Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Le politiche di decarbonizzazione statunitensi tra il Green New Deal e la giurisprudenza della Corte Suprema (di Barbara Marchetti, Professoressa di diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Trento)


L'articolo ha la finalità di esaminare il Green New Deal statunitense, anche al fine di confrontare le strategie europea e americana per la de-carbonizzazione del sistema economico. Dopo aver illustrato i contenuti del Green deal presentato dai democratici al Congresso e aver dato conto delle difficoltà attuative, lo scritto si sofferma sulle principali misure adottate nell'Inflation Redaction Act dell'agosto del 2022 per la transizione ecologica e dà brevemente conto della giurisprudenza della Corte Suprema nel caso West Virginia v. EPA che ha fortemente ridimensionato l'azione dell’agenzia per la protezione dell’ambiente di fissazione degli standard ambientali.

Decarbonization strategies in the United States between the Green New Deal and the Supreme Court caselaw

The article analyzes the U.S. Green New Deal and compares the de-carbonization strategies employed by both European and American economies. It begins by providing an overview of the key components of the U.S. Green New Deal and discusses the challenges encountered during its implementation. Furthermore, it highlights the significant measures introduced in the 2022 Inflation Redaction Act to facilitate the ecological transition. Additionally, the paper briefly examines the Supreme Court's ruling in West Virginia v. EPA, which had a substantial impact on the Environmental Protection Agency’s authority to establish environmental standards.

SOMMARIO:

1. Introduzione: le politiche di decarbonizzazione promosse dal Green New Deal americano - 2. Il Congresso e le politiche di decarbonizzazione - 3. Segue: l’Inflation Reduction Act - 4. L’EPA e la lotta al climate change - 4.1. Segue: l’azione dell’EPA nell’era Obama: la Clean Power Plan Rule - 4.2. La reviviscenza del CCP e la sentenza della Corte Suprema West Virginia v. EPA - 5. Gli effetti della sentenza della Corte sull’Administrative State - 6. Qualche spunto conclusivo - NOTE


1. Introduzione: le politiche di decarbonizzazione promosse dal Green New Deal americano

La necessità di mitigare il cambiamento climatico è alla base della strategia europea del Green deal di riduzione delle emissioni di carbonio: tuttavia, l’Eu­ropa da sola non può fare molto se gli altri attori globali non promuovono analoghe iniziative di decarbonizzazione. Gli Stati Uniti rappresentano, insieme a Cina ed India, i principali Paesi responsabili delle emissioni di CO2: secondo uno studio del 2022 [1], l’economia americana è la più inquinante dopo la Cina (che produce più del doppio delle sue emissioni), seguita da Unione europea e India, a breve destinate a scambiarsi di posizione nella scala dei Paesi maggiori produttori di emissioni di carbonio. È dunque particolarmente interessante, mentre osserviamo l’attuazione del Green Deal europeo alle prese con la crisi energetica, analizzare la parallela strategia di riduzione delle emissioni di CO2 promossa nel contesto statunitense. La risoluzione sul Green New Deal (Recognizing the duty of the Federal Government to create a Green New Deal – GND) è stata presentata alla Camera dei deputati nel 2019 dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez e dal sen. democratico Markey. Nonostante l’appoggio di numerose associazioni, la risoluzione non ha avuto seguito in Senato. Due anni più tardi, nel 2021, gli stessi parlamentari la hanno ripresentata alla Camera, questa volta con un sostegno ancora più ampio della società civile, che ha espresso il proprio appoggio attraverso 626 organizzazioni, tra le quali il Sunrise Movement. La proposta costituisce un piano non vincolante che aspira ad un vero e proprio cambiamento sistemico volto, da un lato ad affrontare il climate change ma dall’altro a diminuire, attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro (high quality Union jobs) legati alla transizione ecologica, le diseguaglianze sociali, soprattutto nei confronti delle persone di colore, degli indigeni, dei poveri e degli immigrati. Esso ha dunque sia un impatto trasformativo dell’economia statunitense sia una forte aspirazione a promuovere la giustizia sociale [2]. Il nome del piano può farsi risalire al vincitore del premio Pulitzer Thomas Friedman [3] che già nel 2007 aveva proposto la realizzazione di questo programma per il rilancio degli Stati Uniti attraverso tre azioni principali: l’aumento dei prezzi delle energie fossili [continua ..]


