Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Il conflitto di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette nei settori regolati approda in Corte di Giustizia Commento a Consiglio di Stato, Sez. VI, ord. 17 gennaio 2017, n. 167 (di Gloria Maria Barsi)


Massime

Ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE, s’impone la rimessione alla Corte di Giustizia U.E. dei seguenti quesiti pregiudiziali di compatibilità con l’ordinamento euro-unitario dell’art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo, anche alla luce dell’interpretazione al riguardo fornita dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 4/2016:

«1) se la ratio della direttiva ‘generale’ n. 2005/29/CE quale ‘rete di sicurezza’ per la tutela dei consumatori, nonché il considerando 10 e l’articolo 3, comma 4, della medesima direttiva n. 2005/29/CE, ostino ad una disciplina nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici, previsti della direttiva settoriale n. 2002/22/CE a tutela dell’utenza, nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l’effetto, l’intervento dell’Autorità competente a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta/sleale;

2) se il principio di specialità sancito dall’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE debba essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), oppure dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali), oppure, ancora, dei rapporti tra Autorità preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori;

3) se la nozione di «contrasto» di cui all’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE possa ritenersi integrata solo in caso di radicale antinomia tra le disposizioni della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e le altre norme di derivazione europea che disciplinano specifici aspetti settoriali delle pratiche commerciali, oppure se sia sufficiente che le norme in questione dettino una disciplina difforme dalla normativa sulle pratiche commerciali scorrette in relazione alle specificità del settore, tale da determinare un concorso di norme (Normenkollision) in relazione ad una stessa fattispecie concreta;

4) Se la nozione di norme comunitarie di cui all’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE abbia riguardo alle sole disposizioni contenute nei regolamenti e nelle direttive europee, nonché alle norme di diretta trasposizione delle stesse, ovvero se includa anche le disposizioni legislative e regolamentari attuative di principi di diritto europeo;

5) Se il principio di specialità, sancito al considerando 10 e all’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE, e gli articoli 20 e 21 della direttiva 2002/22/CE e 3 e 4 della direttiva 2002/21/CE ostino ad una interpretazione delle corrispondenti norme di trasposizione nazionale per cui si ritenga che, ogniqualvolta si verifichi in un settore regolamentato, contenente una disciplina ‘consumeristica’ settoriale con attribuzione di poteri regolatori e sanzionatori all’Autorità del settore, una condotta riconducibile alla nozione di ‘pratica aggressiva’, ai sensi degli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE, o ‘in ogni caso aggressiva’ ai sensi dell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette, e ciò anche qualora esista una normativa settoriale, adottata a tutela dei consumatori e fondata su previsioni di diritto dell’Unione, che regoli in modo compiuto le medesime ‘pratiche aggressive’ e ‘in ogni caso aggressive’ o, comunque, le medesime ‘pratiche scorrette’».

   

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La frammentazione delle competenze, il bis in idem, la specialità - 3. L'Adunanza Plenaria del 2012 e la c.d. specialità per settori - 4. La specialità secondo la Commissione europea e i tentativi del legislatore italiano - 5. L'Adunanza Plenaria del 2016: assorbimento o specialità? - 6. La specialità per fattispecie concrete non chiarisce i dubbi: l’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia - 7. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

Con ordinanza 17 gennaio 2017, n. 167, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha formulato richiesta di interpretazione pregiudiziale ex art. 267, comma 3, TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione europea in relazione a due questioni concernenti, rispettivamente, la compatibilità del diritto nazionale c.d. vivente, quale risultante dalla sentenza dell’Adunanza plenaria del 9 febbraio 2016, n. 4, con l’ordinamento euro-unitario in merito alla nozione di pratica commerciale scorretta in materia di comunicazioni elettroniche; e, la compatibilità dell’art. 27, comma 1-bis, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. codice del consumo) con l’ordinamento euro-unitario, anche alla luce dell’interpretazione di esso fornita dalla medesima sentenza dell’Adunanza plenaria.

La vicenda processuale da cui origina l’ordinanza in commento merita un’attenzione particolare poiché nell’ambito del medesimo giudizio si è assistito all’intervento dell’Adunanza Plenaria prima, e alla rimessione alla Corte di Giustizia poi. Le argomentazioni utilizzate dalla Plenaria, infatti, non hanno dissipato i dubbi nutriti dalla Sezione rimettente circa la compatibilità dell’or­dinamento interno, in sé e come interpretato dal plenum, con il diritto euro-unitario.

