Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Illegittima conformazione del potere regolatorio in materia tariffaria ed effetti dell´annullamento giurisdizionale (di Simone Rodolfo Masera)


Il commento analizza la portata dell’effetto conformativo dell’annullamento giurisdizionale nei confronti di prescrizioni ministeriali illegittime in quanto invasive della sfera di competenza dell’ARERA in materia tariffaria. In particolare, viene svolta una riflessione critica nei confronti di una recente indirizzo del Giudice amministrativo secondo cui, in caso di sentenza di annullamento fondata sull’accertamento di un vizio di incompetenza del Ministero rispetto a talune prerogative della competente Autorità di regolazione, residuerebbe un totale spazio in sede di rinnovazione della procedura in capo all’Autorità, avendo il Giudice amministrativo censurato proprio il mancato esercizio delle attribuzioni riservate all’Autorità stessa.

Parole chiave: sindacato giurisdizionale – autorità indipendenti – potere di regolazione in materi tariffaria – effetti sentenza di annullamento – vincolo conformativo.

Illegitimate conformation of the regulatory power on tariff matters and the effects of jurisdictional annulment

The comment analyzes the extent of the conforming effect of the jurisdictional annulment against illegitimate ministerial prescriptions as they are invasive of ARERA’s sphere of competence in terms of tariffs. In particular, a critical reflection is carried out against a recent decision of the Council of State according to which, in the event of an annulment judgment based on the ascertainment of a lack of incompetence of the Ministry with respect to certain prerogatives of the competent regulatory authority, a total space in the renewal of the procedure by the Authority, as the Administrative Judge censured the failure to exercise the powers reserved to the Authority itself.

Keywords: judicial review – independent authorities – effects of the annulment sentence.

«Omissis

Con un unico articolato motivo si deduce che, in esecuzione del giudicato, l’Autorità avrebbe dovuto esercitare pienamente le proprie funzioni di regolazione tariffaria anche con riferimento all’anno 2018, mentre ciò non sarebbe avvenuto, in quanto, per il detto anno, la stessa si sarebbe limitata a confermare, sic et simpliciter, la disciplina annullata.

La delibera 270/2020/R/EFR risulterebbe, inoltre, nulla con riguardo all’anno 2019. Infatti, pure in relazione al detto anno sarebbe stato fissato il nuovo tetto massimo di euro 250 per ciascun TEE.

A giustificazione di tale scelta si afferma che: «la fissazione di un valore del cap superiore a 250 €/TEE avrebbe l’effetto di modificare il dettato del decreto interministeriale nelle parti non intaccate dalla sentenza, con particolare riferimento al costo dei TEE “virtuali”, la cui disciplina rientra esclusivamente nelle competenze ministeriali: difatti, se il contributo tariffario risultasse maggiore di 250 €/TEE, il costo dei TEE “virtuali” risulterebbe inferiore al valore minimo previsto dal decreto, pari a 10 €/TEE, fino ad annullarsi.

Valori del cap minori di 250 €/TEE avrebbero invece l’effetto di inasprire ulteriormente le tensioni derivanti dalla scarsa liquidità del mercato, provocando maggiori perdite derivanti dal costo dei TEE “virtuali”».

Sennonché dal giudicato discenderebbe l’obbligo per l’Autorità di non applicare la prescrizione ministeriale relativa al valore dei TEE “virtuali”, dato che tale valore sarebbe stato definito dal ministero per relationem, ovvero come differenza tra l’importo di euro 260 e il cap stesso.

Ancorché l’individuazione del costo minimo dei TEE “virtuali” non sia formalmente coinvolta dall’effetto caducatorio della sentenza, nella misura in cui tale individuazione risulta inscindibilmente legata a un cap illegittimamente calcolato – e annullato con sentenza passata in giudicato –la medesima non avrebbe potuto più spiegare alcuna efficacia condizionante sulle prerogative del Regolatore.

Dei suddetti rilievi dedotti col ricorso il giudice dell’ottemperanza non avrebbe tenuto conto.

Il motivo così sinteticamente riassunto non merita accoglimento.

L’annullamento da parte del Tribunale meneghino del gravato D.M. si basa sul rilievo che quest’ultimo «…nella parte in cui fissa il detto “valore massimo di riconoscimento” (cap):

– non concreta la fissazione degli “obiettivi quantitativi” ex lege demandata al “Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato di concerto con il Ministro dell’ambiente” (art. 9, comma 1, d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79);

– né tampoco può rientrare nel genus delle misure demandate alle medesime Autorità ministeriali ex art 7, comma 1, del d.lgs. 30 maggio 2008, n. 115 (funzionali alla individuazione delle modalità di raccordo degli obblighi in materia di efficientamento e di risparmio energetico gravanti in capo alle imprese di distribuzione e gli obiettivi nazionali vincolanti di risparmio cumulato di energia finale, nonché alla determinazione dei modi di assolvimento di tali obblighi mercé l’acquisto della equivalente quota di certificati bianchi);

– di qui la piena riconducibilità delle misure enumerate alla lett. f), del comma 1, dell’art. 29 del d.lgs. 28/11 nell’ambito dei poteri normativamente, ed esclusivamente, demandati ad Arera, comeché esplicati giustappunto attraverso i provvedimenti di cui all’art. 7 d.lgs. 115/98 e, segnatamente, in conformità dei poteri alla Autorità indipendente di regolazione attribuiti dal comma 4 di detta disposizione».

La delibera dell’ARERA n. 487/2018/R/EFR è stata, a sua volta, annullata in quanto: «Con il pedissequo recepimento del dettato ministeriale, Arera ha in sostanza abdicato dall’esercizio delle proprie indefettibili potestà di regolazione, siccome inequivocabilmente scandite dal diritto dell’Unione e dall’ordinamento domestico, mancando di autonomamente provvedere alla determinazione dei criteri per la copertura dei costi sopportati dai distributori in ragione dell’acquisto dei certificati bianchi, soggiacendo a puntuali prescrizioni promananti dalla Autorità governativa».

La delibera n. 209/2019/R/EFR è stata, infine, annullata per illegittimità derivata.

Orbene, come correttamente rilevato dal giudice dell’ottemperanza, la citata sentenza n. 2538/2019 ha annullato, in parte qua, il D.M. 10/5/2018, per incompetenza e in toto la deliberazione n. 487/2018/R/EFR, in quanto adottata sul falso presupposto che il limite tariffario posto col citato D.M. (euro 250 per ciascun certificato bianco) costituisse di un dato normativo cogente, con conseguente mancato esercizio, da parte dell’Autorità, dei propri poteri regolatori in materia tariffaria.

Il giudicato imponeva, quindi, all’Autorità unicamente di esercitare in via autonoma le proprie prerogative regolatorie nella materia tariffaria, senza porre alcun vincolo conformativo in ordine al riesercizio del potere.

Risulta conseguentemente precluso ogni giudizio di coerenza delle determinazioni concretamente assunte rispetto al dictum giudiziale.

Nel caso di specie, l’ARERA ha autonomamente scelto, sulla base di apposita istruttoria, di confermare per il 2018 il valore tariffario di euro 250 a TEE.

Altrettanto dicasi in ordine alla quantificazione del cap per l’anno 2019. Al riguardo è appena il caso di osservare che in questa sede non possano rilevare le modalità con cui il ministero è giunto, nell’ambito delle proprie competenze, all’individuazione del valore dei TEE “virtuali”, dato che sul punto l’ottemperanda sentenza non si è pronunciata.

Nulla ovviamente esclude che la delibera n. 270/2020/R/EFR possa presentare eventuali profili di illegittimità, ma questi ultimi esulano, com’è noto, dall’ambito del giudizio di esecuzione e devono esser fatti valere nell’apposita sede impugnatoria».

MASSIMA

In caso di annullamento giurisdizionale avente ad oggetto una prescrizione ministeriale per incompetenza e in toto un provvedimento adottato dall’ARERA, in quanto adottato sul falso presupposto che il limite tariffario posto con la prescrizione ministeriale costituisse di un dato normativo cogente, con conseguente mancato esercizio, da parte dell’Autorità di regolazione, dei propri poteri regolatori in materia tariffaria, il giudicato imponeva all’Autorità di regolazione unicamente di esercitare in via autonoma le proprie prerogative regolatorie nella materia tariffaria, senza porre alcun vincolo conformativo in ordine al riesercizio del potere. Risulta conseguentemente precluso ogni giudizio di coerenza delle determinazioni concretamente assunte rispetto al dictum giudiziale.

Estratto: Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2021, n. 4465

SOMMARIO:

1. Brevi premesse sulla portata dell’effetto conformativo dell’an­nullamento giurisdizionale in relazione ai vizi accertati - 2. La determinazione del contributo tariffario nel meccanismo dei certificati bianchi dopo il d.m. 10 maggio 2018 - 3. L’annullamento giurisdizionale in parte qua del d.m. del 2018 e la nuova definizione dei criteri di determinazione del contributo tariffario - 4.  Il “nucleo indefettibile” dei poteri regolatori in materia tariffaria - 5. L’accertata incidenza conformativa della prescrizione ministeriale sulla potestas regolatoria di ARERA - 6. Accertamento dell’illegittima conformazione del potere tariffario da parte del Ministero: totale assenza di vincolo conformativo? - 7. Sviamento di potere ed elusione del giudicato d’annullamento - NOTE


1. Brevi premesse sulla portata dell’effetto conformativo dell’an­nullamento giurisdizionale in relazione ai vizi accertati

La lettura della pronuncia in epigrafe consente di svolgere alcune riflessioni circa la portata conformativa delle sentenze di annullamento dei provvedimenti di regolazione tariffaria, innanzitutto – ma non solo – con riferimento a quelle fondate sull’accertamento della violazione da parte dell’autorità governativa dei principi posti a presidio dell’indipendenza della competente autorità di regolazione.

Il Consiglio di Stato, confermando la decisione del primo giudice adito in sede di ottemperanza, ha nel caso in esame ritenuto che il giudicato di annullamento in precedenza formatosi [1] imponesse all’amministrazione competente unicamente di esercitare in via autonoma le sue prerogative regolatorie «senza porre alcun vincolo conformativo»: con la conseguenza che sarebbe stato «precluso ogni giudizio di coerenza delle determinazioni assunte rispetto al dictum giudiziale». Viene, così, ribadita l’impostazione argomentativa del primo giudice, secondo cui la sentenza d’annullamento lasciava «totale spazio all’Autorità quanto all’esercizio del relativo potere, avendo il Tribunale censurato proprio il mancato esercizio delle attribuzioni che l’ordinamento in materia tariffaria riserva all’Autorità stessa» [2]. Da qui il rigetto delle domande avanzate in sede di ottemperanza.

