Negli ultimi anni le istituzioni europee hanno attribuito un’inedita importanza alle politiche ambientali, fissando ambiziosi obiettivi in materia di sostenibilità ambientale e lotta ai cambiamenti climatici. Il loro perseguimento, tuttavia, non può prescindere da un efficace coinvolgimento di attori pubblici e privati, nonché da una revisione di tutte le politiche europee, compresa quella di concorrenza. Allo stesso tempo, è sempre più diffusa l’idea che collaborazioni tra imprese siano necessarie per ottenere progressi significativi in termini di sostenibilità e performance ambientale, e che molte di queste iniziative siano frustrate dai rischi derivanti da una rigida applicazione della normativa antitrust e, nello specifico, del divieto di intese restrittive stabilito all’art. 101 TFUE. Nel solco di un oramai acceso dibattito a livello europeo e internazionale, con il presente lavoro si tenterà di porre l’attenzione sulle principali questioni interpretative legate all’integrazione di considerazioni ambientali in ambito antitrust, anche alla luce delle recenti iniziative promosse dalla Commissione europea e alcune autorità antitrust nazionali. Se da un lato non si rilevano significativi impedimenti di carattere normativo, anche alla luce del principio sancito dall’art. 11 TFUE, l’integrazione degli obiettivi ambientali nella politica antitrust europea incontra diversi ostacoli tanto sul piano ideologico quanto su quello applicativo.
In a context of increasing attention to sustainability and the risks generated by climate change, the EU has made significant commitments to the cause and declared its intention to become the world’s first climate-neutral continent by 2050. The Commission stated that all the EU actions and policies must contribute to the European Green Deal’s aims, including competition policy. As a result, the debate about the extent to which competition law may contribute to environmental aims is gaining momentum. In such a context, this work aims at exploring the theoretical foundations and operational implications of the integration of environmental concerns into European competition law. More precisely, two fundamental questions will be examined: i) whether the law of the European Union admits an interpretation of competition rules that takes into account environmental considerations, and ii) the mechanisms that would allow such integration under the EU law on agreements ex article 101 TFEU.
Keywords: protection of competition – enviromental sustainability – Covid 19 – greenhouse gas emissions
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1. Introduzione - 2. Le intese sostenibili nella prassi della Commissione europea - 3. Il fondamento normativo di una diversa interpretazione delle norme antitrust: l’obbligo di integrazione - 4. Le radici del conflitto: la molteplicità dei fallimenti del mercato e i limiti dell’analisi economica - 5. Alcune valutazioni sulle soluzioni prospettabili - 6. Considerazioni conclusive - NOTE
È oramai consuetudine che in momenti di crisi le norme sulla concorrenza siano tra le prime ad essere messe in discussione. Accanto alle pressioni per un rilassamento della disciplina per far fronte all’emergenza sanitaria generata dalla diffusione del virus Covid-19 [1], le autorità antitrust europee sono state di recente chiamate ad interrogarsi sulle implicazioni di un’altra crisi altrettanto imminente, quella ambientale. Negli ultimi anni, infatti, la lotta ai cambiamenti climatici e la mitigazione delle loro conseguenze sul piano sociale ed economico hanno acquisito una centralità sempre maggiore nelle politiche nazionali e internazionali. Con l’Accordo di Parigi siglato nel 2015, gli avvertimenti oramai unanimi del mondo della scienza relativi alla necessità di ridurre le emissioni globali, contenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici [2], sono stati tradotti in una serie di impegni in capo ai governi nazionali di natura sia sostanziale sia procedurale [3]. Anche l’opinione pubblica, toccata dai sempre più frequenti fenomeni metereologici estremi, ha maturato un maggiore interesse verso le tematiche ambientali e l’effettività delle politiche di mitigazione e prevenzione messe in atto ai diversi livelli. La sostenibilità ambientale ha assunto una inedita rilevanza anche nell’organizzazione e svolgimento dell’attività di impresa [4], sempre più consapevole dei rischi connessi a fenomeni ambientali e climatici [5], e delle opportunità che derivano dall’adozione di modelli e processi più “responsabili” [6].
In questo contesto, nonostante le diverse battute d’arresto della cooperazione internazionale e i deludenti risultati prodotti dall’Accordo di Parigi, le istituzioni europee hanno ribadito il loro impegno, assegnando un ruolo di indubbia preminenza alle politiche ambientali [7]. In particolare, la nuova Commissione europea, sin dal suo insediamento, ha fatto della lotta ai cambiamenti climatici e al degrado ambientale uno degli elementi chiave del suo programma: con la Comunicazione sul Green Deal europeo [8] e la successiva proposta per una Legge europea sul Clima [9], la Commissione ha presentato un piano d’azione volto a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, sulla base di investimenti e riforme che garantiscano una crescita economica svincolata dallo sfruttamento delle risorse ambientali [10].
Ad ogni modo, come spesso ribadito dalla stessa Commissione [11], il perseguimento di questi ambiziosi obiettivi richiede uno sforzo congiunto di attori pubblici e privati, nonché una revisione di tutte le politiche europee. Per tale ragione, anche le autorità a tutela della concorrenza sono state chiamate ad interrogarsi sulla possibilità di contribuire, attraverso la loro attività, al raggiungimento degli obiettivi ora citati [12]. A tal proposito, lo scorso 13 ottobre 2020 la DG Concorrenza ha avviato una consultazione con i diversi stakeholders per raccogliere idee e proposte sui possibili meccanismi di integrazione degli obiettivi ambientali nell’applicazione delle norme antitrust e quelle in materia di aiuti di stato [13]. Simili iniziative sono state promosse anche a livello nazionale [14].
Tuttavia, occorre evidenziare come queste iniziative abbiano contribuito ad alimentare un dibattito affiorato già da qualche tempo, e solo incidentalmente legato alla realizzazione del Green Deal europeo [15].
Nello specifico, l’inedita attenzione verso il rapporto tra concorrenza e sostenibilità si presta ad una doppia chiave di lettura. In primo luogo, non può ignorarsi il contesto nel quale essa emerge, e in particolare la crisi identitaria che il diritto antitrust (non solo europeo) sta attraversando, e che investe tanto la natura dei suoi obiettivi quanto l’idoneità dei suoi mezzi [16]. Sono infatti sempre più diffuse le critiche nei confronti di una politica della concorrenza proiettata esclusivamente verso l’efficienza economica e indifferente rispetto alle minacce più urgenti della nostra epoca, prima fra tutte, la crescita delle diseguaglianze. È da questa insoddisfazione che prende l’abbrivio il crescente consenso per un approccio multi-purpose riguardo l’interpretazione e l’enforcement delle norme a tutela della concorrenza, in base al quale essa verrebbe concepita come strumento per il perseguimento di una pluralità di obiettivi (non solo economici), tra i quali l’equità sociale, lo sviluppo sostenibile e quindi anche la tutela dell’ambiente.
Secondariamente, in un contesto di fiorente interesse verso l’impatto ambientale delle attività economiche e la responsabilità sociale dell’impresa, da qualche anno è emersa una nuova percezione che vede le norme antitrust quali potenziale ostacolo all’adozione di pratiche sostenibili, e dunque alla realizzazione di obiettivi di interesse generale. Come rilevato in un recente sondaggio [17], è sempre più diffusa l’idea che una collaborazione tra imprese sia necessaria per ottenere progressi significativi in ambito ESG e che molte di queste iniziative siano frustrate dai rischi connessi a una rigida applicazione della normativa antitrust. Un simile scenario è emerso anche dalla consultazione pubblica avviata dalla Commissione europea lo scorso 2019 nell’ambito della revisione dei regolamenti di esenzione per categoria relativi agli accordi di cooperazione orizzontale [18]. Tra le segnalazioni più frequenti si notano quelle relative all’inadeguatezza dell’attuale framework normativo rispetto alle c.d. intese sostenibili, le quali sarebbero scoraggiate dall’assenza di chiare linee guida sul loro trattamento da parte delle autorità antitrust. Al di là della fondatezza di tale percezione e della desiderabilità di collaborazioni di questo tipo, la diffusione di questo sentore ha stimolato un acceso dibattito sui possibili ostacoli di carattere normativo allo sviluppo di iniziative sostenibili di natura privata [19]. Un fenomeno astrattamente inauspicato dalle stesse autorità pubbliche, convinte dell’essenzialità del contributo spontaneo delle imprese, e più in generale il settore privato, per favorire la transizione verso modelli di sviluppo sostenibili e rispettosi dell’ambiente [20].
In questo contesto, non sorprende che sia proprio l’applicazione dell’at.101 TFUE ad assorbire gran parte dell’attuale dibattito in materia di concorrenza e sostenibilità. Diverse possono essere le ragioni di questa tendenza, ma è sicuramente la struttura della norma che, ammettendo l’esenzione dal divieto di intese restrittive della concorrenza (ai sensi del par. 1), al ricorrere di alcune condizioni (par. 3), formalizza l’attività di bilanciamento dei diversi effetti che poi definiscono il perimetro di liceità di un accordo tra imprese. Certamente, anche l’applicazione delle norme sulle concentrazioni e, in misura minore, quelle in materia di condotte unilaterali può intersecarsi con obiettivi legati alla sostenibilità ambientale. Tuttavia, nel solco del più acceso dibattito europeo e internazionale, la presente analisi avrà come oggetto la sola disciplina in materia di intese ex art. 101 TFUE, sebbene molte delle considerazioni qui svolte, specialmente quelle relative al rapporto tra obiettivi e le origini dei possibili conflitti, valgano egualmente anche per gli altri ambiti di intervento antitrust.
La convinzione di fondo è che il tema della sostenibilità ambientale, per quanto di indubbia urgenza e centralità nelle politiche europee, debba essere esaminato con estrema cautela, specialmente se utilizzato come grimaldello per l’allentamento di regole e divieti a tutela di altri valori giuridicamente tutelati. Occorre infatti tener conto dell’intento spesso più strategico che altruistico di molte iniziative private portate avanti in nome della sostenibilità, le quali non necessariamente conducono ad un miglioramento del benessere collettivo, in quanto espressione di un capitalismo green non privo di contraddizioni. Questo scetticismo, tuttavia, non preclude un approfondimento delle prospettive di integrazione tra obiettivi antitrust e ambientali, ma tutt’al più richiede l’accantonamento di quel cieco entusiasmo che rischia di inquinare la ricerca dei meccanismi che assicurino un’effettiva promozione del benessere sociale.