2. Il Congresso e le politiche di decarbonizzazione

Se si guarda all’attività legislativa del Congresso, ad oggi sono poche le leggi approvate con finalità green. Prima dell’agosto del 2022, in cui una legge contenente misure significative di carattere ambientale, denominata Inflation Reduction Act è stata approvata dal Congresso [8], era stato emanato un solo atto di impatto modesto, il Bipartisan Infrastructure Plan (2021), incapace di produrre risultati significativi sul piano dell’abbattimento delle emissioni. Molte delle proposte legislative finalizzate a dare attuazione al GND non sembrano, invece, in grado di completare l’iter legislativo. Alla fine del 2022 i disegni di legge direttamente riconducibili al GND sono il Green New Deal for public school Act (che prevede stanziamenti per 1.43 trilioni di dollari in 10 anni per ridurre le emissioni delle scuole pubbliche, aumentare le assunzioni, aumentare gli spazi verdi e migliorare l’efficienza energetica degli edifici), depositato nel luglio del 2021; il Green New Deal for Cities Act, presentato nell’ottobre del 2021 e volto a migliorare il trasporto pubblico, promuovere energie rinnovabili a livello locale, migliorare l’efficienza energetica degli edifici, potenziare i sistemi sanitari locali (anche per il controllo di acqua e aria), ristabilire gli eco-sistemi, e riparare le ingiustizie sociali, attraverso fondi federali allocati direttamente dall’amministrazione federale per progetti e strategie definiti; il Green New Deal for Public Housing Act (2021), relativo agli edifici pubblici; il Civilian Corps for Jobs and Justice Act, finalizzato a creare 1,5 milioni di posti di lavoro per la costruzione di percorsi e sentieri nella natura, la gestione degli incendi e la forestificazione (Civilian Climate Corps). E l’Infrastructure and Investment Jobs Act, chiamato ad intervenire sulle infrastrutture e sul mercato del lavoro. Il cammino di queste iniziative è ostacolato da alcuni fattori: la loro stasi si collega non solo alla crisi energetica, all’inflazione e al timore di una recessione economica, ma anche e soprattutto alla forte contrapposizione che, sulle politiche ambientali, caratterizza deputati e senatori dei partiti democratico e repubblicano. Le possibilità che l’una o l’altra forza politica controlli pienamente il Congresso e dunque le scelte che vi si compiono è estremamente limitata: dal 1979 ad oggi, ci sono stati solo 7 [continua ..]


3. Segue: l’Inflation Reduction Act

Nell’agosto 2022 i Democratici sono riusciti a far approvare in Senato il Climate and Tax Bill (chiamato anche Reconciliation Bill) con il nome di Inflation Reduction Act grazie all’accordo insperatamente raggiunto a fine luglio con il senatore Joe Manchin (West Virginia) e il capo gruppo democratico al Senato Chuck Schumer (New York). Si tratta di una vittoria storica per i democratici, trattandosi di una legge che prevede una spesa pubblica e dunque, per questa ragione, di difficile approvazione, tanto più a ridosso delle elezioni di Midterm. Tale legislazione, ripresentata da Biden dopo che la precedente proposta Build Back Better era naufragata al Senato nel dicembre 2021, contiene al suo interno tre riforme fondamentali: una riforma fiscale che prevede una tassazione minima del 15 % per le corporations (Subtitle A); una riforma che consente un notevole risparmio delle spese sanitarie attraverso l’attribuzione al Governo di un potere di negoziazione con la imprese farmaceutiche (Subtitle B and C, Prescription Drug Pricing Reform – E-Price negotiation program to lower prices for certain high-priced single source drugs); e lo stanziamento di fondi federali per 400 miliardi di dollari (in 10 anni) per promuovere le energie rinnovabili (energy and climate related programs) (Subtitle D) [11]. Più specificamente il Subtitle D (Energy Security) contiene le misure che dovrebbero consentire agli Stati Uniti, secondo le previsioni, di abbattere del 40% le emissioni di CO2 entro il 2030. Prevede uno stanziamento di 369 miliardi di dollari destinati sia alle imprese sia ai cittadini secondo diverse linee di finanziamento che comprendono la concessione di crediti per la creazione di impianti di energia rinnovabile (solare ed eolica) per le comunità con basso reddito ed i privati, ma anche per la predisposizione di sistemi di cattura del­l’ossido di carbonio. I finanziamenti e le agevolazioni sono gestiti dal Dipartimento federale dell’Energia. Una seconda linea di azione riguarda i carburanti: è prevista un’estensione degli incentivi per la produzione di carburanti alternativi (biodiesel, diesel rinnovabile) e crediti fiscali per le compagnie aeree che usano carburante sostenibile. Sono inoltre stabiliti crediti fiscali per la produzione di idrogeno pulito. Una terza linea di finanziamento riguarda gli incentivi economici per i privati (per stimolare l’efficientamento energetico [continua ..]