Sono così delineati i termini più rilevanti della vicenda, che riguardano, in estrema sintesi, i vincoli per la competente autorità in sede di rinnovo dell’e­sercizio dei poteri regolatori.

Come è noto, il tema della portata degli effetti della sentenza amministrativa è da tempo all’esame della dottrina, le cui analisi e conclusioni hanno fortemente condizionato gli sviluppi della giurisprudenza [3]. Peraltro, si tratta di una tematica che investe vari istituti, non solo di diritto processuale [4], e che, con tutta evidenza, si correla strettamente al ‘giudicato’: quindi alle svariate questioni che questo pone, in termini (non sempre del tutto) simili a quanto accade sul versante del processo civile [5]. Ci si riferisce, principalmente, a temi quali contenuto e limiti (soggettivi e oggettivi) del giudicato [6], applicabilità, o meno, nel processo amministrativo della regola secondo cui il giudicato copre il ‘dedotto’ e il ‘deducibile’ [7], sussistenza di ‘preclusioni’ in sede di rinnovazione del procedimento [8], natura (composita) del giudizio d’ottemperanza [9], concrete utilità conseguibili dal ricorrente vittorioso, teorica del giudicato a formazione c.d. progressiva e rilevanza delle c.d. sopravvenienze [10], e così via.

Si tratta di tematiche complesse, rispetto alle quali sono state immaginate soluzioni necessariamente condizionate dal fatto che parte processuale è una pubblica amministrazione, con tutto quel che ne consegue in ordine, principalmente, alla dibattuta questione della c.d. inesauribilità del potere [11]; vero è però che, nella fase attuale, dalla natura pubblica del soggetto si «desume proprio un suo dovere più intenso di eseguire le pronunce del giudice, perché il dovere di esecuzione di una sentenza è percepito come un elemento essenziale di quel sistema di legalità che l’amministrazione prima di ogni altro soggetto è tenuta a costruire» [12].

Nell’affrontare le varie questioni si sono spesso prese le mosse dal nucleo della sentenza (in particolare, di annullamento), che, tradizionalmente, veniva identificato nell’accertamento dell’illegittimità dell’atto in relazione a specifici vizi-motivi (articolati in puntuali censure). Ma il dibattito sul punto non si è mai esaurito [13]. Ad ogni modo ciò che qui maggiormente interessa è che il momento dell’accertamento giudiziale costituisce nucleo essenziale della sentenza, dal quale, quindi, non è possibile prescindere per identificare il contenuto della pronuncia ed i relativi effetti [14]. A tal fine il confronto con i tratti caratteristici della fattispecie concreta è indispensabile, anche in ragione della circostanza che l’annullamento potrebbe assumere un diverso «valore» in relazione alle caratteristiche del concreto vizio accertato dal giudice con riferimento ai suoi «elementi costitutivi» ed ai concreti «accadimenti storici» [15].


2. La determinazione del contributo tariffario nel meccanismo dei certificati bianchi dopo il d.m. 10 maggio 2018

La vertenza traeva origine dai provvedimenti adottati dal Ministero competente e dalla Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) in materia di Titoli di Efficienza Energetica (c.d. TEE, anche denominati Certificati Bianchi). Il meccanismo dei TEE prevede obblighi annui di incremento dell’efficienza energetica a carico dei distributori di energia elettrica e gas naturale, da ottemperarsi mediante il possesso di certificati che attestano il conseguimento di risparmi energetici. È, inoltre, previsto un contributo tariffario a copertura dei costi sostenuti dai soggetti tenuti all’acquisto dei TEE (che, infatti, sono titoli negoziabili). A riguardo, il d.m. 11 gennaio 2017, così come modificato dal d.m. 10 maggio 2018, disciplinava alcuni aspetti in grado di influire sulla regolazione tariffaria. Dopo le intervenute modifiche si prevedeva che la determinazione del contributo venisse effettuata, secondo modalità definite da ARERA, «in misura tale da riflettere l’andamento dei prezzi dei certificati bianchi riscontrato sul mercato organizzato e sugli scambi bilaterali, qualora inferiore a 250 euro, definendo un valore massimo di riconoscimento» (art. 11, comma 2, del d.m. del 2017, modificato dall’art. 1, comma 1, lett. f), del d.m. del 2018) [16]. Aspetto decisivo, che ha provocato il contenzioso in questione, riguarda precisamente la (nuova) disposizione secondo cui, a decorrere dal 1° giugno 2018, il valore massimo del contributo tariffario, fissato direttamente dal Ministero, fosse pari a 250 €/TEE.

Altro aspetto sul quale il d.m. del 2018 andava ad incidere riguardava la (nuova) disciplina dei TEE c.d. virtuali: strumenti tesi a garantire maggiore flessibilità nel meccanismo dei certificati bianchi, resasi necessaria in ragione della loro scarsità nel relativo mercato (art. 14-bis, d.m. del 2017, introdotto con la lett. i), dell’art. 1 cit.). Precisamente, si stabiliva che il Gestore dei Servizi Energetici dovesse emettere certificati bianchi «non derivanti dalla realizzazione di progetti di efficienza energetica» (c.d. TEE virtuali) «ad un valore unitario pari alla differenza tra 260 euro e il valore del contributo tariffario definitivo relativo all’anno d’obbligo» [17]. Fin d’ora va chiarito che detta disciplina non è stata travolta dal giudicato di annullamento di cui si discute in queste note [18]; in ogni caso, del contenuto dell’art. 14-bis cit. occorre tenere conto, in quanto esso assumerà significativa importanza nelle valutazioni svolte da ARERA ai fini dell’esecuzione della sentenza [19].

Ciò precisato, in attuazione del d.m. del 2018, ARERA interveniva con una serie di atti regolatori (qui va considerata, in particolar modo, la deliberazione 27 settembre 2018, n. 487/2018/R/efr), in forza dei quali il contributo tariffario veniva determinato sulla base dei prezzi di scambio dei TEE, fermo restando il “cap” pari a 250 €/TEE direttamente imposto dal Ministero [20].


3. L’annullamento giurisdizionale in parte qua del d.m. del 2018 e la nuova definizione dei criteri di determinazione del contributo tariffario

Contro il provvedimento attuativo delle previsioni ministeriali (delibera n. 487 cit.) e contro il d.m. del 2018, impugnato in qualità di atto presupposto, veniva proposto ricorso giurisdizionale avanti al competente TAR. Il giudizio si concludeva con una sentenza di annullamento [21], che, tra le articolate censure avanzate, riteneva fondate, con carattere assorbente, quelle che facevano leva sulla violazione da parte del Ministero dei principi posti a presidio del­l’indipendenza della competente autorità di regolazione in materia tariffaria. L’annullamento in parte qua del d.m. del 2018 importava, inoltre, l’annulla­mento nel suo complesso della deliberazione di ARERA n. 487 cit. «in quanto adottata sul fallace presupposto della esistenza di un dato normativo cogente (fissazione del cap di euro 250,00 per il riconoscimento tariffario dovuto per singolo certificato bianco) che, di contro, non mai avrebbe potuto vincolare la libera ed autonoma esplicazione dell’officium di regolazione ad essa ARERA demandato».

In esecuzione della suindicata sentenza, ARERA, all’esito di apposito procedimento, riteneva necessario determinare il contributo tariffario in questione tenendo conto dei prezzi di scambio dei TEE «in modo similare» a quanto già previsto con la deliberazione n. 487 cit., e definendo un cap «in considerazione del disposto normativo e delle condizioni del mercato»: ciò con il dichiarato obiettivo di contribuire a stimolare gli operatori a contenere i prezzi dei certificati [22].

In particolare, il “cap” al contributo tariffario veniva confermato nel suo originario valore pari a 250 €/TEE. Infatti, secondo ARERA, tale “cap”, prescritto dal Ministero nella previsione annullata, svolgeva, sostanzialmente, due funzioni: la prima, diretta ed esplicita, di individuare un tetto massimo al contributo tariffario da riconoscere; la seconda, indiretta ed implicita, di individuare il costo minimo dei TEE virtuali. Si giunge così ad un passaggio fondamentale nelle considerazioni di ARERA; infatti, mentre la prima funzione, incidendo sulla disciplina del contributo tariffario di esclusiva competenza dell’autorità indipendente, è stata giudicata illegittima, la seconda funzione, al contrario, incide (mediante la «implicita» fissazione di un floor) sulla disciplina dei TEE virtuali, disciplina che però rientra nelle competenze ministeriali: «si tratta, pertanto, in questo secondo caso, di una funzione del tutto legittima, non travolta dall’an­nullamento del giudice amministrativo» [23]. Ed è questo il punto: la eventuale variazione del valore del “cap” pari a 250 €/TEE avrebbe avuto «l’effetto di modificare il dettato del d.m. del 2018 nelle parti non intaccate dalla sentenza, con particolare riferimento al costo dei TEE “virtuali”»; eventualità, tuttavia, ritenuta non possibile in quanto l’opzione di variare il floor al costo dei TEE c.d. virtuali, «implicitamente disposto pari a 10 €/TEE» dal d.m. del 2018, rientra nelle competenze ministeriali.

Inoltre, la conferma del predetto “cap”, sempre secondo ARERA, si rendeva necessaria per evitare «un aggravio dei costi sostenuti di clienti finali elettrici e gas, senza beneficio sistemico né vantaggio per i distributori in termini di copertura dei loro costi» [24].


4.  Il “nucleo indefettibile” dei poteri regolatori in materia tariffaria

Avverso il nuovo provvedimento di determinazione del contributo tariffario veniva promosso giudizio d’ottemperanza, con il quale si contestava l’elusione del giudicato d’annullamento. Ma la relativa domanda veniva rigettata, dal primo giudice adito, con sentenza confermata dal Consiglio di Stato con la pronuncia in epigrafe. Il nucleo argomentativo essenziale della tesi accolta si basa sull’assenza di un vincolo conformativo derivante dall’annullamento giurisdizionale fondato sull’accertamento dell’incompetenza del Ministero, e del conseguente mancato esercizio del potere da parte della competente autorità; in tal caso, infatti, «lo spazio lasciato libero dal giudicato è totale» [25].