Prima di addentrarci nell’analisi dei possibili profili di criticità di un’integrazione tra diritto della concorrenza e tutela dell’ambiente, una premessa appare necessaria. L’ordinaria attività di enforcement delle norme antitrust non si pone necessariamente in contrasto con gli obiettivi di sostenibilità ambientale ma spesso contribuisce al loro perseguimento. Un esempio in tal senso è fornito dalla decisione della Commissione nel caso Consumer Detergents [21], con la quale essa ha imposto una ingente sanzione nei confronti di alcuni produttori di detergenti. In quella circostanza, infatti, nell’ambito di un’iniziativa promossa da un’associazione di categoria per migliorare la performance ambientale di alcuni detergenti tramite una riduzione dei loro imballaggi, alcune imprese hanno dato vita ad un cartello per mantenere invariati i prezzi dei prodotti, nonostante i risparmi di costi derivanti da un più efficiente utilizzo dei materiali per il confezionamento. Ancora, più di recente, la Commissione ha avviato un procedimento nei confronti di BMW, Daimler e Volkswagen, accusate di aver partecipato ad un’intesa finalizzata a ritardare l’adozione di tecnologie per l’abbattimento delle sostanze inquinanti prodotte dalle automobili [22]. Accordi di questo tipo, così come in generale le pratiche di green-washing [23], oltre a danneggiare la concorrenza nel mercato a svantaggio dei consumatori, producono effetti indesiderati anche sul piano ambientale, ritardando la transizione verso prodotti più sostenibili o rendendola meno conveniente. Pertanto, in tutti quei casi in cui la sostenibilità ambientale viene utilizzata come espediente o alibi per comportamenti in alcun modo vantaggiosi per la collettività, non sussiste alcun conflitto tra tutela della concorrenza e sostenibilità ambientale, in quanto la promozione della prima produce effetti positivi indiretti anche sulla seconda.
Ciò detto, l’aspetto su cui invece occorre soffermarsi riguarda il caso in cui le imprese diano vita ad accordi potenzialmente restrittivi della concorrenza al fine di migliorare la loro performance ambientale, e quindi contribuire al perseguimento di obiettivi di pubblico interesse, quali lo sviluppo sostenibile e la lotta ai cambiamenti climatici. Come già accennato, sebbene l’interesse del mondo dell’impresa nei confronti della sostenibilità abbia delle motivazioni spesso strategiche e non necessariamente altruistiche, il contributo privato è ritenuto da molti policy-makers un tassello cruciale per una celere ed effettiva transizione ecologica [24]. Tuttavia, secondo alcuni commentatori [25], lo sviluppo di iniziative sostenibili “autonome” da parte delle imprese sarebbe ostacolato da fattori intrinsechi alle dinamiche del libero mercato, come ad esempio il c.d. first mover disadvantage (incertezza sulle condizioni della domanda, alti costi di ricerca e sviluppo ecc.), che ne scoraggiano l’adozione. Pertanto, forme di collaborazione tra imprese potrebbero essere necessarie per accelerare la transizione verso modelli di sviluppo più sostenibile.
Gli accordi tra imprese soggiacciono però all’applicazione della normativa antitrust che, per quel che riguarda il diritto europeo, vieta all’art. 101 TFUE qualsiasi accordo tra imprese, decisione di associazioni di imprese e pratiche concordate in grado di impedire, limitare o falsare la concorrenza [26]. In altri termini, il problema si pone per quegli accordi tra imprese, anche nell’ambito di associazioni di categoria, motivati dalla volontà di migliorare la loro performance ambientale, i quali, però, rischiano di incidere negativamente sul livello di concorrenza nel mercato, riducendo il margine di incertezza sul comportamento degli operatori in esso presenti, provocando un aumento dei prezzi, una limitazione della produzione, una riduzione della varietà dei prodotti ecc. La questione è dunque se le “intese sostenibili”, alla luce dei possibili benefici ambientali da essi generati, rientrino nell’ambito di applicazione di tale divieto, e se ci siano margini per l’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 101 par. 3 [27].
A tal proposito, occorre sottolineare che l’avvio di collaborazioni tra imprese motivate da interessi legati alla tutela dell’ambiente non è un fenomeno di nuova concezione. Da molto tempo il miglioramento della performance ambientale costituisce un valore legittimamente perseguito da molte imprese, anche perché spesso produce benefici di natura non solo reputazionale, ma anche economica, nel caso in cui coincida con un incremento dell’efficienza nella produzione o della qualità dei prodotti/servizi [28]. Di conseguenza, sin dai primi anni di attività, la Commissione europea ha avuto modo di analizzare i profili concorrenziali di accordi di questo genere per verificarne la compatibilità con il diritto europeo.
Soprattutto in una prima fase, la Commissione ha spesso valutato positivamente i benefici ambientali prodotti dagli accordi tra imprese, ritenendoli in alcuni casi determinanti per la concessione di un’esenzione ai sensi dell’art. 101, par. 3, TFUE [29]. In una decisione del 1983 (Carbon gas Tecnologie), nel valutare l’applicabilità del divieto di intese restrittive ad un accordo finalizzato alla costituzione di un’impresa comune nel campo della gasificazione del carbone, e in particolare la possibilità di concedere un’esenzione individuale, la Commissione ha dato rilievo ai benefici generati dall’accordo sullo sviluppo di fonti energetiche alternative all’interno della Comunità, e in particolare ai vantaggi derivanti da «una utilizzazione del carbone con un migliore rendimento energetico e un minore inquinamento» [30]. Ancora, in Exxon/Shel la maggiore efficienza nell’utilizzo delle materie prime, una riduzione dell’utilizzo della plastica e la riduzione dei rischi ambientali legati al trasporto di materiali pericolosi, sono stati considerati quali significativi benefici per i consumatori ai sensi dell’art. 101 par. 3 [31]. Un’esenzione individuale è stata concessa nel 1994 anche in riferimento all’accordo Philips/Osram: in questo caso la Commissione ha incluso tra i vantaggi a favore dei consumatori i benefici derivanti dalla diminuzione dell’inquinamento atmosferico e quindi delle esternalità negative derivanti dall’impiego di impianti più puliti [32].
Gli esempi da fare potrebbero essere diversi [33], ma la decisione forse più nota e più citata in tema di intese sostenibili è quella relativa ad un accordo siglato dai membri di un’associazione di costruttori di elettrodomestici di diritto belga (CECED) [34]. L’obiettivo di questo accordo era, tra le altre cose, quello di promuovere il progresso tecnologico e l’educazione del consumatore ad un uso ecologico delle lavatrici tramite una serie di iniziative: i) la cessazione della produzione e importazione nella Comunità di lavatrici appartenenti alle classi energetiche meno efficienti, ii) l’impegno a raggiungere una certa efficienza energetica media entro una data stabilita e iii) il miglioramento del livello di informazioni fornite ai consumatori sull’utilizzo ecologico delle lavatrici. La Commissione europea ha ritenuto che l’accordo violasse il divieto di intese restrittive di cui all’art. 101, par. 1, in quanto, tra le altre cose, esso avrebbe prodotto una limitazione della varietà di modelli di lavatrici disponibili sul mercato, in particolare quelli più economici. Tuttavia, l’aspetto più interessante di questa decisione riguarda l’interpretazione delle condizioni di esenzione sancite dal par. 3 dello stesso articolo, la quale rappresenta ancora oggi un ottimo esempio di integrazione di considerazioni ambientali nell’analisi antitrust. Nello specifico, nel verificare l’esistenza di un contributo al progresso tecnico o economico la Commissione si è soffermata sull’impatto della riduzione del consumo di energia elettrica sui livelli di inquinamento, affermando che «lavatrici che consumano meno energia elettrica sono obiettivamente più efficienti sotto il profilo tecnico» [35]. Inoltre, per quantificare e bilanciare i vantaggi generati dall’accordo, la Commissione ha distinto i benefici economici individuali (risparmio nella spesa di energia elettrica) da quelli ambientali collettivi (riduzione dell’inquinamento), calcolando questi ultimi grazie ad un impiego innovativo di strumenti dell’economia ambientale. L’esenzione venne dunque accordata in quanto, secondo la Commissione, la riduzione dei costi dell’inquinamento avrebbe prodotto un vantaggio per tutti i consumatori di gran lunga superiore ai costi subiti dagli acquirenti individuali delle lavatrici.
Come anticipato, il caso CECED rappresenta un precedente chiave in materia di intese sostenibili e un ottimo esempio di come considerazioni ambientali possano essere integrate nell’analisi antitrust senza rinunciare alla razionalità del metodo economico [36]. Tuttavia, da allora, molto è cambiato nella prassi della Commissione europea e nei meccanismi di enforcement delle norme antitrust. In un sistema di enforcement decentralizzato, quale quello istituito dal regolamento n. 1/2003, in cui è venuto meno l’obbligo di notifica degli accordi ex art. 101 par. 3, l’interpretazione della norma spetta oramai in via quasi esclusiva alle autorità antitrust nazionali. Infatti, a seguito del processo di modernizzazione [37], la Commissione ha rivisto le sue priorità concentrando attenzione e risorse sulle violazioni più gravi dell’art. 101 e dunque, da allora, sono state poche le occasioni in cui essa ha discusso dell’applicazione delle condizioni di esenzione [38]. Accanto alle riforme di carattere istituzionale e organizzativo, anche la sostanza delle norme ha subìto una profonda revisione. Senza entrare nel dettaglio, l’adozione di un approccio strettamente economico per l’analisi delle regole antitrust messa in atto a partire dagli anni 2000 ha ridotto in modo sostanziale i margini di flessibilità concessi alle autorità antitrust nel valutare le tipologie di benefici suscettibili di considerazione ai sensi dell’art. 101 TFUE. Questa evoluzione emerge in modo nitido dai documenti di soft law prodotti dalla Commissione nel corso del tempo, in particolare dalle linee guida sull’interpretazione dell’art. 81(3) e quelle relative agli accordi di cooperazione orizzontale [39].