Tuttavia, la decisione di interpellare la Corte di Giustizia nonostante la pronuncia in udienza plenaria, oltre ad evidenziare la complessità e la vivacità del dibattito sul riparto di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette nei settori regolati, assume un rilievo ulteriore poiché costituisce, forse, la prima ipotesi di disapplicazione in parte qua dell’art. 99, comma 3, d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.d. codice del processo amministrativo) in applicazione del principio di diritto espresso dalla Corte di Lussemburgo con la sentenza 5 aprile 2016 resa nella causa 689/13 (Puligienica c. Airgest s.p.a.) [1].

Secondo la Grande Camera, infatti, l’art. 99, comma 3, cod. proc. amm., nella parte in cui impone alla Sezione rimettente – che non condivida, relativamente a una questione di interpretazione o validità del diritto dell’Unione, l’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria – di rinviare la questione esclusivamente all’Adunanza stessa, senza poter adire la Corte di Giustizia ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale, è in contrasto con il diritto euro-unitario [2]. Ad avviso della Corte di Giustizia, i giudici nazionali sono titolari della più ampia facoltà di sottoporle questioni di interpretazione del diritto dell’Unione e, tanto più nei casi in cui tale facoltà si tramuti in obbligo, una norma processuale di diritto interno non può impedire al giudice interno di sollevare questione pregiudiziale [3]-[4].

Nel rimettere la causa ai giudici di Lussemburgo, infatti, la Sezione precisa che «nell’ambito del presente processo la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4/2016 non è munita dell’autorità dello stare decisis [… la quale] è “cedevole” in caso di sospettato contrasto della sentenza dell’Adunanza plenaria con il diritto euro-unitario».

Successivamente alla citata ordinanza del Consiglio di Stato, il TAR del Lazio, nell’ambito di un gruppo di controversie relative al rapporto tra Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito, AGCM) e Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico in materia di pratiche commerciali scorrette nel settore energetico, ha poi aderito alle perplessità sollevate dalla Sesta Sezione, formulando anch’esso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia – con le ordinanze del 17 febbraio 2017, nn. 2548-2547-2550-2551 – tramite la riproposizione testuale delle medesime questioni.


2. La frammentazione delle competenze, il bis in idem, la specialità

La sovrapposizione di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette nell’ambito dei settori regolati è questione vivacemente dibattuta da tempo.

L’art. 27 del codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) attribuisce all’AGCM il munus di investigare, inibire e sanzionare le pratiche commerciali scorrette, ossia le condotte di mercato in grado, anche solo potenzialmente, di incidere sulla libertà di autodeterminazione negoziale dei consumatori, ritenuti dall’ordinamento parte debole quando contraggono con chi agisce nell’esercizio della propria attività lato sensu professionale.

In materia di tutela del consumatore, le fonti euro-unitarie hanno giocato un ruolo fondamentale favorendo la penetrazione negli ordinamenti degli Stati membri di una crescente attenzione verso la tutela del contraente debole attraverso prescrizioni normative dettagliate. La complessità della realtà e la volontà di garantire uno standard di tutela al passo con l’evoluzione tecnologica hanno d’altra parte portato all’elaborazione di discipline settoriali altamente specializzate in grado di identificare fenomeni distorsivi anche nelle pieghe di ambiti specifici. Si pensi alla mole di adempimenti e regole cui sono sottoposti gli operatori di telefonia mobile nell’esercizio della propria attività [5]. La presenza di tali norme specifiche si giustifica in base al fatto che nell’ambito di alcuni settori di rilevanza economica strategica è necessario predisporre un’attività di regolazione – con relativa vigilanza – che il legislatore demanda ad Autorità diverse da quella antitrust (che opera su tutti i mercati, anche non regolamentati) in quanto ritiene che la competenza specialistica sia essenziale per garantire la migliore disciplina amministrativa del settore.

Quindi, mentre l’AGCM possiede una competenza trasversale in materia di concorrenza e di tutela del consumatore, esistono mercati soggetti alle funzioni di regolazione e di vigilanza di Autorità di settore in cui la tutela del consumatore è affidata anche a discipline puntuali e specifiche da esse dettate. Pertanto, pur rimanendo in capo all’AGCM la competenza generale in materia di contrasto alle pratiche commerciali scorrette, la vigilanza su alcune modalità specifiche di estrinsecazione delle stesse appartiene alla competenza delle Autorità di settore.