Tale soluzione è espressa in termini radicali, e richiede di essere verificata alla luce dell’elaborazione in tema di giudicato amministrativo, con particolare riferimento alla portata degli effetti della sentenza di annullamento; per cogliere gli aspetti più critici della vicenda è, anzitutto, utile il confronto con la fattispecie concreta giunta all’esame del giudice dell’ottemperanza.

Come già riferito, la società ricorrente impugnava il provvedimento n. 487/2018 cit., che (in attuazione del d.m. del 2018, anch’esso impugnato in qualità di atto presupposto) aveva pedissequamente accolto la prescrizione relativa al tetto massimo per la copertura degli oneri per l’acquisto dei TEE [26]. Più precisamente, con due distinti motivi di ricorso venivano articolate varie censure riferite al d.m. del 2018, con motivi di impugnazione riproposti anche nei confronti della deliberazione n. 487/2018 cit., in quanto provvedimento attuativo; altre cesure si riferivano, invece, a vizi autonomi dei provvedimenti regolatori. Il primo ordine di censure (articolate in distinti due distinti motivi di ricorso) riguardava la violazione della normativa nazionale ed eurounitaria che attribuisce specifiche prerogative alla competente autorità di regolazione. Invece, il secondo ordine di censura contestava la violazione del principio di corrispondenza tra costi riconosciuti in tariffa e costi efficienti [27].

Il TAR adito riteneva fondato, con carattere assorbente rispetto alle ulteriori contestazioni, il primo ordine di censure. Le ragioni dell’annullamento del men­zionato decreto si fondano sull’accertato contrasto con la voluntas finium regundorom espressa dal legislatore tramite la definizione del perimetro delle competenze in materia tariffaria spettanti al Governo ed all’autorità di regolazione [28]; difatti, all’autorità indipendente «spetta in via esclusiva il munus di individuazione delle tariffe, contributi e oneri, ivi incluso l’officium di determinazione delle modalità attraverso cui i costi sostenuti dai distributori per l’as­solvimento degli obblighi in materia di efficientamento (compresi, ovviamente, gli esborsi sostenuti per l’acquisto dei certificati bianchi) possano essere recuperati, riconoscendoli in tariffa e, al fine, traslandoli in capo agli utenti finali del servizio». Il che risulta, del resto, coerente con quanto previsto dalla legge istitutiva dell’autorità di regolazione, oltre che con il diritto europeo [29], che attribuisce ad ARERA – così esprime la sentenza – «la competenza alla determinazione delle tariffe, ovvero della relativa metodologia di calcolo» [30]. In tal modo, come si legge in sentenza, il diritto europeo ha circoscritto «il nucleo indefettibile delle correlate potestas» di cui le autorità di regolazione devono essere dotate, e che devono essere esercitate senza interferenze («istruzioni») da parte di altri soggetti. Tale impostazione, del resto, secondo il TAR, trovava conferma già nel d.m. del 2017 cit., in forza del quale la copertura dei costi è effettuata secondo modalità definite da ARERA [31].

È in questo quadro normativo che era intervenuto nel 2018 il Ministero, il quale, secondo il TAR, manteneva ferma, ma solo in termini di principio, la previsione già contenuta nel d.m. del 2017 [32], sulla esclusiva competenza di ARERA nel determinare la misura della copertura dei costi, da un lato, e del valore massimo di riconoscimento, dall’altro [33]. Senonché, poi, sempre secondo il TAR, la puntuale regola introdotta dal Ministero sul valore massimo del contributo tariffario si poneva in contrasto con il (solo) «apparente riconoscimento della competenza di ARERA» [34]. Il Giudice accertava, così, che la prescrizione ministeriale in parola aveva, illegittimamente, «conformato, in tal guisa, la potestas regolatoria di ARERA, finendo per svuotarla in parte qua di effettività e di significanza».


5. L’accertata incidenza conformativa della prescrizione ministeriale sulla potestas regolatoria di ARERA

Così delineate le reciproche sfere di attribuzione delle autorità coinvolte, il TAR, esaminando specificamente i provvedimenti di ARERA, ne accertava l’illegittimità.

In particolare, il Giudice accoglieva le doglianze riferite alla violazione dei principi posti a presidio della indipendenza di ARERA, statuendo che il loro accoglimento determinava (oltre alla caducazione in parte qua del d.m. del 2018, anche) l’annullamento nel suo complesso della successiva deliberazione n. 487 cit., in quanto adottata sul «fallace presupposto» della esistenza di un dato normativo cogente che non avrebbe potuto vincolare la «libera ed autonoma» esplicazione delle prerogative regolatorie: infatti, «la fissazione eteronoma di tale “valore massimo di riconoscimento” – con il mancato esercizio dei relativi poteri da parte della competente Autorità – condiziona in guisa irrefragabile e nel suo complesso le successive valutazioni di ARERA, inficiandone ab imis il contenuto». Inoltre, l’accoglimento dei riferiti motivi di impugnazione «assume carattere assorbente delle ulteriori censure pure formulate nell’atto introduttivo, minando in nuce le scelte regolatorie di ARERA cristallizzate nella delibera del 27 settembre 2018 n. 487/2018/R/EFR, indefettibilmente condizionate dalla indebita introduzione di regole puntuali da parte della Autorità ministeriale in parte qua sfornita di competenza e, specularmente, dal mancato esercizio della potestà di divisamento in materia tariffaria da parte della competente Autorità di regolazione».

È sembrato utile citare letteralmente quel passaggio motivazionale della sentenza di annullamento poiché lì si trova il riferimento al mancato esercizio dei poteri da parte dell’autorità di regolazione, che è poi invocato – come sopra ricordato – per escludere la sussistenza di un effetto conformativo derivante dal giudicato d’annullamento. Senonché in quel passaggio della sentenza, il giudice dell’annullamento concludeva non tanto nel senso di un (totale) mancato esercizio del potere, quanto piuttosto nel senso che la prerogativa regolatoria era stato esplicata prendendo le mosse da un dato erroneamente considerato immutabile; tale dato aveva poi condizionato, ineluttabilmente, la concreta applicazione della regola prevista per la determinazione del contributo tariffario, in forza della quale la copertura dei costi è effettuata, secondo modalità definite dall’autorità di regolazione, «in misura tale da riflettere l’anda­mento dei prezzi dei certificati bianchi riscontrato sul mercato organizzato, nonché registrato sugli scambi bilaterali» [35]. Pertanto, il TAR espungeva [36] dalla previsione ministeriale, che indica appunto i criteri per la determinazione del contributo tariffario, la puntuale prescrizione del suo importo massimo [37].

La portata di quanto accertato giudizialmente si coglie, forse, pienamente nel passaggio della motivazione della sentenza in cui il TAR giudica che l’autorità avrebbe dovuto «rivendicare la propria competenza» in materia esercitando, in modo libero, le proprie prerogative. Del resto, il TAR indica anche lo strumento che avrebbe consentito all’autorità di non incorrere nell’ille­gittimità accertata, vale a dire la disapplicazione della prescrizione ministeriale contestata: potere di disapplicazione che, come ampiamente illustrato in sentenza, costituisce un vero e proprio obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche [38], in ragione del principio di primazia del diritto euro-unitario, a salvaguardia del suo effetto utile [39].

Se questa ricostruzione è corretta [40] si pongono una serie di interrogativi, che vertono, in ultima analisi, sulla possibilità che la riedizione del potere prenda le mosse da un qualsivoglia vincolo (esterno), il quale, ancorché differente da quello annullato, sia comunque in grado di incidere sulle nuove scelte regolatorie.


6. Accertamento dell’illegittima conformazione del potere tariffario da parte del Ministero: totale assenza di vincolo conformativo?

Il Consiglio di Stato nella sentenza in commento condivide la conclusione cui era giunto il primo giudice adito in sede di ottemperanza, secondo cui: «[N]el caso di specie i confini dell’ambito di riesercizio del potere coincidono con la stessa ampiezza del potere attribuito, posto che il giudicato ha accertato che l’Autorità non ha proprio esercitato il proprio officium di regolazione. Lo spazio lasciato libero dal giudicato è quindi totale». Sulla base di tale presupposto, il Consiglio di Stato ha ritenuto «precluso ogni giudizio di coerenza delle determinazioni concretamente assunte rispetto al dictum giudiziale» [41].

Stabilire se tale soluzione sia condivisibile richiede, dunque, di verificare se, in relazione ai vizi accertati, il giudicato di annullamento avesse capacità conformativa, e – in caso di risposta affermativa – di quale portata; cioè, in ultimo, se sia vero che il floor dei TEE c.d. virtuali (implicitamente calcolato in forza di una previsione ministeriale non travolta dall’annullamento), costituisse realmente un dato immodificabile, da cui prendere le mosse per l’esecuzione della sentenza (questa, infatti, è l’impostazione accolta nei nuovi atti di ARERA).

Occorre, allora, riassumere l’elaborazione di dottrina e giurisprudenza sul dovere di esecuzione [42] della sentenza amministrativa (in particolare, d’annullamento) e sulla portata dei suoi effetti. Definire con esattezza la portata di tali effetti (e dunque dei vincoli che condizionano il riesercizio del potere) attiene alla necessità di garantire il contenuto di accertamento della sentenza: al fondo, pertanto, vi è la garanzia della certezza del diritto [43]. Da qui, come è ben noto, l’elaborazione delle differenti tipologie di effetti della sentenza d’annullamento: accanto all’effetto ‘caducatorio’, che dovrebbe essere naturale conseguenza di un annullamento [44], si pone altresì un effetto ‘ripristinatorio’ ed uno ‘conformativo’ [45]. Sintetizzando l’ampio dibattito che ha riguardato tale teorica, conviene focalizzare l’attenzione in particolar modo sull’ultimo dei ricordati effetti (denominato anche ‘rinnovatorio’), poiché è sulla reale portata di quest’ultimo che, nella vicenda in esame, il giudice dell’ottemperanza si concentra, salvo poi escluderne la ricorrenza nella fattispecie concreta.

La questione ha dato vita a notevoli difficoltà interpretative [46] posto che tale effetto «inciderebbe profondamente sui contenuti del dovere di esecuzione della sentenza, orientandolo sull’attività amministrativa successiva» [47].