Per le stesse ragioni, però, il dibattito sui limiti e obiettivi delle norme in materia di intese non è del tutto scomparso ma è riemerso a livello nazionale, anche perché alimentato dalle iniziative intraprese da alcune autorità nazionali. Ad esempio, nel caso specifico delle inteste sostenibili, un vivo dibattito è scaturito da alcune decisioni dell’autorità antitrust olandese (ACM), anche a seguito del notevole risalto mediatico da esse ricevuto. Si fa riferimento alle decisioni denominate Chicken of Tomorrow [40] e Energy Deal [41], con le quali l’autorità olandese ha applicato il divieto di intese restrittive nonostante il riconoscimento di significativi benefici legati alla sostenibilità. L’autorità ha vietato gli accordi in questione non perché vantaggi di questo tipo siano stati ritenuti estranei dell’ambito di applicazione dell’esenzione, ma perché, all’esito di una complessa attività di bilanciamento basata sull’utilizzo di metodi e concetti dell’economia ambientale, i costi apparivano maggiori dei benefici. A seguito di queste decisioni, l’Autorità olandese ha anche avviato una consultazione con i principali stakeholders conclusasi con la pubblicazione nel 2020 di un documento (Guidelines on Sustainable Agreements) [42] che ha alimentato, se non innescato, l’attuale discussione a livello europeo.
Con queste premesse, prima di soffermarci sulle possibili ragioni a sostegno di una revisione dell’attuale interpretazione delle norme antitrust e sulle sue forme, il primo interrogativo da affrontare riguarda la rilevanza degli obiettivi ambientali nel diritto dei trattati e quindi il rapporto con altri beni giuridicamente tutelati, quale il mantenimento di una concorrenza non falsata. In altre parole, occorre domandarsi se esista una gerarchia tra sostenibilità ambientale e tutela della concorrenza nell’ambito del complesso intreccio di obiettivi dell’Unione e, in ogni caso, se il testo dei trattati fornisca gli strumenti per la risoluzione degli eventuali conflitti tra le medesime. Questo passaggio appare infatti indispensabile per comprendere se una interpretazione delle norme antitrust che tenga conto degli obiettivi ambientali sia compatibile o meno con il diritto europeo.
Un argomento spesso sollevato dai commentatori più diffidenti è quello secondo cui tale operazione spianerebbe la strada al definitivo accoglimento di una concezione “politica” del diritto antitrust, basata sul contemperamento di interessi non solo economici, ma anche politici e sociali [43]. Il dibattito sulla necessità di abbandonare l’approccio puramente economico è assai risalente [44], e si potrebbe quindi sostenere che le proposte a favore di un diritto della concorrenza più attento nei confronti delle tematiche ambientali non siano altro che una espressione di quel pensiero. Una diversa chiave di lettura potrebbe invece attribuire alla sostenibilità ambientale uno status privilegiato nella gerarchia degli obiettivi dell’Unione, il quale giustificherebbe un trattamento differenziato e una maggiore considerazione rispetto ad altri pubblici interessi. Ebbene, tralasciando per un momento le conseguenze applicative dell’accoglimento di tale argomento, questo sembra trovare conferme nel dato normativo fornito dai trattati e appare ulteriormente rafforzato da un’analisi della situazione contingente. In altre parole, diversi sono gli argomenti normativi a sostegno di una integrazione rafforzata degli obiettivi ambientali nelle politiche europee, compresa quella della concorrenza [45].
Innanzitutto, a partire dal Trattato di Amsterdam il perseguimento di uno sviluppo sostenibile [46] basato sui tre pilastri di natura economica, sociale e ambientale è stato inserito tra gli obiettivi fondamentali dell’Unione europea [47]. L’articolo 3 par. 3 del Trattato UE infatti stabilisce che oltre all’istaurazione di un mercato unico, l’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa basato, tra le altre cose, su «un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente». Allo stesso modo, con riferimento alla sua azione esterna gli artt. 3, par. 5 e 21, lett. f), TUE individuano tra i valori promossi dall’Unione lo sviluppo sostenibile della Terra, con particolare riguardo ai paesi in via di sviluppo, anche favorendo la cooperazione internazionale per l’adozione di misure volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali.
L’art. 3 TUE quindi assegna eguale importanza ad una serie di obiettivi non sempre compatibili tra loro, quali la stabilità dei prezzi, la piena occupazione, l’alto livello di protezione ambientale, senza però fornire chiare indicazioni su come superare eventuali conflitti. L’assenza di una espressa gerarchia tra questi valori ha quindi consentito alle istituzioni europee di adottare un’interpretazione flessibile delle norme orientata a seconda delle mutevoli esigenze del progetto europeo [48]. Non vi è dubbio infatti che nella fase costitutiva la realizzazione di un mercato unico e l’abolizione delle barriere tra Stati membri abbiano avuto un ruolo preminente nelle politiche dell’Unione, anche a scapito di altri valori, comprese la concorrenza e la tutela dell’ambiente.
In ogni caso, il Trattato UE non si limita a nominare lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente tra i generali obiettivi dell’Unione, ma prevede espressamente che essi siano integrati in tutte le politiche europee. La norma di riferimento è l’art. 11 TFUE (ex art. 6 CE) [49], il quale impone l’integrazione delle esigenze connesse con la tutela dell’ambiente nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile. Il principio di integrazione, riaffermato anche dalla Carta dei diritti fondamentali all’art. 37, è stato inserito dalla giurisprudenza europea tra i principi generali del diritto europeo, cosi come i principi sui quali si basa la politica ambientale europea, definiti all’art. 191 TFUE [50]. Certamente, quella citata non è l’unica clausola trasversale presente nel diritto dei trattati, ma essa conferma l’esistenza di uno specifico obbligo di integrazione degli obiettivi ambientali e suoi principi anche nell’attuazione delle politiche europee che si aggiunge al principio generale di coerenza delle politiche e azioni dell’UE stabilito dall’art. 7 TFUE. In sintesi, questa esegesi suggerisce che sul piano normativo l’integrazione degli obiettivi ambientali nell’attuazione della politica europea della concorrenza sarebbe non solo legittima, ma demandata dal testo dei trattati e in particolare dall’art. 11 TFUE.
Al contempo, se gli obiettivi e i principi legati allo sviluppo sostenibile hanno acquisito un riconoscimento formale nel diritto europeo solo in tempi recenti, si deve osservare che la tutela della concorrenza ha seguito un andamento per alcuni aspetti inverso. Come noto, con il Trattato di Lisbona il legislatore europeo ha effettuato una scelta politica ben precisa, ossia quella di rimuovere ogni riferimento alla concorrenza dal testo dell’art. 3 Trattato UE [51]. Dunque, il principio secondo cui il mercato interno è basato su una concorrenza non falsata non fa più parte degli obiettivi fondamentali dell’Unione, ma è affermato in una disposizione del Protocollo 27 annesso ai trattati che, pur essendo parte integrante degli stessi, ha certamente una diversa rilevanza. Questa nuova collocazione delle norme ha rafforzato l’idea di una politica della concorrenza definita e attuata in maniera strumentale rispetto ai valori fondamentali dell’azione europea, il cui perseguimento giustificherebbe dunque un intervento correttivo sul mercato e sulle dinamiche concorrenziali [52]. In realtà, come già accennato, anche prima della revisione di Lisbona la politica europea di concorrenza è stata caratterizzata da una certa resilienza rispetto alle priorità dell’Unione.
In sintesi, se per molto tempo l’esigenza di favorire l’integrazione tra Stati Membri ha influito sull’interpretazione e applicazione delle norme antitrust, oggi un ruolo simile potrebbe spettare alle nuove priorità dell’Unione, tra le quali indubbiamente troviamo la tutela ambientale e la lotta ai cambiamenti climatici. Questa interpretazione trova il suo fondamento normativo nella natura strumentale della politica della concorrenza rispetto agli obiettivi fondamentali dell’Unione, ai quali appartengono lo sviluppo sostenibile e la tutela ambientale, e ancora, nel principio di integrazione sancito agli artt. 11 TFUE e 37 della Carta.
Se sul piano dei principi generali del diritto europeo non sembra sussistere alcun insormontabile conflitto tra concorrenza e sostenibilità, i principali ostacoli per una effettiva integrazione degli obiettivi ambientali riguardano il momento applicativo, ossia le modalità tramite le quali rinnovare l’interpretazione delle norme antitrust senza comprometterne la razionalità e integrità. Questo perché le possibili tensioni tra le due discipline emergono in una dimensione più profonda, per alcuni versi ideologica, che interessa le assunzioni implicite su cui esse rispettivamente si fondano.
Al di là dei meccanismi impiegati per la sua tutela, la concorrenza tra imprese è solitamente concepita quale elemento indispensabile per il buon funzionamento del mercato. L’assunzione di fondo è che un mercato correttamente funzionante, dove la logica competitiva non viene alterata da comportamenti distorsivi, garantisce un incremento della produzione di beni e servizi a prezzi più bassi, nell’ottica di una maggiore efficienza allocativa, produttiva e dinamica [53]. La naturale fallibilità del mercato nel garantire la tutela del benessere collettivo richiede però degli interventi correttivi di vario genere da parte dell’autorità pubblica [54], ed è preciso compito delle autorità antitrust intervenire per correggere le inefficienze causate dall’esistenza di potere di mercato.