Non a caso, infatti, il legislatore europeo stabilisce che la normativa relative alle pratiche commerciali scorrette recede a fronte di disposizioni che ne disciplinino specificamente alcuni aspetti [6].

Ciononostante, il concorso della disciplina generale – di cui agli artt. 19 – 27 del codice del consumo – con una rilevante quantità di discipline settoriali ha generato una frammentazione delle competenze che postula, per un coerente coordinamento degli sforzi, l’applicazione di un criterio ordinatore chiaro.

Il corretto coordinamento negli interventi fra Autorità incide, infatti, almeno su un duplice ordine di aspetti. In primo luogo, sulla “spartizione” di competenze fra Autorità – chi fa cosa? – che chiama in causa il principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), posto che i procedimenti sanzionatori risultano essere particolarmente onerosi sia per l’amministrazione che per gli operatori privati – i quali, peraltro, rischiano di essere coinvolti in due procedimenti per gli stessi fatti, con possibili conclusioni differenti fra le Autorità. Senza contare che, l’attivazione di due procedimenti può determinare, nel caso in cui sia contestata la competenza dell’Autorità ad avviare il procedimento, un’anticipazione della tutela giurisdizionale dal provvedimento conclusivo alla comunicazione di avvio del procedimento da parte dell’Autorità di cui l’impresa destinataria eccepisca l’incompetenza – e quindi la carenza di potere in concreto –, con una duplicazione dei processi e dei relativi costi [7].

Ma soprattutto, la sovrapposizione di competenze genera il rischio che, per uno stesso fatto, l’autore venga punito due volte. Si tratta del divieto comunemente definito del bis in idem, secondo il quale ad un unico fatto illecito, che dunque esprime un unico disvalore, può corrispondere una sola sanzione. In realtà, può ben darsi che un unico fatto determini la violazione di più nome (c.d. concorso formale), e tuttavia, laddove due fattispecie legali presentino i medesimi elementi costitutivi, dovrà necessariamente applicarsene una soltanto. Diversamente opinando, la pena “doppia” risulterebbe sproporzionata rispetto alla responsabilità dell’autore, e dunque ingiusta.

L’ordinamento ha escogitato diverse tecniche per evitare di incorrere nel divieto di bis in idem, il quale viene in considerazione in caso di concorso apparente di norme.

Uno dei principi fondamentali in materia di sanzioni è la specialità, secondo cui non è possibile fare contemporanea applicazione di due norme sanzionatorie relative alla medesima fattispecie ove una delle due disposizioni presenti tutti gli elementi costitutivi dell’altra aggiungendone uno ulteriore specializzante (per aggiunta o per specificazione). Il principio di specialità è espressamente sancito dalla legge generale sulle sanzioni amministrative, n. 689/1981, all’art. 9, comma 1, in base al quale «quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale», secondo una formulazione che ricalca l’art. 15 c.p. Non a caso, a partire dalla nota sentenza Menarini [8], è stata riconosciuta alle sanzioni amministrative irrogate dall’Autorità antitrust italiana natura di «pena» ai sensi dell’art. 6, § 1, CEDU, pur non possedendo gli illeciti anti concorrenziali natura formalmente penale nell’ordinamento interno.

L’immagine geometrica che viene tradizionalmente associata al concetto di specialità è quella dei cerchi concentrici, per cui la norma speciale (cerchio più grande) prevale su quella generale (cerchio più piccolo) in quanto ne possiede tutti gli elementi più uno, che può essere aggiuntivo o specializzante (che, cioè, si aggiunge o circostanzia un elemento già presente). Attualmente, la giurisprudenza penale pressoché univoca [9] ritiene che l’unico criterio in grado di assicurare la certezza del diritto e, dunque, risultati sanzionatori prevedibili ex ante e non rimessi a giudizi di valore opinabili fondati su sfuggenti rationes legis (ovvero su presunte identità o diversità del bene protetto) sia quello della specialità, verificata mediante il raffronto fra fattispecie in astratto [10].

