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Il piccolo volume di Francesco Goisis, edito a novembre da Giappichelli, è il frutto maturo dell’ampia ricerca dedicata dallo studioso al tema delle garanzie nel procedimento sanzionatorio. Ed è forse anche il seme per la fondazione di una nuova «teoria generale dell’illecito, comunque sanzionato» (per usare le parole di Giovanni Maria Flick).
L’oggetto della analisi è la tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative nel sistema delineato dalla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), argomento peraltro di estrema attualità con specifico riferimento ai procedimenti sanzionatori delle Autorità amministrative indipendenti (cfr. su questo numero, F. PALLADINO, Il potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti tra matière pénale e divieto di bis in idem. Note a margine della sentenza Grande Stevens).
Il metodo utilizzato è quello di enucleare, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le nozioni e i principi della CEDU nel loro “vivo” significato, per poi “collocarli” entro i confini del nostro ordinamento e qui farli “rivivere”. Operazione questa che consente all’Autore di “misurare” il nostro sistema sanzionatorio con un metro nuovo (quello della CEDU) cogliendone una sostanziale inadeguatezza.
Di tale metodo il secondo capitolo, dedicato al principio di legalità, costituisce la migliore rappresentazione. Questi i passaggi essenziali del ragionamento. Primo: il principio di legalità che emerge dall’esame della giurisprudenza della Corte EDU può esprimersi nei termini di nullum crimen, nulla poena, sine lege (che non deve essere necessariamente scritta), certa (nel senso che esso esige una certa qualità della normazione), stricta (nel senso che esso pone il divieto di applicazione estensiva, prima che analogica) et previa (nel senso esso che pone il divieto di retroattività in malam partem e, di converso, implica retroattività in bonam partem del trattamento sanzionatorio più mite). Secondo: questo “nuovo” principio di legalità deve essere collocato entro i confini del nostro ordinamento e non può importare un superamento della riserva di legge prevista dall’art. 25, comma 2 della Costituzione, il che significa che la norma “incriminatrice” – che pure per la Convenzione può avere fonte non scritta – nel nostro sistema deve essere posta dalla legge. Terzo (ed è il passaggio che sembra più interessante, cogliendo il rapporto di continua osmosi tra sistema nazionale e CEDU): la riserva di legge di cui all’art. 25 della Costituzione deve, a sua volta, leggersi alla luce di altro “concetto” CEDU, quello di “materia penale”, al quale Goisis dedica il primo capitolo del suo lavoro. Alla luce dell’ampia nozione CEDU di “materia penale”, la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. deve quindi estendersi alle sanzioni amministrative, con il conseguente rifiuto della fonte sub-legislativa ai fini della definizione degli illeciti amministrativi. In forza di questo ragionamento Goisis mette in crisi l’idea (consolidata nella nostra giurisprudenza costituzionale, penale e amministrativa) che in materia di sanzioni amministrative vi sia una riserva di legge relativa, dalla quale discenderebbe la piena legittimità della determinazione delle condotte illecite tramite il rinvio alla violazione di norme poste da Autorità amministrative indipendenti.
La riconduzione degli illeciti amministrativi all’art. 25 invece che all’art. 23 Cost. pare importante, anche oltre l’oggetto di indagine di Goisis, poiché “riattualizza” il dibattito sui poteri normativi delle Autorità indipendenti che la migliore dottrina amministrativa ha risolto rintracciandone la legittimazione nel diritto comunitario che, come noto, ha previsto l’istituzione di autorità di settore dotate di poteri di regolazione (e sanzionatori): conclusione che meriterà forse qualche ulteriore considerazione alla luce dell’art. 7 della CEDU.
Ma torniamo a Goisis, che estende il suo ragionamento ai corollari del principio di legalità, traendone le estreme conseguenze con riferimento al sistema delle sanzioni “penali” in senso ampio, senza mai mancare di cogliere gli spunti (pochi) che la più recente giurisprudenza nazionale offre alla sua lettura in termini di: a) irretroattività (tradizionalmente predicata solo per le norme penali) delle previsioni di sanzioni amministrative e retroattività in bonam partem del trattamento sanzionatorio più favorevole (come noto, tradizionalmente escluso in materia di illeciti amministrativi dalla giurisprudenza nazionale, e proprio in applicazione di un principio di legalità “impermeabile” alla CEDU); b) divieto di applicazione estensiva (assente nel nostro ordinamento anche in materia penale); c) necessità dell’elemento soggettivo (riconosciuto nel nostro ordinamento solo con riferimento alle sanzioni pecuniarie e a quelle accessorie e sempre operando una presunzione iuris tantum di colpa, che comporterebbe, a parere dell’Autore, una violazione del principio di presunzione di innocenza di cui al comma 2 dell’art. 6 della CEDU).
Con questo metodo – che l’indagine sul principio di legalità consente di cogliere a pieno – l’Autore sviluppa il suo lavoro sulle tutele del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative.