Tuttavia, il mantenimento di mercati competitivi può, e anzi spesso convive con un non adeguato livello di protezione ambientale. Il potere di mercato infatti non è l’unico tipo di fallimento che il mercato conosce, essendo diverse le circostanze in cui, in assenza di correttivi, lo stesso produce risultati avversi per la collettività [55]. Rispetto alla tutela dell’ambiente, i fallimenti del mercato sono particolarmente evidenti, e si manifestano in vario modo. Comunemente, si parla di esternalità (negative) ambientali con riferimento ai costi indiretti delle attività economiche, quali ad esempio le emissioni di gas serra di natura antropica, definite da N. Stern «il più grande fallimento del libero mercato» [56]. In questo caso, così come nelle altre forme di inquinamento, la produzione o il consumo di determinati beni e/o servizi producono un effetto indesiderato sul benessere sociale, il quale non si riflette adeguatamente nella struttura del prezzo, determinando una inefficiente allocazione delle risorse. In altri termini, in presenza di esternalità negative, il costo privato di produzione un bene non riflette il suo costo sociale e, di conseguenza, il mercato condurrà ad una produzione di quel bene in quantità superiore a quella socialmente ottimale. Altra manifestazione della fallibilità del mercato è la tendenza al sovra-sfruttamento delle risorse ambientali, spesso causato dalla loro natura di beni comuni come nel caso dell’acqua, dell’aria o le foreste, e quindi della cosiddetta tragedy of the commons, ossia la difficoltà di una gestione collettiva delle risorse comuni che ne prevenga un loro spreco o eccessivo sfruttamento [57]. Si pensi ancora ai problemi di asimmetria informativa circa le caratteristiche dei prodotti offerti sul mercato, i quali impediscono l’adozione di scelte consapevoli da parte degli individui, o ancora i bias comportamentali legati alla natura intertemporale dei costi/benefici delle loro scelte (i.e. il cosiddetto hyperbolic discounting) [58].
La teoria dei fallimenti del mercato è quindi alla base della regolazione economica e delle stesse politiche ambientali. Accanto agli interventi regolatori tradizionali anche definiti command and control, tramite i quali lo stato proibisce o prescrive determinati comportamenti a tutela dell’interesse pubblico, sono stati sperimentati nel tempo anche strumenti alternativi, a partire dalle imposte pigouviane volte a internalizzare i costi ambientali delle attività economiche [59], o ancora, gli strumenti market-based, come i sistemi di scambio di quote di emissioni [60]. Gli strumenti di mercato, finalizzati ad influenzare la struttura degli incentivi degli operatori economici, sono stati promossi anche per far fronte ai crescenti timori nei confronti dei State failures e quindi della regolazione, ma più in generale rappresentano un’espressione della svolta neoliberale che ha interessato la regolazione economica in Europa a partire dagli anni ’80.
Pertanto, tornando al conflitto teorico tra concorrenza e tutela ambientale, ciò che emerge è che, secondo l’approccio prevalente, la tutela della concorrenza tra imprese deve essere garantita a prescindere dai risultati che il mercato produce, ma anzi nella consapevolezza dai suoi limiti. In altre parole, l’unica preoccupazione delle autorità predisposte a tale funzione è quella di attenuare gli effetti del potere di mercato e vigilare sui comportamenti degli agenti economici affinché essi non riducano artificialmente la concorrenza nel mercato, perché questa condizione, mantenute costanti tutte le altre, garantisce una massimizzazione dell’efficienza a beneficio dei consumatori [61]. In questa prospettiva, poco importa se nel mercato siano presenti altri tipi di fallimenti che possano ridurre il benessere sociale, ad esempio a causa di livelli smisurati di inquinamento atmosferico, e che un comportamento anticoncorrenziale possa correggere, almeno in parte, queste distorsioni. L’idea di fondo è che la correzione dei fallimenti del mercato diversi dal potere di mercato spetti al regolatore o all’intervento di altre autorità pubbliche, in virtù di una frammentazione delle competenze [62].
Secondariamente, un’altra potenziale fonte di conflitto riguarda l’adozione da parte della autorità antitrust di concetti e strumenti della scienza economica, e nello specifico dell’economia industriale, per l’interpretazione delle norme. Come noto, il successo dell’economic approach in ambito antitrust si spiega non solo con le spinte ideologiche di carattere neo-liberale diffusesi in Europa negli anni 90, ma anche con motivazioni più pratiche, prima fra tutte l’esigenza di garantire semplicità e uniformità in un sistema di enforcement decentrato, come quello introdotto con il regolamento n. 1/2003. Allo stesso modo, l’approccio efficientistico ha contagiato anche la politica ambientale sempre più orientata dai modelli elaborati dall’economia ambientale per determinare l’impatto dei suoi interventi. Pertanto, ammesso che un’integrazione dei benefici/costi ambientali nell’analisi antitrust sia ritenuta effettivamente desiderabile per il benessere collettivo, ciò che rileva in questa fase è che alcuni degli strumenti dell’analisi economica adoperati dalle autorità antitrust per descrivere e valutare comportamenti di mercato, possono risultare inadeguati per spiegare fenomeni complessi, come quelli ambientali, aventi effetti trasversali (tra mercati) nonché intra-generazionali.
In particolare, sono due gli elementi che appaiono più problematici.
i) Utilizzo del benessere del consumatore come benchmark del buon-funzionamento del mercato.
Il diritto antitrust moderno, prodotto della rivoluzione di Chicago e delle sue evoluzioni, assume come presupposto dell’intervento correttivo pubblico le variazioni, in senso peggiorativo, del benessere del consumatore, misurato in termini di prezzi, quantità, varietà, qualità e innovazione [63]. Il diritto antitrust europeo, in particolare, ha sempre mostrato una certa diffidenza nei confronti del concetto più rigoroso (in termini di aderenza al pensiero neoclassico e all’economia del benessere) di benessere totale o total welfare. In poche parole, i chiari riferimenti alla tutela dei consumatori presenti nei trattati hanno indotto le istituzioni europee a preferire, quale obiettivo dell’azione antitrust, la massimizzazione del benessere del consumatore, anche qualora l’estrazione di surplus di consumer welfare sia accompagnato da un incremento di efficienza in termini paretiani.
La nozione di benessere del consumatore, tuttavia, è il frutto dell’influenza di alcuni postulati tipici del pensiero neoliberale, quali l’individualismo metodologico e la valutazione del benessere individuale in termini esclusivamente monetari. Paradigmi, questi, difficilmente conciliabili con un adeguato apprezzamento dei fenomeni ambientali, aventi solitamente una dimensione collettiva, inter-temporale e non (solo) monetaria [64]. La valutazione in termini economici del benessere riflette infatti una concezione monolitica dell’individuo inteso unicamente nella sua veste di agente economico interessato alla massimizzazione dei suoi interessi egoistici, in base all’assunto per cui lo spontaneo perseguimento dei bisogni individuali conduca al soddisfacimento dell’interesse collettivo [65]. L’utilizzo normativo di questi concetti ha certamente favorito una semplificazione dei processi interpretativi, ma porta con sé le diverse falle di quella impostazione, noncurante ad esempio dei conflitti intersoggettivi [66] ma anche intra-soggettivi che nascono dalla coesistenza nell’individuo di diverse preferenze a seconda che egli agisca in qualità di cittadino, lavoratore, elettore, ecc. [67].
Come ben noto, a partire dagli anni 2000, l’analisi economica e i suoi postulati hanno trovato definitiva accoglienza nella politica europea di concorrenza, in particolare nell’interpretazione delle norme in materia di intese restrittive. L’obiettivo fondamentale dell’intervento antitrust è stato in più circostanze individuato nella tutela del benessere del consumatore e nell’efficienza allocativa, così limitando la possibilità di estendere l’analisi antitrust ad interessi non strettamente legati all’efficienza economica. L’interpretazione fornita dalla Commissione delle condizioni di esenzione di cui all’art. 101, par. 3, TFUE è in questo senso indicativa. Secondo quanto previsto dalle Linee Guida sull’interpretazione dell’art. 101 par. 3 [68], l’attività di bilanciamento necessaria per accordare un’esenzione dall’applicazione del divieto comprende, quali unici benefici suscettibili di considerazione, gli incrementi di efficienza economica legati alla riduzione dei costi o all’aumento della qualità dei prodotti e/o servizi offerti. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, da allora, le quattro condizioni cumulative previste dall’art. 101, par. 3 sono state interpretate in senso restrittivo, per non lasciare spazio a interessi e obiettivi non strettamente economici [69]. In sintesi, la centralità della nozione di consumer welfare nel diritto antitrust ha condotto non solo ad una maggiore attenzione sugli effetti prodotti dai comportamenti delle imprese rispetto alla loro forma, ma anche ad una limitazione delle tipologie di vantaggi da includere nell’attività di bilanciamento degli effetti di qualsiasi condotta, necessariamente connessi ad un solo aspetto del benessere dell’individuo, quello economico.
ii) La rigidità dei modelli utilizzati per il calcolo dei benefici: l’equilibrio parziale
Accanto alla limitazione della natura dei vantaggi, un altro possibile ostacolo all’effettiva integrazione dei benefici ambientali riguarda l’interpretazione restrittiva di concetti chiave come quelli di “consumatore” e “mercato rilevante”. Sempre con riferimento alla disciplina sulle intese restrittive della concorrenza e al meccanismo di bilanciamento di cui all’art. 101, par. 3, TFUE, secondo l’opinione prevalente, gli unici benefici suscettibili di valutazione sono quelli generati all’interno dello stesso mercato rilevante in cui è avvenuta la restrizione della concorrenza [70]. In altre parole, gli effetti negativi per i consumatori di un mercato geografico o del prodotto non possono essere compensati dagli effetti positivi prodotti su un altro mercato. Un’interpretazione ugualmente restrittiva è prevalsa anche con riferimento alla seconda condizione prevista dal dell’art. 101, par. 3, TFUE, la quale richiede che i consumatori ricevano una congrua parte dei benefici generati dall’accordo. La nozione di consumatori fornita dalla Commissione europea infatti comprende esclusivamente i clienti delle parti dell’accordo e i loro successivi acquirenti, i quali devono essere compensati degli effetti negativi subiti a causa dell’accordo restrittivo. Anche in questo caso, tale impostazione riflette un approccio molto comune nella teoria economica ossia quello dell’equilibrio economico parziale [71]. In altri termini, a causa della difficoltà di descrivere le condizioni di tutti i mercati di un sistema economico, la teoria economica spesso si avvale di a un approccio parziale basato sullo studio delle condizioni di equilibrio di un singolo mercato. Un metodo che, come emerge dall’analisi che precede, ispira anche l’interpretazione delle norme antitrust.