Esistono, infatti, altri due criteri – ancorché non codificati – volti ad evitare il bis in idem che, tuttavia, hanno l’inconveniente di fondarsi su giudizi di valore relativi alla natura del bene protetto o alla ratio legis che presentano margini di opinabilità e mutevolezza nel tempo. Si tratta, in particolare, dei criteri di assorbimento (o consunzione) e sussidiarietà, dove l’assorbimento opera in tutti i casi in cui la commissione di un reato comporti, secondo un giudizio di normalità causale, la commissione di un altro reato il cui disvalore sarebbe dunque “assorbito” dal primo, mentre la sussidiarietà intercorre fra norme che prevedono stadi o gradi diversi di offesa ad un medesimo bene, in modo che l’applicabilità dell’una implica la non applicabilità dell’altra [11]. L’assorbimento e la sussidiarietà nascono come valvole di sicurezza volte a mitigare la rigidità e, talvolta, l’ingiustizia che deriverebbe da un’applicazione rigorosa del principio di specialità [12]. Tanto che spesso, per non contraddire le proprie petizioni di principio, la giurisprudenza ammanta di “specialità” ciò che, a ben vedere, è una consunzione fra norme [13].


3. L'Adunanza Plenaria del 2012 e la c.d. specialità per settori

Sebbene in materia di pratiche commerciali scorrette si parli molto del principio di specialità come soluzione al rompicapo delle competenze, è utile chiarire i termini in cui si può intendere la specialità. Il criterio di specialità è, in primo luogo, uno degli strumenti dell’ordinamento costituzionale che serve ad ordinare i rapporti gerarchici fra le norme risolvendo, in concorso con altri criteri, i casi di antinomia, ed è espresso dal noto brocardo lex specialis derogat generali. L’art. 9 della legge n. 689/1981 e l’art. 15 c.p. costituiscono senz’altro una specificazione di tale criterio e tuttavia richiedono il verificarsi di presupposti determinati, ossia che le fattispecie legali presentino identità di elementi strutturali in astratto, più uno specializzante o aggiuntivo.

A sostenere la tesi della specialità tra ordinamenti normativi secondo lo schema lex specialis derogat lex generali è stata, in passato, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato [14] che, investita della questione relativa alla competenza sanzionatoria dell’AGCM e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (di seguito AGCOM) nelle attività di repricing nella telefonia mobile, ha stabilito che la disciplina di settore è speciale (e, dunque, prevale) rispetto alla disciplina generale consumeristica in applicazione di quanto statuito della normativa sovranazionale, recepita anche dall’ordinamento interno.

Le direttive europee, infatti, risolvono ex ante i casi di convergenza di norme stabilendo che, al fine di garantire un rapporto coerente tra la disciplina generale e le disposizioni dettagliate in materia di pratiche commerciali sleali applicabili a mercati settoriali, queste ultime prevalgono sulla prima laddove disciplinino aspetti specifici delle pratiche in questione «come [ad esempio] gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore» (considerando n. 10 e art. 3, par. 4, dir. 2005/29 [15]). L’art. 19, comma 3 [16], cod. cons. ha recepito tale regola riproducendo altresì una locuzione, per la verità non del tutto cristallina, usata dalla direttiva che subordina la prevalenza della normativa di settore solo «in caso di contrasto», la quale ha contribuito ad alimentare il dibattito sulla delimitazione, in concreto, delle competenze.

Nel caso approdato in Adunanza plenaria, un’impresa operante nel settore della telefonia mobile contestava la competenza di AGCM di irrogarle una sanzione per pratica commerciale scorretta sostenendo che ogni valutazione al riguardo fosse riservata ad AGCOM, in base al citato art. 19, comma 3, in qualità di Autorità di settore e quindi competente ad applicare una normativa speciale prevalente.

Viceversa, AGCM riteneva che la locuzione, «in caso di contrasto», avesse la funzione di evidenziare che la regola della prevalenza della disciplina di settore operava laddove le discipline intervenissero «a tutela del medesimo interesse, nei confronti degli stessi soggetti e delle stesse condotte con poteri analoghi». E ciò sarebbe escluso dal fatto che istituzionalmente AGCOM non è direttamente preposta alla tutela dei consumatori – in funzione della quale vengono sanzionate le pratiche commerciali scorrette – bensì alla salvaguardia della concorrenzialità del mercato della telefonia mobile e al pluralismo dell’informazione. Secondo la prospettazione dell’AGCM, la diversità del bene protetto dalle due norme (da una parte i consumatori, dall’altra la concorrenza nella telefonia mobile) e il fatto che la norma speciale nulla disponga di specifico rispetto ai comportamenti sanzionati da AGCM escluderebbero la regola della prevalenza di cui all’art. 19, comma 3, in quanto farebbero difettare la specialità: l’illecito posto in essere dall’impresa sanzionata, più che un unico fatto su cui convergono due norme apparentemente coesistenti sarebbe un duplice illecito, come se con un’unica condotta si fossero realizzati due illeciti [17], per i quali le Autorità procedono separatamente [18]. Proprio per questo motivo, secondo AGCM, la disciplina del codice delle comunicazioni elettroniche farebbe salva la propria competenza di applicare le disposizioni del codice del consumo [19].