4. L’EPA e la lotta al climate change

Anche in considerazione delle difficoltà che le leggi ambientali federali incontrano nel processo parlamentare, uno strumento fondamentale per la politica ambientale del Governo è tradizionalmente rappresentato dell’azione regolatoria dell’agenzia federale per la protezione ambientale (Environmental Protection Agency – EPA), che ha un ruolo fondamentale nella fissazione degli standard in materia. In questi termini, si può dire, anzi, che il Presidente degli Stati Uniti si serve dell’agenzia per attuare le proprie politiche ambientali secondo quella che è stata definita la Presidential Administration [13]. L’EPA costituisce una independent executive agency: essa, a differenza delle autorità amministrative indipendenti (Independent regulatory commissions) è slegata da uno specifico Dipartimento di Stato, ma è parte dell’execu­tive branch (e dunque in questi termini executive) e quindi posta sotto l’influen­za diretta della Presidenza degli Stati Uniti, che ne nomina e revoca i vertici at will [14]. A differenza dei Dipartimenti di Stato, che hanno principalmente compiti esecutivi e di adjudication, l’agenzia per la protezione dell’ambiente ha significativi poteri di regolazione: si tratta dunque di un pezzo di esecutivo con i poteri propri delle autorità indipendenti di regolazione. Nell’individuazione dei limiti alla sua azione regolatoria (e di fissazione degli standard ambientali) rilevano due fondamentali dottrine: la nondelegation doctrine e la Chevron doctrine. Per effetto della prima, le principali scelte politico-economiche del Paese devono essere compiute dal Congresso, secondo quanto prevede il par. 1 della Costituzione: l’amministrazione è chiamata ad operare, dunque, in base ad una legge del Congresso che la autorizza. Da ciò discende che l’adozione da parte dell’amministrazione di atti aventi un impatto economico o politico generale richiede una delega espressa da parte del legislatore (major question doctrine) [15]. Per effetto della seconda, quando il Congresso delega (anche implicitamente) all’amministrazione il potere di fare delle scelte, il sindacato operato dalle Corti su di esse deve essere di tipo deferente, nel senso che il giudice dovrà limitarsi a verificare che sussista una delega a favore dell’amministrazione e che le valutazioni operate da [continua ..]