Per meglio comprendere le implicazioni di questo metodo, si consideri il caso di un accordo tra imprese attive nel settore elettrico avente ad oggetto la chiusura di alcuni impianti obsoleti e altamente inquinanti con il fine ultimo di ridurre le emissioni di gas serra generate dalla produzione di energia elettrica [72]. In questo caso, un simile accordo sarebbe senz’altro problematico dal punto di vista antitrust in quanto avrebbe come probabile esito una limitazione della produzione di energia e un maggior costo dell’elettricità con conseguente aumento dei prezzi per i consumatori. Accanto agli effetti positivi in termini di innovazione connessi allo sviluppo di nuovi impianti più efficienti, l’accordo produrrebbe anche benefici legati alla riduzione dell’inquinamento. In un simile scenario, tuttavia, l’adozione di un’interpretazione restrittiva delle condizioni di esenzione di cui all’art. 101, par. 3 imporrebbe la valutazione dei soli benefici (economici) generati a favore degli utilizzatori di energia elettrica, di fatto ignorando i vantaggi derivanti da una riduzione delle emissioni di cui beneficerebbe l’intera collettività, nonché le generazioni future. Di conseguenza, un accordo di questo tipo difficilmente supererebbe il vaglio delle autorità antitrust, in quanto i soli vantaggi economici a favore degli utilizzatori risulterebbero plausibilmente insufficienti a compensare l’aumento dei prezzi.
Per queste ragioni, anche qualora estendessimo le categorie di vantaggi utili ai fini della concessione di una esenzione, un’interpretazione restrittiva del mercato in cui ricercare tali vantaggi e dei possibili beneficiari impedirebbe in ogni caso un’adeguata valutazione dei benefici ambientali, dei quali solitamente giovano intere comunità anche nel corso di diverse generazioni [73].
Alla luce delle considerazioni ora svolte, occorre soffermarsi in chiave propositiva sui possibili meccanismi di integrazione adoperabili dalle autorità antitrust, in particolare nell’ambito della disciplina in materia di intese restrittive della concorrenza [74].
Innanzitutto, abbiamo visto come gli interventi ordinari a tutela della concorrenza in alcuni casi possano contribuire al perseguimento degli obiettivi ambientali. Ciò accade, ad esempio, quando le imprese utilizzano motivazioni legate alla tutela dell’ambiente come alibi o a copertura di accordi restrittivi, nell’ambito del più ampio fenomeno del green-washing o, ancora, quando l’oggetto o effetto di un’intesa è quello di ritardare o ostacolare la transizione ecologica. Per questa ragione, un primo possibile contributo da parte delle autorità antitrust potrebbe consistere in una revisione delle priorità di intervento, e quindi in una maggiore concentrazione di attenzione e risorse su quelle condotte dannose per il benessere sociale sia sul piano concorrenziale sia su quello ambientale. Secondariamente, come emerso dalle recenti consultazioni avviate dalla Commissione, una maggiore chiarezza sul trattamento riservato alle intese sostenibili è senz’altro auspicabile. A tal riguardo, il procedimento di revisione delle Linee direttrici sugli accordi di cooperazione orizzontale costituisce un’opportunità per intervenire in tal senso e, eventualmente, reintrodurre il titolo sugli accordi ambientali rimosso dall’ultima versione del documento. Ancora, in assenza di indicazioni di carattere generale, anche lo strumento delle comfort letters, utilizzato durante la prima fase della pandemia per superare situazioni di incertezza legate al regime introdotto con il Temporary Framework [75], potrebbe rivelarsi utile per aprire un confronto con le imprese sulle possibili ricadute concorrenziali delle iniziative sostenibili da loro messe in atto.
L’aspetto più complesso riguarda invece la possibile revisione del modo in cui le norme sono attualmente interpretate e applicate per poter dare attuazione all’obbligo di integrazione di cui all’art. 11 TFUE. A tal riguardo, due sono le strade generalmente invocate nel dibattito in materia [76]: la prima ipotesi, che chiameremo di “integrazione positiva” implica una modifica, in senso ampliativo, dell’ambito di applicazione delle normativa antitrust, ossia l’inclusione dei danni ambientali tra le giustificazioni di un intervento repressivo delle autorità antitrust [77]; in alternativa, si prospetta una “integrazione negativa” fondata sulla non-applicazione dei divieti antitrust o su una esenzione per quei comportamenti che generano benefici ambientali ritenuti sufficientemente significativi.
Per quel che riguarda l’integrazione positiva degli obiettivi ambientali nell’analisi antitrust [78], diversi sembrano essere i profili di criticità. Si pone innanzitutto una questione di legittimità dell’intervento correttivo, alla luce della natura e delle competenze proprie delle autorità antitrust, le quali sembrerebbero prive di quella legittimazione democratica necessaria per effettuare scelte di valore così incisive, come quella di limitare libertà di impresa in nome dell’ambiente [79]. In quest’ottica, appare condivisibile l’opinione di chi sostiene che questo tipo di bilanciamento possa essere effettuato solamente dal regolatore, con tutti gli strumenti anche innovativi di cui dispone [80]. Secondariamente, un’estensione dell’ambito di applicazione delle norme antitrust tale da poter ricomprendere eventuali ripercussioni in materia ambientale risulterebbe difficilmente conciliabile con la funzione ad esse affidata dai trattati, ossia quella di tutelare la concorrenza nel mercato che, seppur strumentale al raggiungimento di obiettivi superiori, rimane la giustificazione imprescindibile di qualsiasi intervento repressivo.
Di converso, le considerazioni ora esposte non appaiono altrettanto ostative se riferite ad una integrazione negativa, e dunque ad una applicazione più flessibile delle norme antitrust per evitare che esse possano rappresentare un ostacolo allo sviluppo di iniziative che, seppur problematiche sotto il profilo concorrenziale, possono produrre effetti positivi per il benessere collettivo. A differenza della precedente ipotesi, un’integrazione di questo tipo implicherebbe un passo indietro delle autorità antitrust di fronte a benefici ambientali ritenuti sufficientemente meritevoli, e non un intervento più intrusivo nelle dinamiche di mercato, potenzialmente lesivo di altre situazioni giuridicamente tutelate. In aggiunta, un’interpretazione flessibile del divieto di intese restrittive non sarebbe del tutto estranea alla prassi delle autorità europee. Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, in un passato non troppo lontano considerazioni di carattere ambientale hanno spesso influito sull’applicazione dell’art. 101.
A tal proposito, le soluzioni prospettabili sembrano essere due e corrispondono alle modalità tramite le quali storicamente obiettivi diversi da quelli legati all’efficienza economica hanno fatto ingresso nell’analisi condotta ai sensi dell’art. 101 TFUE [81]. Abbiamo già discusso delle condizioni per concedere un’esenzione individuale o collettiva ai sensi dell’art. 101 par. 3, e degli ostacoli posti dall’interpretazione della norma oggi dominante [82]. Quella dell’esenzione dal divieto rappresenta infatti la via più immediata per integrare eventuali benefici ambientali, in linea con la struttura dell’art. 101, la quale ammette che una restrizione della concorrenza possa essere compensata da benefici di altro genere. A tal riguardo, quindi, un’interpretazione estensiva delle quattro condizioni e, in particolare, di ciò che costituisce un «miglioramento della produzione o distribuzione dei prodotti» e un «progresso tecnico ed economico», nonché del perimetro dei soggetti che possono beneficiare dei vantaggi prodotti dall’accordo, appare indispensabile per un’effettiva integrazione dei benefici ambientali.
In ogni caso, occorre inoltre sottolineare che l’integrazione dell’analisi dei costi/benefici di un accordo con valutazioni legate all’impatto ambientale da esso prodotto non presuppone necessariamente un rifiuto del metodo economico, ma semmai una maggiore sofisticazione dello stesso al fine di comprendere concetti e strumenti ben noti nel campo dell’economia ambientale. L’analisi svolta dalla Commissione nel caso CECED sopra descritto, cosi come quella suggerita dai documenti prodotti da alcune autorità nazionali [83], forniscono esempi diversi di come l’analisi economica può supportare l’integrazione di considerazioni ambientali nell’analisi ex art. 101 par. 3. L’autorità olandese, ad esempio, suggerisce di esprimere i benefici di un accordo, nei casi in cui una loro quantificazione sia necessaria [84], in termini monetari, utilizzando per i benefici di carattere ambientali i cd. shadow prices [85], ossia il costo sociale del danno ambientale prodotto o evitato, da bilanciare con un eventuale incremento dei prezzi. Inoltre, nel caso in cui i benefici ambientali contribuiscano al perseguimento di un obiettivo di policy determinato a livello nazionale o internazionale, l’Autorità olandese ritiene opportuno considerare non solo i benefici a favore del gruppo di utilizzatori interessati dall’accordo, ma anche quelli di cui giova l’intera società. Una compensazione parziale dei costi subiti dai primi troverebbe giustificazione nel fatto che proprio tramite le loro scelte di acquisto essi sarebbero responsabili del problema ambientale. Pertanto, la scelta di utilizzare parametri oggettivi per la quantificazione e il bilanciamento degli effetti di un accordo, nonché l’individuazione delle circostanze in cui estendere il perimetro soggettivo e temporale dei benefici, appare condivisibile. Tuttavia, proprio perché diversi sono gli strumenti offerti dalla scienza economia, la decisione di perseguire questo meccanismo di integrazione impone l’adozione di linee guida chiare per le imprese, nonché da un rafforzamento della collaborazione tra autorità antitrust e quelle aventi specifiche competenze ambientali. Il loro ausilio appare infatti indispensabile per individuare le iniziative effettivamente desiderabili per il benessere sociale e i parametri sui quali fondare l’analisi dei costi e dei benefici delle condotte oggetto di scrutinio.