Secondo la prevalente dottrina l’effetto conformativo «viene ricondotto alla regola affermata nella pronuncia di annullamento: l’annullamento di un provvedimento presuppone, in una logica negativa, l’accertamento di un vizio di legittimità e, perciò, in una logica positiva, l’affermazione di una regola sul corretto esercizio del potere rispetto a quella determinata situazione» [48]. L’effetto di conformazione, nei suoi termini minimi, obbliga quindi l’amministrazione a non riprodurre il medesimo vizio accertato dal giudice; ma in taluni casi tale effetto è addirittura utile ad indentificare una regola “in positivo” che l’ammi­nistrazione è tenuta ad applicare in esecuzione della sentenza: l’enunciazione di una simile regola va, comunque, sempre verificata in relazione ai tratti della fattispecie concreta [49].

La teorica dell’effetto conformativo si spiega anche in considerazione della necessità di stabilire le concrete utilità conseguibili dal ricorrente vittorioso: la diversa forza vincolante dell’effetto in questione è allora colta in relazione alla tipologia del vizio di legittimità concretamente accertato dal giudice [50]. L’at­tenzione va così focalizzata sulla definizione di “vizio” che deve assumere rilievo [51], oltre che sul contenuto della motivazione della sentenza: dalla sua lettura è, infatti, possibile desumere la regola violata [52], con la precisazione però che «la rilevanza della motivazione va coordinata con il principio generale della identificazione di limiti oggettivi del giudicato», nel senso che la “regola” (non può essere ricavata da qualsiasi affermazione del giudice, ma) «va identificata solo con quelle affermazioni che costituiscono la ragione necessaria dell’annullamento» [53].

Sembra utile ricordare anche che l’ambito di applicazione del giudizio di ottemperanza è stato progressivamente esteso, come si evince, fra l’altro, dalla regola che sancisce la nullità degli atti adottati (non solo in violazione del giudicato, ma altresì) in elusione del giudicato [54]. Sono “elusivi” quegli atti che non risultano – oggettivamente – coerenti con il dovere di lealtà dell’amministra­zione in sede di rinnovazione del procedimento [55]. Dunque, l’inesecuzione della sentenza, quale presupposto del giudizio di ottemperanza, comprende anche i casi in cui l’amministrazione riesercita il potere senza indirizzarlo realmente nel senso definito dalla sentenza [56]. È intuitivo che ammettere con ampiezza –come effettivamente è gradualmente accaduto– il rilievo di tale categoria di atti comporta, di riflesso, ridurre l’ambito di operatività dell’ordinario giudizio di impugnazione, e ciò anche «nella convinzione che il giudizio di ottemperanza costituisca strumento «di chiusura» per l’effettività del sistema processuale amministrativo» [57].

Ciò brevemente ricordato, per delineare il contenuto dell’accertamento giudiziale nella fattispecie concreta, occorre stabilire in che senso vada intesa la conclusione cui giunge la sentenza d’annullamento secondo cui l’autorità aveva, nel caso concreto, abdicato all’autonomo esercizio delle prerogative regolatorie.

In questa operazione conviene, innanzi tutto, sciogliere una ambiguità di fondo, che potrebbe essere alimentata dalla circostanza che il giudice dell’an­nullamento ha ritenuto fondati, con carattere assorbente, i motivi riguardanti l’incompetenza dell’autorità ministeriale. Questo profilo può essere analizzato da un particolare angolo di visuale, quello che concerne i limiti alla possibilità, per la parte, di graduare i motivi di ricorso e le domande nel processo amministrativo, secondo i chiarimenti forniti dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato [58].

A riguardo, il Consiglio di Stato ritiene che «in tutte le situazioni di incompetenza (…) si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus» [59]. In tal modo sono adeguatamente salvaguardate esigenze di tutela del contraddittorio rispetto all’amministrazione competente. Il che si riflette sul fenomeno denominato dell’assorbimento dei motivi, che oggi è circoscritto a specifici casi, da accertare in modo rigoroso, vale a dire «quando sussista un rapporto di stretta e chiara continenza, pregiudizialità o implicazione logica tra la censura accolta e quella non esaminata» [60]. I limiti alla tecnica dell’assorbimento sono, peraltro, argomentati facendo leva sull’ob­bligo del giudice di esaminare le censure che compongono i vizi – motivi, in modo da orientare il futuro esercizio del potere amministrativo [61].

Ciò premesso, la soluzione accolta dal Consiglio di Stato secondo cui (non avendo l’autorità di regolazione esercitato il proprio potere) lo spazio lasciato libero dal giudicato è totale, sembra supporre che la sentenza d’annullamento avesse accertato unicamente un radicale vizio dell’incompetenza dell’autorità ministeriale [62].

Senonché, esaminando con attenzione la fattispecie concreta, in relazione ai vizi – motivi prospettati dal ricorrente, ed accolti dal giudice, è per lo meno dubbio che i giudici abbiano inteso ritenere che l’autorità regolatoria non avesse del tutto esercitato il potere nel senso delineato dall’art. 34, comma 2, c.p.a. [63]. E ciò in quanto il giudice dell’annullamento ha specificamente accertato la violazione dei principi posti a presidio della indipendenza dell’autorità di regolazione da parte (anche) della stessa ARERA (oltre che dal Ministero). Del resto, rispetto al provvedimento regolatorio contestato tramite articolate censure (distintamente trattate dal giudice dell’annullamento, il che ha un significato, così come rileva anche che il decreto ministeriale fosse stato impugnato in qualità di atto presupposto), la sentenza accertava che illegittima fosse stata la scelta dell’autorità di «prendere le mosse per la successiva elaborazione delle scelte regolatorie» da un presupposto (erroneamente) considerato vincolante e immodificabile.

In questo senso, allora, la sentenza d’annullamento conclude che l’autorità ha abdicato all’esercizio dei propri poteri (con l’adozione di un provvedimento non a caso dal Giudice definito «attuativo» del decreto ministeriale), la qual cosa non coincide necessariamente con l’assunto che l’autorità non abbia del tutto esercitato il potere attribuitogli: anzi, il giudice ha accertato che l’esercizio del potere non è stato – in concreto – svolto in modo autonomo ed indipendente [64]. A riprova di ciò, si può osservare che, in sentenza, l’assorbimento degli altri vizi prospettati dalla ricorrente è stato determinato per ragioni di ordine logico-pregiudiziale (e non esclusivamente per ragioni legate all’in­competenza del Ministero [65]; del resto, nel caso concreto, non sussistono le esigenze di garanzia del contraddittorio che secondo l’Adunanza Plenaria, in caso di accertato vizio di incompetenza, comportano necessariamente l’assor­bimento degli ulteriori motivi di impugnazione [66]).

Nei limiti in cui si concordi con questa ricostruzione, non si può allora condividere, nella sua radicalità, l’assunto del Consiglio di Stato secondo cui la sentenza avrebbe accertato il (totale) mancato esercizio dei poteri da parte della competente autorità. Il che, però, ancora non consente di escludere che, effettivamente, lo spazio lasciato libero dal giudicato fosse «totale», o, ed è lo stesso, che il giudicato non imponesse «alcun vincolo conformativo». E tuttavia una simile soluzione, espressa in termini tanto risoluti, mi pare non possa trovare riscontro seguendo lo schema comunemente impiegato per spiegare la portata dell’effetto conformativo, anzitutto con riferimento al divieto di replicare i vizi accertati giudizialmente.

Si può così tentare una risposta ai quesiti sopra posti [67], e principalmente stabilire se sia compatibile col giudicato d’annullamento un vincolo ministeriale (diverso da quello annullato) che sia tale da conformare, anche indirettamente, le prerogative regolatorie.

Alla luce della teorica degli effetti dell’annullamento, mi pare che, viste le ragioni della caducazione in parte qua del d.m. del 2018, sia possibile identificare taluni vincoli per il corretto riesercizio del potere. Precisamente, in una logica negativa (coerente con la ricostruzione della portata dell’effetto conformativo), la regola da applicare al caso concreto è quella risultante dopo l’eliminazione dell’illegittimo vincolo ministeriale, regola per cui la determinazione del contributo tariffario va effettuata «in misura tale da riflettere l’anda­mento dei prezzi dei certificati bianchi riscontrato sul mercato organizzato e sugli scambi bilaterali, qualora inferiore a 250 euro, definendo un valore massimo di riconoscimento» (art. 11, comma 2, cit.); mentre, in una logica positiva, l’autorità deve applicare la predetta regola in autonomia, cioè senza prendere le mosse da vincoli predeterminati esternamente, ed erroneamente ritenuto immodificabili.

In questo senso sembra deporre, peraltro, il riferimento nella sentenza d’annullamento al dovere di disapplicazione; infatti, fermo restando che le affermazioni contenute in motivazione non sono necessariamente utili ad identificare i limiti oggettivi del giudicato, tuttavia, nel caso di specie, il riferimento al menzionato obbligo afferisce alle ragioni dell’illegittimità degli atti impugnati, che ARERA avrebbe potuto, ed anzi dovuto, evitare a salvaguardia delle prerogative in materia tariffaria (appunto, disapplicando il d.m. cit.).

Se questa ricostruzione è corretta, non sembra coerente con la statuizione del giudice dell’annullamento il presupposto da cui prendono origine le valutazioni di ARERA, in sede di riedizione del potere, vale a dire la immodificabilità del floor dei TEE virtuali, pari a 10 €/TEE, secondo una prescrizione ministeriale non annullata; in tal modo, infatti, viene sostanzialmente reiterato il vizio accertato dalla sentenza d’annullamento, vale a dire la illegittima conformazione del potere tariffario (il che va valutato anche in ragione del progressivo rilievo assunto dalla categoria degli atti elusivi).

A rigore, poi, dopo il giudicato d’annullamento, è dubbio che sia immutabile il floor dei TEE virtuali, pari a 10 €/TEE, visto che questo veniva ricavato, solo implicitamente, proprio partendo dal presupposto, oramai venuto meno, del valore dei TEE pari a euro 250 [68]; peraltro, la disciplina relativa ai TEE c.d. virtuali concerne propriamente un aspetto differente da quello della determinazione del contributo tariffario, riferendosi più che altro ad esigenze di flessibilizzazione del mercato dei certificati bianchi: anche da questa angolatura, pertanto, tale normativa non avrebbe dovuto assumere carattere decisivo.

