servizi e possibilmente ritenere una parte preponderante del valore generato senza regalarlo (come fin qui è avvenuto) alle grandi piattaforme, risponde essenzialmente a un’esigenza di politica industriale: evitare che la cattura del valore, sin qui conclamata nei settori consumer, si abbia a replicare anche in quelli business-to-business e magari anche nel contesto delle amministrazioni pubbliche, con il rischio che ne vengano depredate l’intera economia industriale europea, nonché l’area dei servizi pubblici. Nell’anelito di Thierry Breton, che invoca un’Europa in grado di “contare” nella data economy almeno quanto conta nell’economia globale, si rinvengono i segnali di una graduale rivoluzione copernicana. L’era dei dati aperti è finita, almeno per quanto riguarda la visione europea dell’industria. La neutralità della rete, principio istintivamente condivisibile, è finita col diventare il principale alleato della non-neutralità delle piattaforme e dell’insostenibilità dell’economia. La concorrenza Schumpeteriana del winner-take-all, promessa di dinamismo dell’economia, è divenuta un rischio tale da legittimare dopo decenni di silenzio pretese quasi ordoliberali [26]. L’idea della open innovation, tanto decantata come prospettiva salvifica per le sinergie tra grandi e piccole imprese, è divenuta teatro di sproporzioni contrattuali e cattura del valore. E più in generale, le certezze degli albori della rete, le battaglie ideologiche e libertarie più ispirate, sembrano essersi ritorte contro gli stessi soggetti che le hanno sostenute, e gli stessi principi che le hanno ispirate. Come a dire che da qui, per poter superare le forche caudine di questa generazione digitale, sarà necessario porre mano a uno strumentario nuovo, più agile, e sicuramente più ibrido tra il diritto tradizionale e il diritto come “code”.


NOTE

[1] L’idea dell’accesso a Internet come diritto costituzionalmente garantito può farsi risalire, nell’elaborazione nazionale (ma anche internazionale), al contributo e all’iniziativa di Stefano Rodotà nell’ambito dell’Internet Governance Forum del 2010, poi culminata nel nostro Paese nella “Carta dei diritti di Internet” approvata nel 2015 all’unanimità dalla Camera dei Deputati. La proposta di Rodotà a livello nazionale implicava l’introduzione di un articolo “21-bis” nella Costituzione; soluzione ora ribadita da una proposta di disegno di legge di riforma costituzionale (prima firmataria Marianna Madia), che prevede l’introduzione dopo il sesto comma dell’art. 21 del seguente testo: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate tali da favorire la rimozione di ogni ostacolo di ordine economico e sociale”.

[2] Sei veda, ad esempio, il discorso della Presidente Ursula Von der Leyen sullo “Stato del­l’Unione” del 16 settembre 2020, nel quale si ribadisce che la Commissione punta a una “twin green and digital transition”.

[3] Cfr. tra gli altri, H. CHESBROUGH-M. VAN ALSTYNE, Permissionless innovation, Communications of the ACM, 58, 2015, pp. 24-26, 10.1145/2790832; V. CERF, Keeping the internet open, Communications of the ACM, 59, 2016, 7-7, 10.1145/2980762; e il contributo di Y. BENKLER, The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and Freedom, Yale University Press, 2006.

[4] Cfr. R. COASE, The Nature of the Firm, Economica, 4, 1937, pp. 386-405. O.E. WILLIAMSON, Markets and HierarchiesAnalysis and Anti-Trust Implications, Free Press. Cfr. anche K. REIMERS-X. GUO-M. LI, Beyond markets, hierarchies, and hybrids: an institutional perspective on IT-enabled two-sided markets, Electron Markets, 29, 2019, pp. 287-305.

[5] Si veda ad esempio T. WU, The Attention MerchantsThe Epic Scramble to Get Inside Our Heads, Vintage Books, 2017. In effetti, i titoli FAANGS nel 2018 sono risultati essere determinanti a riportare in positivo valori di indici azionari che altrimenti sarebbero stati nettamente negativi. Cfr. anche J. POUND, U.S. tech stocks are now worth more than the entire European stock market, CNBC, 28 agosto 2020, al sito https://www.cnbc.com/2020/08/28/us-tech-stocks-are-now-worth-more-than-the-entire-european-stock-market.html. E J. JOLLY, Is big tech now just too big to stomach?, The Guardian, 6 febbraio 2021, al sito https://www.theguardian.com/
business/2021/feb/06/is-big-tech-now-just-too-big-to-stomach
.

[6] Cfr. G. BRIDGE, Big Tech Is Now Worth $2 Trillion More Than Media Sector, 2020, al sito https://variety.com/2020/biz/news/big-tech-is-now-worth-2-trillion-more-than-media-sector-120
3456031/.

[7] Si veda l’avvio dell’istruttoria europea nel caso Spotify v. Apple, e il commento di D. GERADIN-D. KATSIFIS, The Antitrust Case Against the Apple App Store, al sito https://ssrn.com/
abstract=3583029
. Simile è la controversia tra Epic Games (produttore di videogame, tra cui il celebre Fortnite) e Apple, che dopo varie schermaglie è sfociata in un ricorso alla Commissione europea da parte di Epic Games il 17 febbraio 2021.