Il punto di partenza (capitolo 1) è l’ormai nota nozione sostanziale di “materia penale” elaborata dalla giurisprudenza CEDU il cui esame puntuale fonda la convinzione dell’Autore che tutte le sanzioni amministrative pecuniarie italiane (da quelle, più rilevanti, delle Autorità amministrative indipendenti a quelle minori per illeciti stradali) siano “penali” ai sensi della CEDU e quindi reclamino pienezza di garanzie a favore del cittadino, ai sensi dell’art. 6 della CEDU. Convinzione che l’Autore estende – ed è passaggio complesso, effettuato con la consapevolezza degli argomenti contrari svolti dalla dottrina, da Zanobini a Travi a A. Sandulli – anche a misure che perseguono finalità ripristinatorie e di cura in concreto dell’interesse pubblico, oltre che tipicamente afflittive: misure cioè che il nostro ordinamento non configura nemmeno quali sanzioni in senso stretto e che sfuggono pertanto alle garanzie (minime) offerte dalla legge generale sulle sanzioni amministrative. L’Autore evidenzia come l’ampiezza e la flessibilità della nozione di sanzione penale desunta dall’analisi della giurisprudenza CEDU – penetrata sia pure non facilmente nella giurisprudenza dell’Unione europea e almeno in parte anche nella nostra giurisprudenza costituzionale – scongiuri l’altrimenti possibile “truffa delle etichette” da parte degli ordinamenti nazionali che potrebbero sottrarre intere materie alle garanzie CEDU semplicemente evitando di qualificare le stesse come “penali”.
L’interpretazione che del diritto ad un processo equo offre la Corte di Strasburgo (e il “precipitato” che Goisis ne trae sul piano del diritto interno) rappresenta il punto centrale del lavoro (capitolo 3), se non altro perché alla definizione dell’ambito di tutela di tale diritto è funzionalizzata la nozione ampia di sanzione penale che ne ha costituito il punto di partenza.
L’esame della giurisprudenza CEDU sul mancato rispetto dell’art. 6 della Convenzione da parte delle Autorità francesi preposte alla tutela del credito e dei mercati finanziari induce l’Autore a ritenere che nel campo delle sanzioni amministrative il diritto al giusto processo di cui all’art. 6 CEDU attenga direttamente e primariamente al procedimento amministrativo. Non si tratta di passaggio semplice. Per compierlo Goisis esamina in controluce (ossia alla luce del principio della domanda) la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che altrimenti indurrebbe l’interprete a confidare nell’idea di un’ampia compensabilità ex post – e cioè in un processo di piena giurisdizione – della mancanza di garanzie procedimentali (questa l’indicazione che potrebbe trarsi dalle decisioni relative ai casi Menarini e Grande Stevens).
L’Autore sottopone a critica l’idea dell’idoneità sempre sanante del processo di piena giurisdizione rispetto ai vizi procedimentali (per esempio, la mancata audizione dell’incolpato), guardando, da un lato, alla giurisprudenza CEDU sulle minor offences e sui principi della presunzione di innocenza e di rifiuto di ogni prosecutorial bias e, dall’altro, agli ostacoli che lo stesso diritto interno frappone alla compensabilità ex post, in sede processuale, della mancanza di (almeno alcune) garanzie procedimentali. Ostacoli che l’Autore individua anzitutto nelle disposizioni legislative nazionali che, in tema di potestà sanzionatoria delle Autorità amministrative indipendenti, impongono la distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie.
Enucleato dalla (non sempre univoca) giurisprudenza CEDU il principio della necessaria anticipazione alla fase procedimentale della tutela del diritto all’equo processo nel caso di irrogazione di sanzioni sostanzialmente penali da parte di autorità pubbliche non inserite nell’ordinaria organizzazione giudiziale (salva l’idoneità sanante della full jurisdiction limitata, secondo Goisis, alle sole c.d. minor offences) e “ricollocato” tale principio nel sistema nazionale, l’Autore conclude per l’inadeguatezza del procedimento sanzionatorio nazionale il cui carattere inquisitorio risulterebbe chiaramente dalla legge n. 689/81 e, in particolare, dagli artt. 14 (che non garantisce né la necessaria separazione tra organo di accusa e organo decisoria, né il diritto dell’accusato di essere informato nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell’accusa), 13 (che non consente al cittadino di partecipare in contraddittorio alle attività istruttorie ufficiose) e 18 (che, pur riconoscendo all’interessato il diritto di chiedere un’audizione orale, è oggetto di un’interpretazione giurisprudenziale tendenzialmente abrogatrice).