La soluzione interpretativa prospettata sembra trovare conferma nell’esi­genza che vi sia assoluta coerenza tra motivazione e dispositivo, coerenza che assume un valore imprescindibile perché attinente al decisum [69].


7. Sviamento di potere ed elusione del giudicato d’annullamento

Al di là delle peculiarità del caso concreto, la decisione in commento fornisce l’opportunità di svolgere alcune considerazioni sui riflessi che una certa concezione della portata vincolante del giudicato d’annullamento è in grado di comportare sull’effettività della tutela giurisdizionale assicurabile; ma non solo, perché come osservato da una parte di dottrina, di cui si è dato conto, il dovere di esecuzione delle sentenze costituisce elemento essenziale del sistema di legalità che è innanzi tutto la pubblica amministrazione a dover realizzare.

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato sembra accogliere una “lettura minima” del giudicato amministrativo d’annullamento, e della portata dei suoi effetti. Si tratta di una lettura (minima) che, se può risultare confacente rispetto a ipotesi di annullamento fondate esclusivamente sull’accertamento di un radicale vizio di incompetenza (cioè nel caso in cui l’amministrazione competente non fosse stata per nulla coinvolta nell’episodio d’esercizio del potere contestato), mostra i suoi limiti in altri contesti. Come mi pare accada nel caso illustrato, in cui è difficile escludere, per lo meno nel modo radicale in cui è sostenuto dalla sentenza confermata dal Consiglio di Stato, che «solo nel caso in cui dal giudicato scaturisca un obbligo così puntuale da non lasciare margini di discrezionalità in sede di rinnovazione, l’assunzione di provvedimento in violazione di tale obbligo può essere fatta valere con il giudizio di ottemperanza o nell’ambito dello stesso» [70]. Tale soluzione, infatti, non pare del tutto coerente né con gli approdi cui si è progressivamente giunti circa la portata dell’effetto conformativo, né, probabilmente, con il dato positivo (art. 113 c.p.a.) [71].

Per altro verso, sono proprio situazioni come quella esaminata che mostrano l’esigenza di una ricostruzione rigorosa delle ragioni dell’annullamento giurisdizionale, onde delinearne gli effetti; diversamente è concreto il rischio di concludere per l’impossibilità di svolgere il giudizio “di coerenza”, che è proprio dell’ottemperanza, allorquando, in sede di riedizione del potere, l’amministra­zione adduca una qualche motivazione a supporto di un atto nuovo sì, ma con contenuto comunque sfavorevole per il ricorrente vittorioso [72]. Tale evenienza, ovviamente, non comporta necessariamente inesecuzione della sentenza, poiché, come si è già riferito, molto spesso residuano margini di discrezionalità anche dopo il giudicato d’annullamento; e, tuttavia, la corretta esecuzione della sentenza richiede di essere verificata non accontentandosi di un mero controllo circa l’avvenuto svolgimento di una (nuova) istruttoria procedimentale.

Questo aspetto attiene propriamente alla precisa identificazione delle conseguenze della statuizione del giudice; rispetto alla fattispecie concreta, le ragioni dell’annullamento riguardavano non tanto, o non solo, il mancato esercizio del potere, quanto, e soprattutto, la circostanza che il potere era stato esercitato in modo da essere conformato da vincoli (ministeriali) esterni. Il giudizio “di coerenza”, dunque, avrebbe dovuto riguardare, non solo, e non tanto, se in esecuzione della sentenza vi fosse stato lo svolgimento di un procedimento, quanto, e soprattutto, se questo procedimento fosse stato svolto in modo autonomo, dunque senza subire interferenze dall’esterno. Certamente, nella verifica del contenuto del nuovo atto, necessaria ad escluderne il carattere elusivo, non si può pretendere che il giudice dell’ottemperanza si spinga a sindacare la legittimità delle motivazioni poste a fondamento del nuovo provvedimento (poiché ciò esula dai limiti della sua funzione); tuttavia, non comporta un superamento dei limiti propri del giudizio d’ottemperanza lo stabilire quale rilevanza rivestano le ragioni addotte dall’amministrazione in sede di rinnovazione del procedimento: tale operazione, infatti, potrebbe far emergere che gli obiettivi perseguiti con la nuova scelta siano tali da integrare una sostanziale elusione del giudicato.

La fattispecie concreta sopra illustrata rende, forse, più chiaro quanto si intende sostenere: infatti, alla base della ri-conferma della previsione di un “cap” del tutto identico a quello in precedenza posto dal Ministero, l’autorità svolge considerazioni sull’esigenza di stimolare gli operatori a contenere i prezzi dei certificati bianchi, per evitare un aggravio dei costi sostenuti dai clienti finali di energia elettrica e gas. Ci si potrebbe, però, chiedere se tale motivazione possa essere considerata come sintomatica di una elusione del giudicato, nella misura in cui questa sia configurabile allorquando l’atto adottato all’esito del riesercizio del potere sia teso a perseguire un interesse pubblico diverso da quello che giustifica l’attribuzione del potere stesso [73]. E il caso concreto offre alcuni stimoli a riguardo, visto l’attuale dibattito sul corretto esercizio del potere tariffario: in tal caso, infatti, l’autorità non potrebbe limitarsi a svolgere considerazioni inerenti all’interesse pubblico alla riduzione dei costi del servizio, sottraendosi all’onere di individuare con precisione i costi efficienti degli operatori, da riconoscere obbligatoriamente in tariffa [74].

La criticità del tema si coglie considerando due aspetti: in primo luogo, che la disciplina del potere tariffario in questione è di derivazione comunitaria e prevede che i costi sostenuti per l’assolvimento degli obblighi in materia di efficientamento possano essere recuperati, riconoscendoli in tariffa (anche traslandoli in capo agli utenti finali del servizio); in secondo luogo, che, secondo l’Adunanza Plenaria, il giudizio di ottemperanza «rappresenta un’opportunità offerta dal sistema processuale per evitare che dal giudicato possano trarsi conseguenze anticomunitarie» [75].

Rispetto ai problematici rilievi appena prospettati [76], vi è, al fondo, la questione della portata dell’onere, per il giudice dell’ottemperanza, di valutare le motivazioni addotte a fondamento del nuovo provvedimento: le nuove valutazioni dovrebbe porsi, propriamente, come motivazione della soluzione accolta, e non invece essere evocate in una prospettiva di mera “giustificazione” di conclusioni da altro condizionate [77]. In questo senso non può risultare pienamente appagante un mero riferimento all’avvenuto svolgimento di un’istruttoria procedimentale nell’ambito della rinnovazione del procedimento [78].


NOTE

[1] TAR Lombardia, Milano, sez. I, 28 novembre 2019, n. 2538.

[2] TAR Lombardia, Milano, sez. I, 18 febbraio 2021, n. 438.

[3] La letteratura in tema è ovviamente molto ampia; per un inquadramento delle principali problematiche cfr. F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. dir., XVIII, 1968, p. 893 ss.; R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Giuffrè, Milano, 1971; e con particolare riferimento agli effetti delle sentenze amministrative M. Nigro, L’appello nel processo amministrativo, Giuffrè, Milano, 1960, p. 436 ss., nonché dello stesso A., Giustizia amministrativa, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 297 ss.

[4] Nel senso che «quelli che comunemente sono considerati come contenuti propri del dovere di esecuzione della sentenza amministrativa (di annullamento) sono in realtà riconducibili alla vicenda e alla ragione dell’annullamento in quanto tale, indipendentemente dalla sua riconduzione a una sentenza, o a una decisione di un ricorso amministrativo, o a un mero provvedimento»; pertanto, la soluzione dei problemi «non va ricercata nel diritto processuale, ma va ricercata tipicamente nel diritto sostanziale» (A. Travi, L’esecuzione della sentenza, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, t. V, Giuffrè, Milano, 2003, in partic. p. 4615 ss.). Sul dovere di esecuzione delle sentenze amministrative e le relative criticità cfr. altresì B. Marchetti; L’esecuzione della sentenza amministrativa prima del giudicato, Cedam, Padova, 2000, p. 81 ss.

[5] B. Sassani, Relazione al convegno su «cosa giudicata e processo amministrativo» (Giornate di studio sulla giustizia amministrativa dedicate a Eugenio Cannada-Bartoli), in Giust. amm., 2008, allegato n. 1, in part. p. 55.

[6] C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, Cedam, 2005, p. 49; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Giuffrè, Milano, p. 189 ss.; S. Menchini, Il giudicato civile, Utet, Torino, 2002, p. 67 ss. La questione dell’oggetto del giudizio amministrativo incide inevitabilmente sulla questione del modello di giudizio configurabile (sul­l’atto o sul rapporto) e quindi, in ultimo, sui caratteri della relazione giuridica intercorrente tra la pubblica amministrazione ed i soggetti che con essa entrano in rapporto (cfr. B. Sassani, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva, Giuffrè, Milano, 1997; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Giuffrè, Milano, 2003; G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione e ottemperanza, Editoriale scientifica, Napoli, 2013).

[7] Per alcuni spunti utili a ricostruire il significato di detta regola nel processo amministrativo cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, in Foro it., 2014, III, p. 712, con nota di A. Travi. Per una analisi critica dell’operatività della regola del “dedotto” e “deducibile” nel processo amministrativo, cfr. A. Travi, Il giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, p. 928; A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in Giust. amm., 2008, allegato n. 1, in part. p. 64 ss.; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 202 ss. si veda altresì S. Menchini, Potere sostanziale e sistema delle tutele, in C. Cudia (a cura di), L’oggetto del giudizio visto dal basso, Giappichelli, Torino, 2020, p. 247.

[8] Cfr. M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Cedam, Padova, 1989; M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Giappichelli, Torino, 1995.

[9] Natura del giudizio che sarebbe principalmente di cognizione ed eventualmente di esecuzione; a riguardo cfr. AA.VV., Il giudizio di ottemperanza, Giuffrè, Milano, 1983, ed ivi in particolare i contributi di M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, p. 63, F. Piga, L’ottemperanza: giudizio di cognizione o esecuzione, p. 137 ss., C. Calabrò, L’ottemperanza come prosecuzione del «giudizio amministrativo», p. 159 ss.; per l’analisi critica di questa impostazione, cfr. A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4646.