Se la via dell’esenzione rappresenta quella probabilmente più semplice e immediata, un’alternativa è fornita dallo stesso art.101 par. 1, il quale definisce l’ambito di applicazione del divieto. In altre parole, in passato, la disposizione di cui al primo comma dell’art. 101 è stata interpretata dalle Corti europee in maniera flessibile per escludere dal suo ambito di applicazione quelle restrizioni ritenute necessarie o inevitabili per tutelare un pubblico interesse. In particolare, in Wouters [86] e Meca-Medina [87], la Corte di Giustizia ha affermato che non ogni accordo tra imprese o ogni decisione di un’associazione di imprese che restringa la libertà d’azione delle parti o di una di esse ricade necessariamente sotto il divieto sancito all’art. 101 par. 1, in quanto in alcuni casi l’effetto restrittivo è indispensabile per il raggiungimento di obiettivi meritevoli di tutela [88]. Nei casi ora citati la Corte ha infatti escluso dall’ambito di applicazione del divieto alcune restrizioni introdotte da un ordine professionale e da un’organizzazione sportiva, ritenendo che tali effetti restrittivi fossero necessari per il funzionamento di dette organizzazioni e quindi per il perseguimento di un legittimo interesse, nel rispetto del principio di proporzionalità. Ecco, un ragionamento simile potrebbe essere applicato per analogia alle intese ambientali, come sopra definite, qualora sia dimostrato che un determinato accordo contribuisca in maniera significativa al raggiungimento di obiettivi ambientali, e che l’effetto restrittivo sia indispensabile per tale scopo, per ad esempio nel caso in cui vincoli di natura economica, giuridica o tecnica impediscano il concreto sviluppo di soluzioni alternative e meno restrittive. Al contrario, un’esenzione in blocco di tutte le intese sostenibili che non preveda una valutazione della concreta rilevanza di ogni singolo accordo per il raggiungimento di un obiettivo ambientale (quindi la sua indispensabilità) e della proporzionalità degli effetti anti-concorrenziali rispetto ai benefici ambientali, non sembra essere un meccanismo adeguato per scongiurare il rischio di comportamenti opportunistici che, come abbiamo visto, sono doppiamente dannosi per la collettività.
La pressione che negli ultimi anni sta investendo in maniera trasversale autorità pubbliche e soggetti privati affinché si adoperino in maniera celere ed efficace per fronteggiare le sfide climatiche e ambientali del nostro tempo, è senza precedenti [89]. La sensazione è che la sola azione degli Stati, tramite tradizionali interventi top-down, non sia a tal fine sufficiente, e che il contributo attivo di tutti gli attori privati, compresi individui e imprese, sia indispensabile per la realizzazione in tempi rapidi della transizione ecologica della società e del sistema economico. Favorire il coinvolgimento di soggetti privati nelle politiche a tutela dell’ambiente significa riflettere sull’adeguatezza del quadro normativo esistente, per verificare l’esistenza di sufficienti incentivi e possibili ostacoli. Allo stesso tempo, nonostante la legittimità dell’intento, occorre porre un freno agli eccessivi entusiasmi nei confronti di un indiscriminato rilassamento delle regole, in quanto non tutte le iniziative delle imprese sono desiderabili per l’interesse collettivo e alto è il rischio che un’eccessiva flessibilità dia luogo alla diffusione di azioni cosmetiche, attività di green-washing o, ancor peggio, a fenomeni collusivi. È in questo contesto che si inserisce quindi l’attuale dibattito sui limiti posti dalla normativa antitrust ad iniziative private mosse da considerazioni di carattere ambientale e, in particolare, sugli ostacoli posti dal divieto di intese ex art. 101 TFUE alla realizzazione di collaborazioni tra imprese motivate dalla volontà di migliorare la sostenibilità ambientale delle loro attività.
Con questo lavoro si è tentato di porre l’attenzione sulle principali questioni interpretative legate all’integrazione di considerazioni ambientali in ambito antitrust, anche alla luce delle recenti iniziative della Commissione e di alcune autorità antitrust nazionali. Se da un lato non si rilevano significativi impedimenti di carattere normativo, anche alla luce del principio sancito dall’art. 11 TFUE, l’integrazione degli obiettivi ambientali nella politica antitrust europea incontra diversi ostacoli tanto sul piano ideologico quanto su quello applicativo. Alcune assunzioni sulle quali si fonda il diritto antitrust moderno, come ad esempio la neutralità del metodo economico, riflettono infatti una certa miopia nei confronti della complessità dei fenomeni sociali e ambientali e ne impediscono una piena comprensione. Come visto, le soluzioni prospettabili sono diverse, e non implicano necessariamente uno stravolgimento dell’attuale paradigma, né un rifiuto del metodo economico, ma tutt’al più un adeguamento dei suoi mezzi al fine di individuare un corretto bilanciamento tra valori giuridicamente tutelati. In ogni caso, anche alla luce della frammentarietà delle proposte in campo, occorre evitare che l’incertezza discoraggi comportamenti virtuosi, fornendo quanto prima agli operatori economici indicazioni chiare sul tipo di valutazione che le autorità antitrust intendono adottare per verificare la legittimità di determinate iniziative sostenibili ai sensi della normativa antitrust, perché essi possano comprendere e prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie condotte.
L’articolo riflette esclusivamente le opinioni dell’Autrice e non impegna in alcun modo l’Istituto di appartenenza.
[1] Per un’analisi delle iniziative poste in essere dalle autorità antitrust per far fronte alla crisi sanitaria cfr. F. GHEZZI-L. ZOBOLI, L’antitrust ai tempi del Coronavirus: riflessioni sulle esperienze internazionali e sulle iniziative italiane, in Riv. Soc., 2/3, 2020, p. 625 ss.
[2] Rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) 2018 Global Warming of 1.5, https://www.sisclima.it/wp-content/uploads/2019/07/SR15_SPM_ita.pdf.
[3] Oltre all’Accordo di Parigi, un importante traguardo è stato raggiunto con l’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritta dai paesi membri della Nazioni Unite, vedi https://unric.org
/it/agenda-2030/. L’evoluzione delle politiche europee in materia ambientale nel contesto internazionale è efficacemente discussa in S. KINGSTON-V. HEYVAERT-A. ČAVOŠKI, European environmental law, Cambridge University Press, Cambridge, 2017, pp. 1-53.
[4] Iniziative paradigmatiche in questo senso sono il comunicato della BUSINESS ROUNDTABLE, An economy that serves all Americans, 2019 o ancora quello della English Academy, The Future of Corporation, 2018. Frequentemente citata è anche la lettera del ceo di BlackRock, Larry Fink, Sustainability as BlackRock’s new Standard for Investing, 2020, disponibile su https://
www.blackrock.com/corporate/investor-relations/blackrock-client-letter; per un commento cfr. V. CALANDRA BUONAURA-F. DENOZZA-M. LIBERTINI-G. MARASÀ-M. MAUGERI-R. SACCHI-U. TOMBARI, Lo statement della Business Roundtable sugli scopi della società. Un dialogo a più voci, in Orizzonti del diritto commerciale, 7(3), 2019, p. 589 ss.; G. STRAMPELLI, Gli investitori istituzionali salveranno il mondo? Note a margine dell’ultima lettera annuale di BlackRock, in Riv. Soc., 2020, p. 51 ss. La crescente attenzione dei mercati finanziari nei confronti dei fattori ESG ha alimentato la richiesta di trasparenza sulle informazioni relative alla gestione rischi climatici e la performance ambientale delle imprese. Pertanto, anche il regolatore europeo ha introdotto alcune misure volte a incentivare la finanza sostenibile e scoraggiare fenomeni di green-washing. Si veda ad esempio il Regolamento Tassonomia, Reg. n. 852/2020 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 18 giugno 2020 o ancora il Regolamento n. 2088/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari.
[5] Rapporto KPMG, L’informativa relativa ai rischi climatici, opportunità e rischi per le imprese italiane, dicembre 2019.
[6] Il tema della responsabilità sociale e ambientale dell’impresa ha acquisito in tempi recenti un rinnovato interesse. Le motivazioni alla base di questa nuova tendenza sono diverse, e non vi è qui spazio per dar conto della vasta letteratura in merito. A titolo di esempio v. M. LIBERTINI, Impresa e finalità sociali. Riflessioni sulla teoria della responsabilità̀ sociale dell’impresa, in Riv. soc., 2009, p. 23 ss.; F. DENOZZA, L’interesse sociale tra «coordinamento» e «cooperazione», in AA.VV., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli «stakeholders», Giuffrè, Milano, 2010, p. 38 ss. Nella letteratura economica v. I. IOANNOU-G. SERAFEIM, Corporate Sustainability: A Strategy?, in Harvard Business School Accounting & Management, Unit Working Paper No. 19-065, 2019; T. LYON-J. MAXWELL, Corporate Social Responsibility and the Environment: A Theoretical Perspective, in Review of Environmental Economics and Policy Advance, 2007, pp. 1-22.
[7] COMMISSIONE EUROPEA, Strategia annuale di crescita sostenibile 2020, COM(2019)650, 17 dicembre 2019.
[8] COMMISSIONE EUROPEA, Il Green Deal europeo, COM(2019)640, 11 dicembre 2019.
[9] Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica e che modifica il regolamento n. 1999/2018 (Legge europea sul clima), del 4 marzo 2020.
[10] Sebbene l’emergenza sanitaria abbia costretto gli Stati Membri e la stessa Unione a rivedere le loro priorità e a focalizzarsi sul contenimento del virus, gli strumenti messi in campo dalle istituzioni europee per favorire la ripresa, compresi i fondi e finanziamenti previsti dal Next Generation EU, mirano a vincolare le azioni e gli investimenti elaborati nei piani nazionali di resilienza al raggiungimento agli obiettivi ambientali e quelli legati allo sviluppo sostenibile. L’idea di fondo è che la fase di ricostruzione che seguirà all’emergenza rientri un’occasione per favorire la transizione ecologica e lo sviluppo di modelli di crescita più sostenibili. COMMISSIONE EUROPEA, Il momento dell’Europa: riparare i danni e preparare il futuro per la prossima generazione, COM/2020/456 e Il bilancio dell’UE come motore del piano per la ripresa europea COM/
2020/442, entrambe del 27 maggio 2020.
[11] Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, infra, nota 8, p. 3.
[12] Discorso della Vicepresidente M. VESTAGER, Competition and Sustainability, GCLC Conference on Sustainability and Competition Policy, 24 ottobre 2019.
[13] DG Concorrenza, La politica della concorrenza a sostegno del Green Deal – Invito a presentare contributi, 14 ottobre 2020, https://ec.europa.eu/competition/information/green_deal/
call_for_contributions_it.pdf.
