Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Mriana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Bari, 2014, pp. I-351. (di Valeria Gioffrè)


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SOMMARIO:

1. - 2. - 3. - 4.


1.

Sfatare il mito del pubblico contro il privato”: è questo lo scopo perseguito dal saggio, intelligente quanto provocatorio, di Mariana Mazzucato.

Il volume intende, infatti, mettere in discussione molte delle idee e dei luoghi comuni su cui si è concentrato il dibattito pubblico sviluppatosi all’esito della crisi economica del 2008, ingaggiando una “battaglia discorsiva” contro la prevalente tesi liberista secondo cui la riduzione dell’intervento pubblico è l’unico strumento in grado produrre sviluppo economico.

Secondo l’Autrice lo Stato non si limita, né deve limitarsi, a correggere i fallimenti del mercato, ma è (da sempre) un autentico promotore (o agente) di sviluppo economico, soggetto proattivo in grado di assumersi i rischi che il settore privato non potrebbe sostenere. Lo Stato dispone, infatti, di “visione” e di “capitali pazienti”, che possono attendere la remunerazione del rischio molto più dei fondi di venture capital, e, solo grazie a tali caratteristiche, a differenza dei privati, può farsi promotore di innovazione nei settori ad elevato rischio tecnologico e ad alta densità di capitale. Lo Stato, dunque, non è solo facilitatore, ma creatore di nuovi mercati e di “sistemi di innovazione”.


2.

La tesi, che pure si presterebbe ad essere ideologizzata, è in realtà dimostrata empiricamente, con una serie di case studies, attraverso cui l’Autrice ricostruisce l’origine di alcuni dei più importanti progressi concepiti nei principali settori dell’innovazione.

In linea con la vis polemica del saggio, i casi passati in rassegna sono efficaci e provocatori, non solo perché interessano il nostro quotidiano, ma anche perché – e qui si manifestano con forza le intenzioni dell’Autrice – investono direttamente gli ambiti considerati dall’opinione comune come gli emblemi dell’innovazione: le nanotecnologie, l’industria farmaceutica, le nuove tecnologie e le energie verdi.

Particolarmente incisivo è il capitolo V, dedicato alla Apple, impresa simbolo della new economy e del capitalismo coraggioso dei garage tinkerers, gli inventori da garage. Esaminando la storia dell’azienda di Cupertino, l’Autrice dimostra come tutte le tecnologie all’avanguardia contenute in prodotti innovativi e di successo come l’IPhone e l’IPad siano, in realtà, il risultato di ingenti investimenti pubblici. Il touch screen, Internet e l’Http/Html, il Gps e il Siri, sono, infatti, tecnologie nate grazie agli sforzi di ricerca e ai finanziamenti del governo e delle forze armate degli Stati Uniti, prodotti che la Apple non ha certamente sviluppato, ma solo integrato e commercializzato. L’Autrice ricorda, inoltre, come la Apple, oltre ad avvalersi delle innovazioni elaborate grazie ai programmi di ricerca promossi a livello federale, abbia goduto, in fase di avviamento, di ingenti investimenti statali nel capitale aziendale ed, in seguito, di politiche fiscali e commerciali di sostegno, ricavandone un indubbio vantaggio competitivo sui mercati.

Altrettanto interessanti sono i capitoli VI e VII, in cui, con lo stesso intento demolitorio che percorre l’analisi compiuta sull’origine e lo sviluppo delle nuove tecnologie, l’Autrice conduce un interessante esame della rivoluzione industriale verde, mettendo in luce tutti i casi in cui lo Stato si è fatto imprenditore, sviluppando e sostenendo le tecnologie pulite dell’eolico e del fotovoltaico. Dalla disamina emerge, infatti, come i finanziamenti pubblici, gli investimenti di capitali pazienti in settori ad alto rischio e la creazione del contesto economico essenziale al consolidarsi delle tecnologie verdi abbiano in molti casi costituito più che delle semplici “spintarelle” (nudge), ma delle vere e proprie “spinte” alla creazione della green economy.


3.

I dati empirici descrivono, dunque, una situazione assai diversa da quella veicolata dalla vulgata corrente: c’è uno Stato imprenditore e innovatore dietro le nanotecnologie, l’industria farmaceutica, le tecnologie rivoluzionarie della Silicon Valley e della green economy e, quel che più dovrebbe farci riflettere, la sua mano, invero visibilissima, può essere osservata per lo più in quei Paesi – in primis negli Stati Uniti – tradizionalmente considerati come le patrie del liberismo.

A differenza di quanto sostiene la maggioranza della dottrina convenzionale e dei policy makers, dunque, il settore pubblico svolge un ruolo centrale nel­l’innovazione, facendosi attore principale della cd. economia della conoscenza, in cui lo sviluppo economico è generato dal progresso tecnico e dalla creazione e diffusione di conoscenze.

Mentre il settore privato, osserva l’Autrice, si muove secondo logiche di scarso respiro, evitando il rischio e prediligendo condotte spesso parassitarie – secondo la regola aurea del neoliberismo “privatizzare i profitti e socializzare i costi” –, è lo Stato il vero innovatore, perché, assumendosi coraggiosamente rischi assai elevati, può, contro ogni aspettativa, dare corpo a progetti visionari, facendosi non semplice facilitatore, ma autentico creatore di nuovi mercati.


4.

La tesi argomentata dal volume di Mariana Mazzucato è di sicuro interesse, non solo perché mette in discussione diversi “miti” dello sviluppo economico, ma anche e soprattutto perché porta all’attenzione del dibattito pubblico l’importanza cruciale (sempre taciuta) e le potenzialità dell’intervento dello Stato nei settori più innovativi dell’economia.

È pur vero che, in alcuni casi, può cogliersi qualche fragilità nella trattazione, che a tratti rischia di incorrere nel post hoc, ergo propter hoc: non pare, infatti, dimostrata sempre in maniera solida la correlazione tra la mano visibile dello Stato e la creazione di innovazione, non è chiaro, cioè, se alcune delle invenzioni trattate possano considerarsi come il portato di un “disegno intelligente” dello Stato o se, invece, debbano unicamente imputarsi ai singoli che hanno, pur in contesti pubblici (forze armate, Università sovvenzionate dallo Stato), scoperto determinate tecnologie. Non sembra, poi, così certo che la condotta dei decisori pubblici sia sempre, come parrebbe suggerire, invece, l’Autrice, ispirata a logiche di ampio respiro o dotata della “visione” richiesta per la realizzazione delle grandi innovazioni.

Ancorché, dunque, la tesi del libro non sia sempre dimostrata in maniera persuasiva, non possono tacersi gli evidenti pregi del volume che, nel tentare di ristabilire un equilibrio nella percezione del ruolo svolto dallo Stato nello sviluppo economico, ne esalta finalmente i meriti e pone le basi per alcune interessanti proposte. Tra queste, in particolare, occorre menzionare l’introduzio­ne di meccanismi atti a ripagare lo Stato dell’assunzione dei rischi e degli investimenti effettuati, garantendogli adeguati ritorni economici in caso di successo, e una più attenta considerazione dello stretto rapporto fra politiche industriali e conoscenza, con importanti conseguenze sia sull’organizzazione interna – l’Autrice invoca la creazione di un’amministrazione dinamica e meritocratica, in grado di attrarre talenti e competenze – che sul ruolo strategico dello Stato che, attraverso adeguati investimenti in istruzione, ricerca e formazione del capitale umano, deve farsi guida e creatore di stabili “sistemi di innovazione”.

Fascicolo 1 - 2015