[10] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11, in Foro it., 2017, III, p. 186, con nota di S. Vaccari, Ius superveniens e giudicato a formazione progressiva, p. 204. Si veda altresì S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 179, in part. nota 58; F. Satta, Brevi note sul giudicato amministrativo, in Giust. amm., 2008, allegato n. 1, in part. p. 60.

[11] Per l’inquadramento del problema, cfr. M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Editoriale scientifica, Napoli, 2018.

[12] Così A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4607; sulle esigenze di giustizia e stabilità garantite dal giudicato amministrativo, cfr. S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 21 ss. Del resto, il diritto all’esecuzione della sentenza di una decisione giudiziaria costituisce uno degli aspetti del diritto al processo di cui all’art. 6 Cedu (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. I, 5 ottobre 2017, n. 32269, in Dir. proc. amm., 2019, p. 553).

[13] Tant’è che in una diversa prospettiva, ferma restando la centralità del momento dell’ac­certamento, si è affermato, con maggiore precisione, che l’accertamento riguarderebbe, innanzi tutto, la lesione della posizione giuridica del ricorrente. Per questi profili cfr. A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 926; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 158 e p. 189 ss.

[14] Occorre anche precisare che gli effetti di cui si discute non costituiscono effetti specifici solo di un atto giurisdizionale in quanto tale, ma sono piuttosto effetti dell’annullamento (che dunque potrebbe essere disposto anche in seguito all’accoglimento di un ricorso amministrativo), poiché sono conseguenza dell’accertamento dell’illegittimità di un atto amministrativo (A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4617).

[15] A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 923, in part. 32. Sulla necessità dell’analisi della vicenda specifica, in relazione a quanto accertato in concreto, in sede di esecuzione della sentenza, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 2/2013 cit.

[16] Occorre segnalare che la formulazione originaria del primo periodo dell’art. 11, comma 2, d.m. del 2017 conteneva una previsione sostanzialmente analoga a quella risultante dopo le modifiche del 2018, e ciò sia quanto ai parametri per la determinazione del contributo tariffario, sia quanto alla individuazione di un valore massimo di riconoscimento del contributo, sempre di competenza di ARERA (infatti, era sancito che: «La copertura dei costi, per ciascuna delle due sessioni di trasmissione di cui all’art. 14, comma 1, è effettuata secondo criteri e modalità definiti dall’AEEGSI, in misura tale da riflettere l’andamento del prezzo dei Certificati Bianchi riscontrato sul mercato, tenendo eventualmente conto dei prezzi riscontrati nell’ambito della libera contrattazione tra le parti, e con la definizione di un valore massimo di riconoscimento».

[17] Il d.m. in esame precisava anche che, in ogni caso, il costo dei TEE virtuali non può eccedere i 15 euro.

[18] Infatti, l’art. 14-bis cit. non era stato oggetto di impugnazione.

[19] Ai fini delle riflessioni che verranno qui proposte occorre tenere a mente due aspetti. Il primo riguarda il fatto che, secondo le riflessioni svolte da ARERA in sede di esecuzione del giudicato d’annullamento, visto che il valore massimo del contributo tariffario è pari a 250 €/TEE, i TEE “virtuali” non possono assumere valori inferiori a 10 €/TEE: si tratta, quindi, per espressa considerazione dell’autorità di regolazione, di un valore ricavato «implicitamente». Il secondo aspetto concerne la circostanza che solo nel 2021 il Ministero è intervenuto a porre –esplicitamente– un costo minimo (o floor) dei TEE virtuali, pari a 10 €/TEE, e ciò tramite modifica dell’art. 14-bis cit. Veniva conservato, peraltro, il tetto massimo di 15 €/TEE (cfr. art. 17, d.m. 21 maggio 2021, recante «Determinazione degli obiettivi quantitativi nazionali di risparmio energetico che possono essere perseguiti dalle imprese di distribuzione dell’energia elettrica e del gas per gli anni 2021-2024 (cd. certificati bianchi)»).

[20] Poiché le nuove prescrizioni in materia sarebbero state operative solo a decorre dal 1° giugno 2018, venivano altresì introdotte specifiche disposizioni transitorie valevoli per i primi sei mesi del 2018, per effetto delle quali ARERA provvedeva a fissare un contributo tariffario che veniva poi effettivamente erogato agli aventi diritto, secondo quanto stabilito dalla determinazione dirigenziale di ARERA del luglio 2019.

[21] TAR Lombardia, n. 2538/2019 cit.

[22] La procedura, avviata con deliberazione con deliberazione 10 dicembre 2019, n. 529/2019/R/efr, si è conclusa con la deliberazione 14 luglio 2020, n. 270/2020/R/efr, previsa predisposizione di apposito Documento di consultazione del 20 febbraio 2020, n. 47/2020/efr.

Per le considerazioni che verranno svolte di seguito, va tenuto conto che, secondo ARERA, l’annullamento in parte qua del d.m. del 2018 e dei conseguenti atti regolatori, determinava altresì, per invalidità derivata, la caducazione della determinazione dirigenziale del luglio 2019, già ricordata (cfr. precedente nota n. 20), per effetto della quale era stato poi effettivamente erogato il contributo tariffario per la parte dell’anno 2018 interessata dall’applicazione della deliberazione n. 487 annullata.

[23] Così Documento per la Consultazione n. 47/2020/R/efr, cit., p. 12.

[24] ARERA riteneva altresì di dover confermare il contributo già erogato nell’ambito del regime transitorio per l’anno 2018, e suo tempo stabilito secondo i criteri previsti dalla deliberazione n. 487 cit., con la determina dirigenziale del luglio 2019, poi caducata per illegittimità derivata (cfr. precedenti note nn. 20 e 22). Va sottolineata la motivazione di tale conferma, che avveniva in considerazione del fatto che «l’erogazione di eventuali conguagli ex post sull’anno d’obbligo già concluso non stimolerebbe il comportamento efficiente degli operatori né limiterebbe il ricorso ai TEE “virtuali”, costituendo invece (verosimilmente) solo un maggior onere per la collettività».

[25] TAR Lombardia, n. 438/2021, cit., paragrafo 7.

[26] In particolare, ai fini delle presenti note, maggiormente rileva la contestazione rivolta all’art. 1, comma 1, lett. f), del d.m. 10 maggio 2018, che andava a sostituire l’art. 11, comma 2, del d.m. 11 gennaio 2017.

[27] In particolare, in quanto la fissazione del menzionato tetto massimo al contributo tariffario per la copertura degli oneri in questione violerebbe il principio di full cost recovery. Su tale principio, e sulla sua rilevanza in materia tariffaria, anche tenuto contro delle ambiguità di fondo riscontro nella normativa di riferimento, circa l’esigenza, o meno, di garantire (solo) l’efficienza e insieme la redditività delle gestioni, e pertanto essenzialmente diretta a identificare i costi efficienti degli operatori mediante accertamenti e valutazioni di ordine economico, cfr. E. Bruti Liberati, Regolazione tariffaria incentivante e full cost recovery: il Consiglio di Stato pone un limite chiaro al potere delle autorità indipendenti, in Foro it., 2021, III, p. 653.

[28] Il TAR ricostruisce, in particolare, la normativa nazionale di riferimento, la quale si rinviene nel d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79 (art. 9); il quadro positivo è stato successivamente delineato anche in forza del d.lgs. 30 maggio 2008, n. 115 (art. 7); d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28 (art. 29); d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102.

[29] Legge 14 novembre 1995, n. 481 (art. 1, comma 1; art. 2, comma 12, lett. e); Direttiva 2009/72/CE (art. 35) e Direttiva 2009/73/CE (art. 39).

[30] Ivi compresi «i contributi da riconoscere ai distributori – all’uopo valorizzandoli e traslandoli nelle tariffe da praticare alla utenza – per l’assolvimento dell’obbligo di acquisto dei certificati bianchi che su di loro normativamente grava». Il TAR richiama espressamente le direttive europee nn. 72 e 73 del 2009, rispettivamente riferite al settore dell’energia elettrica e del gas naturale, laddove queste attribuiscono alle autorità di regolazione il compito di fissare le «metodologie di calcolo» delle tariffe (art. 37, par. 1, lett. a), Direttiva n. 72/2009, e art. 41, par. 1, lett. a), Direttiva n. 73/2009).

[31] In particolare, «in misura tale da riflettere l’andamento del prezzo dei Certificati Bianchi riscontrato sul mercato, tenendo eventualmente conto dei prezzi riscontrati nell’ambito della libera contrattazione tra le parti, e con la definizione di un valore massimo di riconoscimento» (art. 11, comma 2, d.m. 11 gennaio 2017, nella versione antecedente alle modifiche apportate dal d.m. del 2018).

[32] Cfr. primo periodo dell’art. 11, comma 2, d.m. del 2017 cit.

[33] Questo profilo è decisivo nell’iter argomentativo del TAR, secondo cui, infatti, lo stesso d.m. del 2018, con il primo periodo dell’art. 11, comma 2 del d.m. del 2017, ha ribadito l’esclu­siva competenza dell’autorità di regolazione in tema di determinazione del quantum dei contributi, «rimarcando la necessità (nell’an) di fissare un “valore massimo di riconoscimento” (…) senza tuttavia giammai incidere, nemmeno in via mediata o indiretta, sul quantum ovvero sui criteri di determinazione del quantum, irrefragabilmente rimessi alle autonome scelte e valutazioni tecniche della Autorità indipendente di regolazione» (TAR Lombardia n. 2538/2019, cit., paragrafo 3.5.1.).

[34] Il corsivo è nel testo della motivazione della sentenza del TAR Lombardia n. 2538/2019, cit., paragrafo 3.5.2.

[35] Art. 11, comma 2, primo periodo, d.m. cit.

[36] Per effetto dell’annullamento dell’art. 1, comma 1, lett. f), d.m. del 2018.

[37] Sembra, quindi, possibile dedurre che il Giudice ha accertato l’illegittimità della scelta regolatoria compiuta da ARERA allorquando questa ha identificato la misura del contributo tariffario, non già attraverso l’applicazione dei parametri previsti (andamento dei prezzi dei certificati bianchi riscontrato sul mercato organizzato nonché registrato sugli scambi bilaterali), bensì in forza di un dato vincolante direttamente imposto dal Ministero (valore massimo del contributo).