[14] AUTHORITY FOR CONSUMERS AND MARKETS (ACM), Draft Guidelines on Sustainability Agreements, 9 luglio 2020. Una seconda versione è stata pubblicata il 27 gennaio 2021, Second draft version: Guidelines on Sustainability Agreements – Opportunities within competition law, https://
www.acm.nl/en/publications/second-draft-version-guidelines-sustainability-agreements-opportuniti
es-within-competition-law; HELLENIC COMPETITION COMMISSION, (HCC), Staff Discussion Paper on Sustainability Issues and Competition Law 2020, https://www.epant.gr/en/enimerosi/competition-law-sustainability.html. Le due autorità hanno anche commissionato in via congiunta uno studio pubblicato nel gennaio 2021, Technical Report on Sustainability and Competition, https://www.
epant.gr/en/enimerosi/publications/sustainability/item/1284-technical-report-on-sustainability-and-competition.html. Anche l’Autorità tedesca ha pubblicato un Discussion paper, Offene Märkte und nachhaltiges Wirtschaften – Gemeinwohlziele als Herausforderung für die Kartellrechtspraxis, disponibile su https://www.bundeskartellamt.de/SharedDocs/Publikation/DE/Diskussions_Hintergrund
papier/AK_Kartellrecht_2020_Hintergrundpapier.pdf?__blob=publicationFile&v=2, 28 ottobre 2020.
[15] Una discussione simile, seppur meno intensa, è sorta negli Stati Uniti a seguito di una indagine avviata dal Department of Justice nei confronti di alcune imprese automobilistiche stabilite nello Stato della California, per aver preso parte ad un accordo finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas inquinanti da loro prodotte più significativa rispetto ai limiti previsti dalla legge. Per un commento cfr. H. HOVENKAMP, Are Regulatory Agreements to Address Climate Change Anticompetitive?, in The Regulatory Review, 2019, p. 1 ss.; J. NOWAG-A. TEORELL, The Antitrust Car Emissions Investigation in the U.S. – Some Thoughts from the other side of the pond, in CPI, 2020, p. 1 ss.
[16] Si rimanda all’efficace analisi di M. RAMAJOLI, La tutela antitrust nel XXI secolo, in questa Rivista, 2/2020, p. 221 ss. Per una sintesi del dibattito europeo e statunitense cfr. I. LIANOS, Competition Law for a Complex Economy, in IIC, 50, 2019, p. 643 ss.; C. SHAPIRO, Antitrust in a time of Populism, in International Journal of Industrial Organization, 3/2018, p. 714 ss.; L. KHAN, The New Brandeis Movement: America’s Antimonopoly Debate, in Journal of Competition Law and Practice, 9(3), 2018, p. 131 ss.
[17] Linklaters Sustainability Series, Competition law needs to cooperate: companies want clarity to enable climate change initiatives to be pursued, 2020, https://www.linklaters.com/en/
insights/blogs/linkingcompetition/2020/esg/competition-and-sustainability.
[18] Una sintesi dei contributi è disponibile su https://ec.europa.eu/competition/consultations/
2019_hbers/NCA_summary.pdf.
[19] Tra i molti, v. A. GERBRANDY, The Difficulty of Conversations About Sustainability and European Competition Law, in Antitrust Chronicle CPI, 1/2, 2020, p. 65 ss., e gli altri contributi nello stesso numero della rivista; G. MONTI, Four Options for a Greener Competition Law, in Journal of European Competition Law and Practice, 2020, p. 124 ss.
[20] Questa impostazione riflette la tendenza del regolatore europeo a favorire strumenti di regolazione innovativi e alternativi rispetto al tradizionale approccio command and control, basati sul coinvolgimento diretto del settore privato tramite i cd. market-based instruments. Si veda a tal proposito COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde sugli strumenti di mercato utilizzati a fini di politica ambientale e ad altri fini connessi COM(2007) del 28 marzo 2007. Cfr. A. HÉRITIER-S. ECKERT, New Modes of Governance in the Shadow of Hierarchy: Self-Regulation by Industry in Europe, in Journal of Public Policy, 28, 2008, pp. 113-38.
[21] Decisione della Commissione del 13 aprile 2011, COMP/39579 – Consumer Detergents.
[22] COMMISSIONE EUROPEA AT.40178 – Car Emissions, Antitrust: Commission sends Statement of Objections to BMW, Daimler and VW for restricting competition on emission cleaning technology, 5 aprile 2019.
[23] C. RAMUS-I. MONTIEL, When Are Corporate Environmental Policies a Form of Greenwashing?, in Business & Society, 44(4), 2005, pp. 377-414.
[24] Infra, nota 20.
[25] M. DOLMANS, Sustainable Competition Policy, in Competition Law and Policy Debate, 4(1), 2020, p. 8 ss.; M. P. SCHINKEL-Y. SPIEGEL, Can collusion promote sustainable consumption and production?, in International Journal of Industrial Organization, 53, 2017, p. 371 ss.
[26] G. MONTI, Article 81 EC and Public Policy, in Common Market Law Review, 39, 2002, p. 1057 ss.
[27] Quest’ultima disposizione infatti stabilisce le quattro condizioni cumulative necessarie per esentare un accordo restrittivo dall’applicazione del divieto, in presenza di benefici oggettivi che compensino gli effetti distorsivi della concorrenza.
[28] F. REINHARDT, Environmental Product Differentiation: Implications for Corporate Strategy, in California Management Review, 40(4), 1998, p. 43 ss.; S. BONINI-J. OPPENHEIM, Cultivating the Green Consumer, in Stanford Social Innovation Review, 6(4), 2008, p. 56 ss.
[29] In tal senso cfr. G. MONTI, Escaping the Clutches of EU Competition Law Pathways to Assess Private Sustainability Initiatives, in European Law Review, 24(5), 2017, p. 635 ss.; T. LÜBBIG, Sustainable Development and Competition Policy, in Journal of European Competition Law & Practice, 4(1), 2013, p. 1 ss.
[30] Decisione della Commissione n. 83/669 Carbon Gas Technologies, 1983, OJ L376/17.
[31] Decisione della Commissione n. 94/322 Exxon/Shell, 1994, OJ L144/20.
[32] Decisione della Commissione 94/986 Philips/Osram, 1994, OJ L378/37. In tal senso anche Decisione n. 93/49 Ford/Volkswagen, 1993, OJ L20/14.
[33] Cfr. Decisioni della Commissione n. 88/541 BBC Brown Boveri, 1988, OJ L301/68 e n. 91/38 KSB/Goulds/Lowara/ITT, OJ L19/25, 1991. Si veda anche COMMISSIONE EUROPEA, XXVIII Relazione sulla politica di concorrenza, Caso EACEM, 1999, p. 152.
[34] Decisione della Commissione Caso IV.F.1/36.718, CECED, 1999, OJ L 187/47.
[35] CECED, §48.
[36] Si rinvia all’esaustiva analisi di S. KINGSTON, Greening EU Competition Law and Policy, Cambridge University Press, Cambridge, 2011, p. 97 ss.
[37] J.S. VENIT, Brave new world: The modernization and decentralization of enforcement under articles 81 and 82 of the EC Treaty, in Common Market Law Review, 40(3), 2003, p. 545 ss.
[38] O. BROOK, Struggling With Article 101(3) TFEU: Diverging Approaches of the Commission, EU Courts, and Five Competition Authorities, in Common Market Law Review, 56(1), 2019, p. 121 ss.
[39] COMMISSIONE EUROPEA, Linee direttrici sull’applicazione dell’articolo 81, paragrafo 3, del trattato, G.U. 2004/C, 101/08 del 27 aprile 2004; Linee direttrici sull’applicabilità dell’articolo 81 del trattato CE agli accordi di cooperazione Orizzontale, G.U. 2001/C 3/02 del 6 gennaio 2001; Linee direttrici sull’applicabilità dell’articolo 101 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli accordi di cooperazione orizzontale, G.U. 2011/C 11/01 del 14 gennaio 2011. Nello specifico il confronto delle due versioni di questo ultimo documento fornisce una chiara indicazione della revisione dell’interpretazione della norma in chiave strettamente efficientistica. Non a caso, nel documento del 2011 è stato tolto ogni riferimento agli accordi ambientali, oggetto di uno specifico titolo nella precedente versione del documento.
[40] ACM Caso n. 13.0195.66, una sintesi è disponibile su https://www.acm.nl/sites/default/
files/old_publication/publicaties/13789_analysis-chicken-of-tomorrow-acm-2015-01-26.pdf.pdf. In realtà questa decisione riguarda un diverso aspetto della sostenibilità, i.e. la tutela degli animali.
[41] Una sintesi della decisione è disponibile sul sito dell’Autorità, https://www.acm.nl/sites/
default/files/old_publication/publicaties/12082_acm-analysis-of-closing-down-5-coal-power-plan
ts-as-part-of-ser-energieakkoord.pdf.
[42] Infra, nota 14.
[43] A tal proposito si rimanda a M. LIBERTINI, voce Concorrenza, in Enc. dir., Annali, vol. III, Milano, 2010, p. 191 ss. cfr. R. PARDOLESI, Hipster antitrust e sconvolgimenti tettonici: back to the future?, in Merc. conc. reg., 2019, p. 81 ss.
[44] V. MELI, Il public interest nel diritto della concorrenza UE, in Merc. conc. reg, 3, 2020, p. 439 ss.
[45] J. NOWAG, The Sky Is the Limit: On the Drafting of Article 11 TFEU’s Integration Obligation and its Intended Reach, in B. Sjåfjell-A. Wiesbrock (eds), The Greening of European Business under EU Law: Taking Article 11 TFEU Seriously, Routledge, 2015.
[46] Infra, nota 2.
[47] Per una ricostruzione storica dei passaggi che hanno segnato l’ingresso del principio di sviluppo sostenibile nel diritto europeo v. N. DE SADELEER, Sustainable development in EU law: still a long way to go, in Jindal Global Law Review, 2015, p. 639 ss.
[48] Cfr. S. KINGSTON, Why Environmental Protection Goals Should Play a Role in EU Competition Policy: a Legal Systematic Argument, in Greening EU Competition Law and Policy, op. cit.
[49] J. NOWAG, Environmental integration in competition and free-movement laws, Oxford University Press, 2016; D. GRIMEAUD, The Integration of Environmental Concerns into EC Policies: A Genuine Policy Development?, in European Environmental Law Review, 7, 2000, p. 207 ss.