4.1. Segue: l’azione dell’EPA nell’era Obama: la Clean Power Plan Rule

Ben prima della risoluzione democratica del 2019, le indicazioni di Friedman avevano ispirato il Clean Power Plan (CPP), una regolamentazione adottata dall’EPA nel 2015 su impulso del Presidente Obama: tale atto era stato emanato in base alla sez. III (d) del Clean Air Act del 1970, ossia di una delle due leggi fondamentali emanate dal Congresso in materia di protezione ambientale, emendata in seguito solo nel 1977 e nel 1990 [18]. Il CPP, in particolare, conteneva linee guida vincolanti per gli Stati, finalizzate a realizzare una rapida (seppur parziale) decarbonizzazione dell’econo­mia americana e del settore energetico attraverso l’imposizione agli Stati di limiti massimi di emissioni di CO2: il piano cercava di contemperare l’esigenza di ridurre l’inquinamento con la necessità di tenere conto del fabbisogno energetico e della varietà di fonti energetiche presenti nei diversi Stati. La regolamentazione finale emanata dall’EPA (Clean Power Plan Rule) veniva adottata alla luce dei 4,3 milioni di commenti presentati da Stati, Territori, comunità indigene, stakeholder e società civile e muoveva dai seguenti dati: l’82 % delle emissioni inquinanti americane sono legate all’energia fossile e gli Stati Uniti sono responsabili con le loro emissioni del 20% dell’inquinamento globale. L’attuazione del piano avrebbe dovuto portare, nel 2030, a ridurre del 32% le emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 2005. Quelle di anidride solforosa sarebbero dovute scendere del 90%, mentre gli ossidi di nitrogeno del 72%. Il medesimo piano calcolava i benefici economici del raggiungimento di questi obiettivi in 20 milioni di dollari per i climate benefits, tra i 14 e i 34 milioni di dollari per la salute pubblica e tra 26 e 45 milioni di net benefits. In essa venivano fissati gli standard nazionali di qualità dell’aria (National ambient air quality standards – NAAQS), primari e secondari, con finalità di protezione della salute pubblica e del welfare pubblico [19]. Nel caso specifico, l’Agenzia lasciava agli Stati una certa flessibilità nella individuazione delle misure per il raggiungimento degli obiettivi, compreso il sistema di emissions trading [20], ma a fianco di misure di efficientamento energetico prevedeva il c.d. generation shifting, ossia la transizione da fonti maggiormente inquinanti a fonti pulite [21]. I [continua ..]


4.2. La reviviscenza del CCP e la sentenza della Corte Suprema West Virginia v. EPA

Le vicende giudiziarie che hanno riguardato i due piani adottati dall’EPA (CPP ed ACE) hanno condizionato fortemente l’efficacia dell’azione amministrativa di contrasto al climate change e determinato un’oscillazione regolatoria i cui effetti pregiudizievoli, per le imprese e per la salute dei cittadini, sono stati ben evidenziati dalla dottrina [24]. A seguito dell’emanazione della Affordable Clean Energy Rule alcuni ricorrenti, tra cui Stati e produttori di energia che si erano allineati a quanto stabilito dal CPP, avevano impugnato dinanzi alla Court of Appeal del D.C. Circuit la nuova regolamentazione ACE e la revoca della Rule del 2015. In esito a tale azione, nel gennaio 2021 la Corte aveva disposto l’annullamento del piano di Trump e la reviviscenza del Clean Power Plan, sul presupposto che, nell’adottare tali atti, l’Agenzia avesse interpretato in termini eccessivamente restrittivi i poteri che il Clean Air Act le attribuiva per tutelare la salute pubblica dai danni prodotti dall’inquinamento atmosferico [25]. Benché l’agenzia avesse pubblicamente dichiarato di non voler dare attuazione al piano, per l’intenzione di adottarne uno nuovo, avverso la sentenza veniva proposta una petition for certiorari dinanzi alla Corte Suprema, la quale, con la pronuncia West Virginia v. EPA, giungeva ad annullare il CPP, con la maggioranza di 6 a 3 [26]. In particolare, secondo la Corte, la misura di generation shifting prevista nel piano per sostituire alle fonti tradizionali quelle rinnovabili non sarebbe rientrata nel mandato conferito all’EPA dalla sez. 111 lett. d) del Clean Air Act, ma avrebbe costituito una scelta di policy destinata ad avere una portata dirompente e trasformativa sull’intero sistema economico americano, la quale sarebbe in principio riservata al Congresso. Su tale presupposto, la Corte ha dunque verificato se sussistesse o meno una delega sufficientemente esplicita del legislatore atta a giustificare tali misure straordinarie, concludendo, in applicazione della major question doctrine, che il riferimento contenuto nella legge ai “best systems of emissions reduction” non potesse costituire una clear congressional authorization sufficiente a giustificare l’adozione da parte dell’agenzia di misure di “generation shifting” [27]. Al di là degli effetti specifici sul CPP, che comunque non avrebbe [continua ..]