[38] In particolare, il TAR aveva cura di puntualizzare che «la contrarietà della citata disposizione ministeriale alle prescrizioni primarie e sovranazionali, in quanto incidente in un campo riservato alla Autorità indipendente di regolazione, ben avrebbe legittimato ARERA a rivendicare la propria esclusiva sfera di competenza in materia tariffaria, provvedendo a dispiegare in piena autonomia le prerogative ed i munera regolatori che le pertengono, al di là ed a prescindere dalla regola ministeriale (relativa all’importo massimo di € 250,00) che per ARERA non avrebbe dovuto assumere significanza precettiva o vincolante»; inoltre, la illegittimità della prescrizione ministeriale avrebbe legittimato l’autorità di regolazione a «non applicare detta prescrizione ministeriale relativa al “cap”, ovvero in ogni caso non assumerla quale dato vincolante ed immodificabile, provvedendo a determinare i criteri di determinazione del contributo e foggiando in piena autonomia i relativi criteri di calcolo ed il “valore massimo di riconoscimento».

[39] Per un inquadramento del principio in questione, cfr. S. Cassese, Il diritto comunitario della concorrenza prevale sul diritto amministrativo nazionale, in Giorn. dir. amm., 2013, p. 1132 ss.; M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2011, p. 121; S. Civitarese Matteucci-G. Gardini, Il primato del diritto comunitario e l’autonomia processuale degli Stati membri: alla ricerca di un equilibrio sostenibile, in Dir. pubbl., 2013, p. 1.

[40] Quella secondo cui, onde evitare l’illegittimità, l’autorità di regolazione avrebbe dovuto applicare autonomamente l’art. 11, comma 2, cit. (secondo i citati parametri), tramite il doveroso esercizio del potere di disapplicazione della prescrizione ministeriale, che –illegittimamente– aveva “conformato” la potestas regolatoria in questione.

[41] Sui caratteri del giudizio di «coerenza» in questione, cfr. S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 187.

[42] Cfr. art. 88, comma 1, c.p.a.; analogo dovere di esecuzione della sentenza grava, in realtà, anche sulle altre parti ex art. 112, comma 1, c.p.a. Sui particolari tratti dell’obbligo di esecuzione in questione, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 2/2013 cit.; nonché B. Marchetti; L’esecu­zione della sentenza amministrativa prima del giudicato, cit., p. 238.

[43] Tracciare la portata di tali effetti consente di identificare le statuizioni che acquistano valore di giudicato sostanziale, peraltro con le conseguenze prevista dall’art. 2909 c.c.; per un inquadramento della disposizione e delle sue principali tematiche si veda il commento a tale norma di S. Menchini-A Motto, in G. Bonilini-A. Chizzini, Commentario del Codice Civile, Utet, Torino, p. 21 ss.

[44] Tema che in questa sede non occorre approfondire, poiché non pertinente rispetto alle riflessioni che la sentenza in epigrafe consente di svolgere, è quello che riguarda la possibilità di graduare gli effetti della sentenza di accoglimento del ricorso giurisdizionale e, dunque, anche della possibilità che all’accertamento dell’illegittimità del provvedimento impugnato non faccia necessariamente seguito anche la sua caducazione.

[45] La compiuta elaborazione di tali tipologie di effetti si deve all’opera di M. Nigro (in part. cfr. Giustizia amministrativa, cit., p. 301; L’appello nel processo amministrativo, cit., p. 431 ss.).

[46] Occorre inoltre precisare che il vincolo conformativo si fonda «non su un contenuto specifico della pronuncia giurisdizionale, ma su un dovere istituzionale dell’amministrazione di ottemperare al giudicato», con la conseguenza che la sua portata concreta «normalmente è integrata da altri doveri o obblighi che gravano sull’amministrazione in forza di norme di diritto sostanziale, come quelle che sanciscono il dovere di provvedere in una certa situazione» (A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 913, in part. nota 2). Si veda altresì S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 152.

[47] A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4614. Si veda altresì C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, cit., p. 296 ss.

[48] A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4624. Si veda altresì B. Marchetti; L’ese­cuzione della sentenza amministrativa prima del giudicato, cit., p. 104; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 206.

[49] Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 20 novembre 2017 n. 5339. Comunemente si afferma che i fattori in grado di delineare la portata degli effetti dell’annullamento sono, da considerare in modo reciprocamente condizionante, la natura del vizio accertato giudizialmente, la natura del potere in concreto esercitato, o da esercitare, da parte dell’Amministrazione, il contenuto della motivazione della sentenza d’annullamento.

[50] Difatti, comunemente si afferma, anche se con una certa approssimazione, che all’accer­tamento di un vizio di legittimità sostanziale conseguirebbe una maggiore utilità (un più puntuale vantaggio) per il ricorrente vittorioso, poiché l’amministrazione non potrebbe, in sede di rinnovazione del procedimento, adottare un provvedimento col medesimo contenuto di quello precedente, ed annullato.

[51] Le soluzioni non possono che essere articolate, dovendosi cioè tenere in debito conto le caratteristiche del vizio accertato in relazione ai suoi elementi costitutivi (A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 923, in part. nota 32. Si veda altresì S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 209 ss. e in part. p. 227).

[52] Che contenuti e limiti dell’effetto conformativo della sentenza amministrativa debbano trarsi dalla motivazione posta a corredo della stessa è affermazione frequente in giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 28 gennaio 2022, n. 4604; Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4604; Sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5513). Tale impostazione è coerente con l’opinione secondo cui per la identificazione degli effetti dell’annullamento giurisdizionale è necessario riferirsi al dispositivo c.d. sostanziale, frutto cioè della lettura congiunta di motivazione e dispositivo (F. Patroni Griffi, La sentenza amministrativa, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, cit., p. 4485); sul rilevo della motivazione della sentenza, cfr. altresì S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 232 ss.

[53] A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4635.

[54] Cfr. combinato disposto art. 21-speties, legge 7 agosto 1990, n. 241, e art. 114, comma 4, c.p.a. A riguardo cfr. R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 2017, p. 424 ss.

[55] La giurisprudenza ha tracciato la differenza tra violazione di giudicato ed elusione di quest’ultimo: più precisamente, la violazione del giudicato è configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale o quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla decisione del giudice; mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale e in tal modo giunge surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo; sulla elusione del giudicato, da valutare anche in relazione ai doveri di lealtà della pubblica amministrativa, cfr. Cons. Stato, sez. V, 18 agosto 2021, n.5917; Cons. Stato, sez. III, 21 settembre 2021, n. 6422; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11 novembre 2021, n. 2511; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 2 agosto 2021, n. 1876; Cons. Stato, sez. V, 30 ottobre 2018, n. 6175; Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2015, n. 3713; Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5513; Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1415; Con. Stato, sez. IV, 27 maggio 2010, n. 3382; Cons. Stato, sez. V, 13 marzo 2000, n. 1328.

[56] Oltre naturalmente ai casi, più evidenti, in cui sia stato riprodotto il vizio già accertato in sentenza, o addirittura l’amministrazione pubblica sia stata inerte rispetto al dovere di esecuzione.

[57] A. Travi, L’esecuzione della sentenza, cit., p. 4638.

[58] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 aprile 2015, n. 5, in Foro it., 2015, III, p. 265, con nota di A. Travi. In tema cfr. P. Cerbo, L’ordine di esame dei motivi di ricorso nel processo amministrativo, Libellula edizioni, Tricase, 2012, in part. p. 19 ss.; per un’analisi critica della citata decisione dell’Adunanza Plenaria citata, cfr. S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 199.

[59] Infatti, secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato cit. «nel disegno del codice tale tipologia di vizi è talmente radicale e assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte». L’Adunanza Plenaria, dunque, conferma l’orientamento tradizionale secondo cui «b) se il potere è stato esercitato da un’autorità incompetente, il giudice sul piano logico non può fare altro che rilevare il vizio di incompetenza, ma non può dettare le regole dell’azione amministrativa, posto che l’azione amministrativa non è ancora stata esercitata dall’organo preposto; c) l’accoglimento del ricorso giurisdizionale per la riconosciuta sussistenza del vizio di incompetenza comporta l’assorbimento degli ulteriori motivi di impugnazione, in quanto la valutazione del merito della controversia si risolverebbe in un giudizio meramente ipotetico sull’ulteriore attività amministrativa dell’organo competente, cui spetta l’effettiva valutazione della vicenda e che potrebbe emanare, o non, l’atto in questione e comunque, provvedere con un contenuto diverso» (sent. n. 5/2015).

[60] Così Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5/2015 cit. Il fenomeno dell’assorbimento dei motivi, come è noto, inizialmente riconducibile ad una prassi giurisprudenziale, è stato oggetto di serrate critiche (tant’è che precisi limiti alla tecnica dell’assorbimento trovano oggi un puntuale fondamento normativo ad es. nell’art. 120, comma 6, c.p.a.). Per un inquadramento del tema, cfr. F. Patroni Griffi, La sentenza amministrativa, cit., p. 4472.

[61] Secondo l’Adunanza Plenaria (n. 5/2015 cit.) le principali critiche rivolte alla tecnica dell’assorbimento vertevano introno alla circostanza che, spesso, tale prassi è stata utilizzata in modo tale da condurre alla pronuncia di sentenze di annullamento per vizi di mera forma che lasciavano, invece, impregiudicate le questioni d’ordine sostanziale; con la discutibile conseguenza che l’assorbimento di alcune censure riduceva il c.d. effetto conformativo della sentenza e l’effettività del giudizio di ottemperanza.

[62] Accertamento tale da giustificare l’assorbimento, previsto dalla legge proprio in casi così radicali, di tutte le altre censure. Infatti, seguendo la impostazione dell’Adunanza Plenaria (n. 5/2015 cit.) i limitati casi in cui la tecnica dell’assorbimento sono quelli riconducibili: alla legge; a evidenti e ineludibili ragioni di ordine logico-giuridico; a ragioni di economia processuale, se comunque non risulti lesa l’effettività della tutela dell’interesse legittimo e della funzione pubblica.

[63] L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 5/2015 cit. rileva che, dopo l’entrata in vigore del c.p.a., risulta ampliato il novero dei vizi che impediscono alla parte di graduare i motivi di ricorso, e ciò anche in ragione dell’art. 34, comma 2, c.p.a, in forza del quale in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati: situazione che si riscontra, fra l’altro, nel «caso classico» del provvedimento reso da un’autorità diversa da quella legalmente competente.