[50] M. WASMEIER, The Integration of Environmental Protection as a General Rule for Interpreting Community Law, in Common Market Law Review, 38, 2001, p. 159 ss.
[51] LIBERTINI, voce Concorrenza, op. cit., p. 194.
[52] Cfr. N. PETIT-N. NEYRINCK, A Review of the Competition Law Implications of the Treaty on the Functioning of the European Union, in The CPI Antitrust Journal, 2, 2010, p. 1 ss.
[53] LIBERTINI, voce Concorrenza, op. cit.
[54] M. CLARICH, Alle radici del paradigma regolatorio dei mercati, in questa Rivista, 2/2020, p. 230 ss.
[55] P. DE GRAWUE, The Limits of the Market: The Pendulum Between Government and Market, Oxford University Press, 2017. A. CUCINOTTA, La natura dei mercati, l’economia comportamentale e l’antitrust, in Merc. conc. reg., 2018, p. 199 ss.
[56] N. STERN, The Economics of Climate Change, in The American Economic Review, 98(2), 2008, p. 1 ss.
[57] G. HARDIN, The tragedy of the commons, in Science, 162, 1962, p. 1243 ss.
[58] Cfr. C. VOLPIN, Sustainability as a quality dimension of competition: protecting our future (selves), in CPI Antitrust Chronicle, 2020, p. 11 ss.; M. DOLMANS, Sustainable Competition Policy, in Competition Law and Policy Debate, 4(1), 2020, p. 8 ss.
[59] Espressione che deriva dal contributo fondamentale di A.C. PIGOU, The Economics of Welfare, Macmillan & Co., 1920.
[60] In Europa il meccanismo è denominato Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’Unione europea (ETS UE), il cui funzionamento è descritto nel Manuale ETS disponibile su https://ec.europa.eu/clima/sites/clima/files/docs/ets_handbook_en.pdf.
[61] M. STUCKE, Is Competition always good?, in Journal of Antitrust Enforcement, 1(1), 2013, p. 162 ss.; I. LIANOS, op. cit.
[62] Un orientamento diverso è quello espresso da F. DENOZZA, il quale ritiene che i giudici debbano tener conto del fatto che un comportamento anti-concorrenziale possa favorire la promozione di un progresso anche non strettamente tecnico, ma legato ad un valore giuridicamente tutelato, cfr. La responsabilità sociale dell’impresa, Convegno per i trent’anni di Giurisprudenza Commerciale (Bologna 8-9 ottobre 2004), Giuffrè, Milano, 2006, p. 124 ss. Un’alternativa interessante è quella basata su la cd. “intra-market second best analysis”, ossia la valutazione, in presenza di una pluralità di fallimenti di mercato, della soluzione che consente un incremento netto del benessere totale. Cfr. P. HAMMER, Antitrust beyond Competition: Market Failures, Total Welfare, and the Challenge of Intra-market Second-Best Tradeoffs, in Michigan Law Review 98(4), 2000, p. 849; R. LIPSEY-K. LANCASTER, The General Theory of Second Best, in Rev. Econ. Stud., 63, 1956, p. 11.
[63] Non vi è qui lo spazio per dare conto dei moltissimi contributi sul tema. Si vedano, tra i molti, B. ORBACH, The Antitrust Consumer Welfare Paradox, in Journal of Competition Law & Economics, 7(1), 2010, p. 133 ss.; E. FOX, The Efficiency Paradox, in R. Pitofsky (ed), How the Chicago School Overshot the Mark: The Effect of Conservative Economic Analysis on U.S. Antitrust, Oxford University Press, 2008, p. 77 ss.; J. STIGLITZ, Towards a Broader View of Competition Policy, in Competition Policy for the New Era: Insights from the BRICS Countries, Oxford University Press, 2017, Ch. 2.
[64] Una proposta interessante è quella avanzata da R. INDERST-S. THOMAS, Reflective Willingness to Pay – Preferences for Sustainable Consumption in a Consumer Welfare Analysis, in LawFin Working Paper, n. 14, p. 1 ss. Gli autori suggeriscono una revisione dell’analisi del benessere del consumatore basata sul cd. “reflective willingness to pay”, un parametro che tiene conto anche delle circostanze che influiscono sulle scelte di acquisto dei consumatori e l’esistenza di eventuali fallimenti del mercato.
[65] M. STUCKE-A. EZRACHI, Competition Overdose: How Free Market Mythology Transformed Us from Citizen Kings to Market Servants, Harper Business, 2020; I. LIANOS, op. cit.
[66] F. DENOZZA-A. TOFFOLETTO, Contro l’utilizzazione dell’“approccio economico” nell’interpretazione del diritto antitrust, in Merc. conc. reg., 3, 2006, p. 563 ss.
[67] M. SAGOFF, The Economy of the Earth: Philosophy, Law, and the Environment, CUP, 2nd ed., 2008, p. 48 ss.
[68] Supra n. 35.
[69] MONTI, Article 81 EC and Public Policy, op. cit., BROOK, op. cit.
[70] C. TOWNLEY, The Relevant Market: An Acceptable Limit to Competition Analysis?, in European Competition Law Review, 2011, p. 10 ss.
[71] Intuizione sviluppata, tra i molti, da A. MARSHALL, Principles of Economics,1890.
[72] L’esempio è tratto dal procedimento avviato dall’autorità antitrust olandese nel caso sopra citato Energy Accord conclusosi una decisione contraria all’accordo.
[73] Un concetto fondamentale nell’economia ambientale, utilizzato nella maggior parte delle analisi di impatto ambientali, è quello del “discounting” o tasso di sconto che nasce dalla necessità attribuire il giusto peso ai benefici futuri, in considerazione del fatto che gli individui attribuiscono un peso inferiore al beneficio o al costo futuro rispetto a quello presente. Cfr. C. VOLPIN, op. cit.
[74] Si vedano anche le prospettive descritte da G. MONTI, Four Options for a Greener Competition Law, op. cit.
[75] COMMISSIONE EUROPEA, Quadro temporaneo per le misure di aiuto di stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza covid-19, del 8 aprile 2020. Cfr. J. BUHART-D. HENRY, COVID-20: The Comfort Letter Is Dead. Long Live the Comfort Letter?, in World Competition, 43(3), 2020, p. 305 ss.
[76] J. NOWAG, Background Note, Sustainability and Competition Law and Policy, in OECD 134th Meeting of the Competition Committee, dicembre 2020.
[77] S. HOLMES, Climate Change, sustainability, and competition law, in Journal of Antirust Enforcement, 8(2), 2020, p. 354 ss.
[78] Alcuni esempi sono forniti da G. MONTI per quella che l’Autore definisce “the deepest green option”, Four Options for a Greener Competition Law, op. cit.
[79] A. GERBRANDY, Addressing the Legitimacy Problem for Competition Authorities Taking into Account Non-Economic Values: the Position of the Dutch Competition Authority, in European Law Review, 5, 2015, p. 769 ss.
[80] M. GLASSER, Sustainability, the Green Deal and Art 101 TFEU: Where We Are and Where We Could Go, in Journal of European Competition Law & Practice, 12(6), 2015, p. 430 ss.
[81] Un tema altrettanto importante che però, per ragioni di spazio, non può essere trattato in questa sede riguarda il coinvolgimento dell’autorità pubblica nella promozione di collaborazioni tra imprese per fini legati alla tutela ambientale.
[82] E. LOOZEN, Strict competition enforcement and welfare: A constitutional perspective based on Article 101 TFEU and sustainability, in Common Market Law Review, 5, 2019, p. 1265 ss.
[83] Infra, nota 14.
[84] Secondo l’Autorità infatti non è sempre necessario quantificare i benefici prodotti dall’accordo per verificare la seconda condizione di esenzione, nello specifico ciò non è richiesto nel caso in cui le quote di mercato delle parti coinvolte nell’accordo siano modeste o, in alternativa, nel caso in cui all’esito di una prima analisi il danno concorrenziale risulti di gran lunga inferiore ai benefici prodotti dall’accordo, Si vedano anche gli esempi forniti a riguardo, Guidelines on Sustainability Agreements 2021 (parr. 53-56).
[85] Questo meccanismo però vale solamente per i benefici ambientali e non quelli generalmente legati alla sostenibilità (tutela degli animali, delle condizioni dei lavoratori ecc.). In questi casi l’Autorità suggerisce l’utilizzo di un’analisi della disponibilità dei consumatori ad acquistare i prodotti/servizi oggetto dell’accordo (WTP analysis).
[86] Sentenza della Corte di Giustizia, 19 febbraio 2002, causa C-309/99, JCJ Wouters, JW Savelbergh and Price Waterhouse Belasting-adviseurs BV v. Algemene Raad van de Nederlandse Orde van Advocaten, 2002, ECR I-1577.
[87] Sentenza della Corte di Giustizia, 18 luglio 2006, causa C-519/04 Meca-Medina and Majcen v Commission, 2006, ECR I-06991. Più complesso è appare l’utilizzo della cd. dottrina Albany (riferita alla causa Corte di giustizia, 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany International BV v. Stichting Bedrijfspensioenfonds Textielindustrie, 1999, ECR I-5751, e sviluppata nei Casi C-115/97, C-116/97 e C-117/97 Brentjens’Handelsonderneming BV, 1999, ECR I-6025), in quanto essa richiede che l’accordo oggetto di scrutinio sia indispensabile per il perseguimento di un obiettivo dell’Unione, come nel caso degli accordi sindacali per la tutela dei lavoratori. Appare dunque difficile sostenere che gli accordi ambientali siano ugualmente cruciali per il raggiungimento degli obiettivi ambientali al tal punto da giustificare un’esenzione in blocco anche a prescindere dalla proporzionalità degli effetti restrittivi generati.
[88] Wouters, § 97.
[89] Ci si riferisce anche alle diverse pronunce di condanna nei confronti degli Stati per inadempienza nella lotta ai cambiamenti climatici. In tal senso la recentissima pronuncia del Tribunale amministrativo di Parigi N°1904967, 1904968, 1904972, 1904976/4-1 del 3 febbraio 2021, o la più nota sentenza Urgenda della Corte Suprema olandese n. 19/00135 del 20 dicembre 2019.