5. Gli effetti della sentenza della Corte sull’Administrative State

Le diverse sezioni del Clean Air Act hanno consentito, nel corso di oltre cinquanta anni, di adottare scelte di regolazione ambientale connotate da una notevole discrezionalità: tale delega ampia di poteri all’amministrazione è sempre stata ritenuta necessaria per conciliare una protezione adeguata della salute pubblica con gli sviluppi economici e tecnologici in ambito ambientale, rispetto ai quali una disciplina risalente rischiava di essere obsoleta o insufficiente [28]. Così, ad eccezione del caso Schechter Poultry del 1935, in cui la Corte Suprema aveva ritenuto che l’azione di una agency avesse violato il principio della nondelegation per la mancanza di un intellegible principle del Congresso sufficiente a guidarla (e dunque a legittimarla), la Corte Suprema non ha mai annullato le misure di un’agenzia federale per violazione della nondelegation doctrine sul presupposto che “broad delegation is necessary to meet the challenges of an increasingly complex and technical modern world” [29]. Solo in due casi la costituzionalità di ampie deleghe normative (proprio nel contesto del Clean Air Act) era stata posta in dubbio, benché non in termini decisivi per l’accoglimento del ricorso: nel caso Mistretta v. United States (1989 [30]) e nel caso Whitman v. American Trucking Association, Inc. (2001) [31]. Nel primo caso, il giudice Scalia scrisse una dissenting opinion rispetto alla majority opinion di Justice Blackmun, in cui rilevava la mancanza di un principio intellegibile a sostegno della delega di poteri che aveva portato alla adozione delle linee guida da parte della agency. Nel secondo caso, però, sempre Scalia ritenne fondata e legittima la regolamentazione fissata dall’EPA, alla luce dell’intellegible principle test, giustificando la fissazione di standard ambientali comuni su tutto il territorio nazionale sulla base della generale esigenza di tutelare la salute del popolo americano, assegnata alla cura dell’agenzia dal Clean Air Act. Rispetto ad un orientamento tendenzialmente generoso nel riconoscere ampie deleghe normative, un forte segnale di cambiamento è rinvenibile in occasione del caso Gundy v. United States [32] del 2019 [33]: l’opinione dissenziente del giudice Gorsuch (cui hanno aderito i giudici Thomas e Roberts) sembra preparare il ripensamento dei rapporti tra legislazione e poteri amministrativi [continua ..]


6. Qualche spunto conclusivo

C’è il cammino dell’Unione europea e c’è il cammino degli Stati Uniti. Per quanto si tratti di percorsi difficili, il Green Deal europeo e i timidi segnali provenienti dal Congresso americano e dalle politiche di Biden consentono di non cedere al pessimismo radicale sul futuro orizzonte della lotta al climate change. Al di fuori degli sforzi protesi da questi due attori globali, tuttavia, non vi sono molti elementi di conforto [47]. Gli esiti della COP27, cioè della Conferenza delle Parti per l’attuazione dell’accordo di Parigi sul cambiamento climatico, sono stati deludenti. Sul fronte del contenimento delle emissioni, la dichiarazione “Accelerating to Zero” riguardante le emissioni prodotte dai veicoli su strada ha segnato pochi progressi rispetto alla dichiarazione firmata a Glasgow in occasione della COP26. Benché vi abbiano aderito due importanti Stati europei, Francia e Spagna, continuano a mancare all’appello Cina, Stati Uniti, Giappone, India e Germania, ossia i grandi produttori mondiali di automobili. Allo stesso modo, l’alleanza per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020 costituisce una strategia importante, ma non include, ancora una volta, Cina, India e Russia, i tre grandi assenti dalla Conferenza di Sharm el-Sheikh. Come ha osservato il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, “we need to drastically reduce emissions now – and this is an issue this COP did not address. A fund for loss and damage is essential – but it’s not an answer if the climate crisis washes a small island state off the map – or turns an entire African country to desert. The world still needs a giant leap on climate ambition” [48]. Anche sul fronte interno l’azione della Cina sembra caratterizzata da una palese contraddizione: da un lato la Guiding Opinion of the State Council on accelerating the Establishment and Improvement of a Green Low-Carbon and Recycling Economic System del febbraio 2022 promette una transizione energetica dell’economia cinese basata sullo sviluppo di energie rinnovabili e sulla trasformazione green dei fattori produttivi, indicando una serie di obiettivi e target di ampio respiro, ma dall’altro, i dati sulle emissioni di CO2, considerati gli aumenti di produzione e consumo che si sono avuti nel 2021 e le previsioni di ulteriore [continua ..]


NOTE