Si può dubitare comunque che dall’art. 34 cit. derivino conseguenze restrittive in ordine agli effetti (anche conformativi) della sentenza d’annullamento (sul punto cfr. P. Cerbo, Il limite dei poteri amministrativi non ancora esercitati: una riserva di procedimento amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2020, in part. p. 96 e p. 110).

[64] Se questa ricostruzione è corretta, non risulta pertinente il richiamo del primo giudice dell’ottemperanza (TAR Lombardia n. 438/2021) alla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 11/2016 cit., che si riferiva, specificamente, ad una ipotesi in cui si contestava il mancato esercizio del potere (in particolare, quel contezioso – come osservava la stessa Adunanza Plenaria – si riferiva ad un giudizio contro il silenzio inadempimento maturato, fra l’altro, nell’ambito di un procedimento connotato dall’esistenza di ampi profili di discrezionalità amministrativa: cfr. punto n. 42 sent. n. 11/2016 cit.).

[65] La precisazione sembra significativa alla luce della distinzione fornita dall’Adunanza Plenaria (n. 5/2015 cit.) secondo cui la tecnica dell’assorbimento è possibile in circoscritti casi, fra cui quelli previsti dalla legge (oggi ex art. 34, comma 2, cit., e in precedenza ex art. 26, legge TAR), o, per l’appunto, nell’ipotesi di evidenti e ineludibili ragioni di ordine logico-giuridico.

[66] Nella fattispecie concreta, infatti, l’autorità di regolazione ha effettivamente preso parte al giudizio, sicché non potrebbe dirsi che la regola di condotta giudiziale si sarebbe formata senza la partecipazione dell’autorità competente al giudizio.

[67] Cfr. infra paragrafo n. 5.

[68] Dunque, anche sotto un diverso punto di vista, dopo il giudicato d’annullamento, non sembra corretto considerare un dato, di per sé, immodificabile, da cui prendere le mosse, quello del costo minimo dei TEE virtuali; infatti, una volta annullata la prescrizione ministeriale che prevedeva il valore massimo pari a euro 250 per TEE, quest’ultimo valore, di per sé, non è più utilizzabile neppure per il calcolo dei TEE c.d. virtuali, visto che il loro valore è dato dalla «differenza tra 260 euro e il valore del contributo tariffario», la cui definizione spetta però all’autorità di regolazione (art. 14-bis cit. introdotto dal d.m. del 2018). Del resto, il floor pari a 10 euro per i TEE virtuali era ricavato solo «implicitamente» (per espressa affermazione dell’autorità), tramite il valore massimo imposto dal Ministero (poi annullato). Ma allora, venendo meno, per effetto del giudicato, tale valore massimo, giocoforza, non è immodificabile il floor di 10 euro, e ciò proprio in ragione del meccanismo di calcolo previsto dall’art. 14-bis cit., ed a prescindere dal fatto che il giudicato di annullamento non abbia riguardato anche tale prescrizione ministeriale. Per di più, solo nel 2021, il Ministero ha espressamente previsto che il costo minimo dei TEE virtuali dovesse essere pari a euro 10, sicché, rispetto al nostro caso, in sede di ottemperanza del giudicato, tale importo non doveva (necessariamente) trovare spazio neppure in forza di principi in tema di ius superveniens.

[69] Sul «valore assoluto» della coerenza tra dispositivo e motivazione, con conseguente forte riduzione degli spazi per obiter dicta, cfr. F. Patroni Griffi, La sentenza amministrativa, cit., p. 4480. Su di un piano ancora differente si pone sia la regola del “dedotto” e del “deducibili” (regola comunque controversa nel processo amministrativo), sia il tema degli accertamenti c.d. incidentali (sul punto, oltre la dottrina già richiamata nelle premesse, cfr. S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, cit., p. 229, in part. nota 141).

[70] TAR Lombardia, n. 438/2021, cit. Così facendo, però, la sentenza sembra richiamare unicamente le ipotesi di violazione di giudicato, e non anche quelle di elusione, su cui cfr. la già citata giurisprudenza, e in particolare modo Cons. Stato, sez. V, n. 5917/2021; Cons. Stato, sez. Iii, n. 6422/2021; TAR Lombardia, sez. II, n. 2511/2021.

[71] Visto il riferimento dell’art. 113 c.p.a. al «contenuto dispositivo e conformativo» del provvedimento del giudice, rispetto al quale si può azionare il giudizio d’ottemperanza. Del resto, la pubblicazione amministrazione, nell’adeguarsi alla sentenza, deve tener presente, al di là del dispositivo, quella parte precettiva, volta ad orientare l’ulteriore attività amministrativa, contenuta in motivazione (F. Patroni Griffi, La sentenza amministrativa, cit., p. 4476). Pertanto, nei limiti in cui si condivida la tesi qui proposta, secondo cui la verifica della condivisibilità della soluzione accolta dal Consiglio di Stato in epigrafe può essere svolta alla luce degli approdi cui si è progressivamente giunti circa la portata dell’effetto conformativo, non sembra che la fattispecie potesse essere diversamente inquadrata tramite l’applicazione di altri istituti, in particolare ricorrendo all’applicazione della regola per cui il giudicato copre il “dedotto” e il “deducibile”, e ciò anche in ragione dei dubbi, variamente espressi dalla dottrina richiamata in premessa, sul reale ambito di operatività di tale regola nel processo amministrativo.

[72] Il che è evidente nel caso concreto, in cui vi è stata la sostanziale conferma della “regola” originaria (valore massimo del “cap” pari a 250 euro), già ritenuta illegittima dal giudice.

[73] Tale conclusione andrebbe confrontata con l’orientamento secondo cui l’elusione va esclusa (solo) quando la sentenza comporti margini liberi di discrezionalità, in relazione ai quali l’amministrazione può stabilire nuovamente l’assetto di interessi «che più ritiene congruo per l’interesse pubblico affidato alle sue cure» (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 2 agosto 2021, n. 1876; in senso analogo cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 novembre 2018 n. 6764; Cons. Stato, sez. VI, 12 luglio 2019 n. 4917).

[74] Il tema può essere qui solo accennato, rinviando per approfondimenti a E. Bruti Liberati, La regolazione indipendente dei mercati. Tecnica, politica e democrazia, Giappichelli, Torino, 2019, p. 164 ss.

[75] Cons. Stato, Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11, punto n. 58; inoltre, secondo l’Ad. plen. la preminente esigenza di conformità al diritto comunitario rileva (anche) in sede di ottemperanza, essendo dovere del giudice di delineare la portata dispositiva e conformativa della sentenza evitando di desumere da esse regole contrastanti con il diritto comunitario. Per chiarire quanto si vuole dire torna utile il puntuale riferimento alla fattispecie concreta, sopra illustrata; infatti, ai fini dell’esecuzione del giudicato, ci si potrebbe chiedere se il giudice fosse tenuto a stabilire la correttezza, o meno, delle valutazioni concernenti l’esigenza di riconfermare il “cap” di 250 €/TEE in vista di benefici auspicabili per il cliente finale. Il giudizio su tale profilo, infatti, richiederebbe, almeno, di stabilire se la disciplina in materia di contributo tariffario da riconoscere ai sensi della legge di riferimento abbia, o meno, a proprio fondamento tale scopo; o, comunque, se la scelta regolatoria debba (principalmente) uniformarsi al principio di full cost recovery. Senonché questo è profilo sul quale, nel nostro caso, il giudice non si è pronunciato, sicché potrebbe dubitarsi che rilevi ai fini dell’ottemperanza.

[76] Con riferimento al caso deciso dalla pronuncia in epigrafe, la rilevanza dell’interrogativo posto si collega al rischio di uno “scivolamento” verso scelte non sindacabili in sede di ottemperanza di qualsivoglia valutazione, per il solo fatto che sia stata preceduta da un’istruttoria, ma senza che sia verificato dal giudice il rispetto (che non sia solo apparente) dei parametri per un legittimo esercizio del potere. Come già illustrato, secondo la sentenza di annullamento, nella nuova formulazione dell’art. 11, comma 2, d.m. del 2017, dopo le modifiche apportate nel 2018, solo in modo «apparente» vi era stato il rispetto dell’autonomia regolatoria, sostanzialmente sconfessata dalla previsione del più volte ricordato vincolo ministeriale.

[77] Esemplificativo del criticabile schema di valutazione seguito dal giudice dell’ottemperanza (per escludere la possibilità di un giudizio di “coerenza”) è la circostanza che nel caso concreto sia stata, sostanzialmente, considerata non indice di elusione la “motivazione” addotta dall’autorità per ri-confermare il “cap” di 250 euro anche rispetto al regime transitorio previsto per i primi mesi dell’annualità 2018 (cfr. precedenti note nn. 20 22, e 24). In tal caso la motivazione di ARERA faceva leva sull’argomento per cui «l’erogazione di eventuali conguagli ex post sull’anno d’obbligo già concluso non stimolerebbe il comportamento efficiente degli operatori né limiterebbe il ricorso ai TEE “virtuali”, costituendo invece (verosimilmente) solo un maggior onere per la collettività»: senonché l’opportunità di evitare “conguagli” sembra fuoriuscire dalle valutazioni che l’autorità avrebbe dovuto compiere in esecuzione delle statuizioni del giudice (peraltro, la determinazione che aveva fissato per l’anno 2018 il valore massimo del contributo era stata caducata per illegittimità derivata; anche sotto questo profilo la ri-conferma del “cap”, con l’espresso scopo di evitare conguagli, appare singolare, nel senso che, forse, non è del tutto coerente neppure con la reale portata dell’effetto ripristinatorio ricavabile dall’annullamento giurisdizionale).

[78] Ad esempio, nel caso esaminato, il Consiglio di Stato si limita a dare atto che l’autorità ha «autonomamente scelto, sulla base di apposita istruttoria, di confermare per il 2018 il valore tariffario di euro 250 a TEE. Altrettanto dicasi in ordine alla quantificazione del cap per l’anno 2019». Nelle presenti note si intende, invece, sostenere che il requisito dell’autonomia avrebbe dovuto essere verificato in concreto, in relazione alle reali ragioni dell’annullamento giurisdizionali.

Fascicolo 1 - 2022