[8] Cfr. M. MAZZUCATO, The Value of Everything: Making and Taking in the Global Economy, Public Affairs, 2018. Sullo stesso tema, con un approfondimento sui Paesi in via di sviluppo, un ampio rapporto è stato pubblicato nel 2019 dall’UNCTAD, Value Creation and Capture: Implications for Developing Countries, Digital Economy Report 2019. Si veda anche D.J. TEECE-G. LINDEN, Business models, value capture, and the digital enterprise, J Org Design, 6, 2017, p. 8.

[9] Cfr. International Labour Organisation, World Economic and Social Outlook 2021: The role of digital labour platforms in transforming the world of work, febbraio 2021.

[10] Cfr. US Congressional Research Service, Unemployment Rates During the COVID-19 Pandemic: In Brief, rapporto R46554, aggiornato al 12 gennaio 2021.

[11] Cfr. C. CRIDDLE, Bitcoin consumes ‘more electricity than Argentina’, BBC News, 10 febbraio 2021, https://www.bbc.com/news/technology-56012952.

[12] Per un’analisi più ampia, si veda A. RENDA et al., Study to Support an Impact Assessment of Regulatory Requirements for Artificial Intelligence in Europe, Rapporto in corso di stampa per la Commissione europea, 2021, DG CONNECT.

[13] Cfr. tra gli altri, S. ZUBOFF, The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future and the new frontier of power, Public Affairs, 2019, p. 691. Si veda anche C. YOU, Law and policy of platform economy in China, Computer Law & Security Review, vol. 39, 2020 (la Cina ha poi reso note le line guida per il trattamento delle piattaforme nella legislazione antitrust nazionale nel novembre 2020). Il Giappone ha adottato nel 2020 una legge sul miglioramento della trasparenza e dell’equità nelle pratiche commerciali di alcune specifiche piattaforme digitali che richiama da vicino il regolamento P2B europeo.

[14] Si veda il Rapporto del Capgemini Research Institute dal titolo, Championing Data Protection and Privacy – a Source of Competitive Advantage in the Digital Century, del 2019, che evidenzia che le aziende hanno aderito al regolamento più lentamente del previsto, citando come ostacoli la complessità dei requisiti normativi, i costi di implementazione e le sfide relative alle infrastrutture legacy. Secondo Capgemini, appena il 28% delle aziende intervistate era riuscito a soddisfare pienamente quanto richiesto dalla normativa a un anno dalla sua entrata in vigore.

[15] Cfr. I. VAN OOIJEN-H.U. VRABEC, Does the GDPR Enhance Consumers’Control over Personal Data? An Analysis from a Behavioural Perspective, J Consum Policy, 42, 2019, pp. 91-107.

[16] Cfr. R. PARDOLESI-A. RENDA, The European Commission’s Case Against Microsoft: Kill Bill?, World Competition, vol. 27, issue 4, dicembre 2004.

[17] Si veda lo studio per la Commissione europea di J. Crémer, H. SCHWEITZER-Y-A. DE MONTJOYE, Competition Policy for the Digital Era, Unione europea, 2019.

[18] Cfr. D. KALFF-A. Renda, Hidden Treasures. Mapping Europe’s Sources of Competitiveness Advantage in Doing Business, CEPS. Si veda anche, con riferimento al precedente orientamento della Commissione – che mirava ad estendere all’art.102 la convergenza già prevista per l’art. 1010 dal regolamento n. 1/2003 – A. RENDA et al., The impact of national rules on unilateral conduct that diverge from Article 102 TFUE, Studio per la Commissione europea, 2012, DG COMP; e A. RENDA et al.Legal framework covering business-to-business unfair trading practices in the retail supply chain, Studio per la Commissione europea, 2014, DG MARKT.

[19] Si fa riferimento al regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, G.U., L 186 dell’11 luglio 2019, pp. 57-79. E alla Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali), COM(2020)842 final.

[20] Cfr. l’Online Harms White Paper britannico al sito https://www.gov.uk/government/con
sultations/online-harms-white-paper/online-harms-white-paper
. E la Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali), che modifica la direttiva 2000/31/CE, COM(2020)825 final, 15 dicembre 2020.

[21] Per numerosi esempi, si veda A. RENDA et al.Study to Support an Impact Assessment of Regulatory Requirements for Artificial Intelligence in Europe, cit.

[22] Cfr. A. RENDA, (2020), Single Market 2.0: the European Union as a Platform, in S. Garben-I. Govaere (a cura di), The Internal Market 2.0, Bloomsbury Publishing Plc.

[23] L. LESSIG, Code and other Laws of Cyberspace, Basic Books, 1999.

[24] Si veda sul tema F. BASSAN, Potere dell’algoritmo e resistenza dei mercati in Italia, Rubettino editore, 2019.

[25] Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla governance europea dei dati, COM(2020)767, 25 novembre 2020.

[26] Si vedano D. KALFF-A. RENDA, cit.

Fascicolo 1 - 2021