Ma l’Autore non si ferma alle garanzie procedimentali. Entra nel processo e dedica alle garanzie giurisdizionali (e quindi al diritto ad una full jurisdiction) l’ultimo capitolo del suo lavoro. Qui conduce un’attenta analisi della giurisprudenza CEDU volta ad individuare i caratteri della full jurisdiction e alla luce di questa nozione esamina le principali disposizioni comunitarie e nazionali in materia. E qui coglie il paradosso italiano (che per la verità osserva essere stato anche quello comunitario), ove «una full jurisdiction (...) esiste sulla carta, ma in genere non nella realtà giurisprudenziale» (pag. 119) che, come noto, tende a riservare un ampio spazio al merito amministrativo a scapito dell’ampiezza del sindacato giurisdizionale. E ancora una volta, senza falsi pudori, Goisis mostra come l’insegnamento CEDU imporrebbe un’inversione di rotta rispetto a quanto sostenuto dalla giurisprudenza prevalente che dovrebbe condurre «un progressivo, generale, superamento (in relazione a tutta la materia sanzionatoria amministrativa) della distinzione tra la giurisdizione di legittimità e, rispettivamente, di merito, a favore di una riconduzione della prima alla seconda» (par. 129). A meno che – e così l’Autore torna al tema centrale del volume – l’Amministrazione non realizzi essa stessa il giusto processo in sede procedimentale.
Nel suo volume Francesco Goisis ci mostra dunque – con la semplicità che viene dall’estensione e dalla profondità dei suoi studi in materia – quali siano le (estreme) conseguenze che dovrebbero trarsi in materia di garanzie procedimentali (e processuali) dalla effettiva applicazione nel nostro ordinamento dei principi dell’equo processo e di legalità contenuti nella CEDU e ora anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Solo su un punto l’Autore non sembra “tirare la corda” della giurisprudenza CEDU, sul principio del ne bis in idem. Anzi, rispetto a questo principio (che sta fuori dal suo campo di indagine, poiché nella generalità dei casi esso viene in rilievo quando il procedimento sanzionatorio è concluso e il cittadino sia chiamato a rispondere delle stesse condotte in un giudizio penale) l’Autore sembra mostrare qualche pudore, quello che viene forse dal potenziale conflitto tra questo e il principio di legalità, inteso come prevedibilità della natura (penale o amministrativa) delle conseguenze di una certa condotta (in copertina, “La pudicizia velata” di Francesco Corradini).
La Corte di Strasburgo – chiamata a verificare il rispetto dell’art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU da parte della normativa italiana che in attuazione della direttiva 2003/CE/CE istituisce per gli abusi di mercato un “doppio binario” (fatto di sanzioni amministrative e sanzioni penali) – ha affermato nella decisione Grande Stevens: 1) che “la questione da definire non è quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti dagli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58/1998 siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta”; 2) che “spetti allo Stato convenuto fare in modo che i nuovi procedimenti penali avviati contro i ricorrenti in violazione di tale disposizione [art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU] e ancora pendenti (…) vengano chiusi nel più breve tempo possibile e senza conseguenze pregiudizievoli per i ricorrenti”.
Pur sorvolando sulla prima affermazione (che presa alla lettera è tanto ampia da mettere in crisi l’intera teoria del concorso formale di reati), l’Autore non si esime dall’esprimere qualche perplessità sulla seconda. Il problema del ne bis in idem non può essere risolto di volta in volta dall’autorità pubblica che si trovi a valutare una condotta per la quale altra autorità abbia già irrogato una sanzione di natura penale: “visto che non sembra gran che sensato un sistema in cui la prevalenza della sanzione penale o invece amministrativa dipenda dalla maggiore o minore velocità nella conclusione dei relativi procedimenti (ciò tra l’altro apparirebbe incoerente con il principio di legalità-prevedibilità), occorre che il legislatore si astenga dal duplicare (o addirittura moltiplicare) le risposte sanzionatorie (sia di tipo afflittivo che reale-interdittivo), o almeno stabilisca chiari criteri di prevalenza dell’una o altra sanzione, ove entrambe astrattamente minacciate)” (pp. 30-31). Va al nocciolo del problema Goisis: un sistema sanzionatorio costruito intorno ad un doppio binario (sanzione penale/sanzione amministrativa) è compatibile o meno con il principio di ne bis in idem di cui all’art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU? È questione cruciale che la Corte di Cassazione ha appena rinviato alla Corte Costituzionale (ordinanza n. 3333/2014), insieme a quella (subordinata) della legittimità – sempre con riferimento all’art. 117, comma 1, della Costituzione e all’art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, quale norma interposta – dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo volto all’applicazione di una sanzione di natura penale ai sensi della CEDU.
Aspettiamo la pronuncia della Corte costituzionale, ma osserviamo che il legislatore comunitario ha dettato la nuova disciplina in materia di abusi di mercato considerando che “nulla osta a che gli Stati membri stabiliscano regole per sanzioni amministrative oltre che sanzioni penali per le stesse infrazioni” (considerando n. 72 del regolamento UE n. 596/2014 relativo agli abusi di mercato) e che “nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi della presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem” (considerando n. 23 della direttiva 2014/57/UE relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato). Espressioni “agnostiche” (“nulla osta”, “dovrebbero”) che celano forse una diversa lettura di disposizioni pure analoghe nella loro formulazione – l’art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU e l’art. 50 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – rendendo la portata del principio del ne bis in idem ancora tanto fluida da non consentire nemmeno a Francesco Goisis di coglierla nel profondo, sì da potercela restituire con la limpidezza che caratterizza le pagine del suo libro.