L’Adunanza plenaria era stata dunque investita del compito di chiarire se esistesse o meno un rapporto di specialità fra i due plessi normativi tale per cui l’applicazione di quello speciale implicasse il ritrarsi di quello generale. La Sezione rimettente chiedeva altresì, ove fosse stata riconosciuta la complementarietà delle due discipline, di chiarire se ciò potesse dar luogo ad una violazione del divieto di ne bis in idem con una possibile sproporzione della pena irrogata tramite la tecnica del cumulo.

Il Collegio si era limitato ad esaminare la prima questione poiché ha ritenuto operante, fra la normativa generale a tutela del consumatore e la disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche, il criterio di specialità. E ciò anzitutto perché, dall’esame del codice delle comunicazioni elettroniche, degli atti regolatori e della struttura interna dell’Autorità, emergeva chiaramente la vocazione di AGCOM alla tutela del consumatore. Il riferimento al «contrasto» contenuto nell’art. 19, comma 3 si spiegava, infatti, con la volontà del legislatore di evitare sovrapposizioni in vista dell’applicazione della «disciplina che più presenti elementi di specificità rispetto alla fattispecie concreta» e dunque, più che in senso di conflitto, il «contrasto» rappresentava una «difformità di disciplina tale da rendere illogica la sovrapposizione delle due regole». Pertanto, la disciplina di settore, attraverso il suo elevato tasso di specificità, prevaleva, ove esaustiva e completa, sulla normativa generale.

Le argomentazioni dell’Adunanza Plenaria andavano, quindi, nel senso della specialità per settori anche se, in un passaggio motivazionale, il rapporto tra le due discipline veniva ricondotto nell’alveo del principio di specialità di cui agli artt. 9, legge n. 689/1981 e 15 c.p. che invece, come si è avuto modo di illustrare, richiede il raffronto fra fattispecie (astratte) e non fra plessi di norme.

Volendo ricapitolare, la competenza per i casi di pratiche commerciali scorrette nell’ambito dei settori regolati (quando la normativa è esaustiva e completa) spettava alle Autorità di settore in quanto il mancato rispetto della relativa disciplina non poteva che comportare una ipotesi tipica di violazione dell’obbligo di diligenza. Pertanto, quantomeno nel mercato delle comunicazioni – che recava, secondo il Collegio, una normativa esaustiva e completa –, la competenza di AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette non sarebbe mai esistita.

E a nulla valeva, in vista di una possibile riespansione della competenza di AGCM, il rinvio alla disciplina generale a tutela dei consumatori operato dall’art. 70, comma 6 del cod. com. elettroniche [20] in quanto esso costituiva semplicemente espressione della flessibilità del sistema che rimanda ad ogni altra disposizione di tutela del consumatore contenuta nella disciplina speciale non essendo possibile tipizzare tutte le condotte sleali. Diversamente opinando, sempre secondo l’Adunanza plenaria, si sarebbe riconosciuto ad AGCM una competenza a geometria variabile che «si amplierebbe o si restringerebbe a seconda della maggiore o minore estensione della disciplina dettata dall’Au­torità di settore».

Queste argomentazioni hanno sollevato diversi interrogativi, primo fra tutti quello relativo al trattamento della pratica scorretta – nel settore delle comunicazioni elettroniche – commessa nel formale rispetto della disciplina settore, ipotesi che la Plenaria sembra escludere a priori. Il che, peraltro, implica una indiretta presa di posizione nel dibattitto sulla effettiva capacità della regolazione di tutelare efficacemente i consumatori nonostante la pluralità di interessi cui essa deve tenere conto sia in sede di elaborazione delle norme sia in sede di valutazione della gravità dell’illecito compiuto.


4. La specialità secondo la Commissione europea e i tentativi del legislatore italiano

La decisione dell’Adunanza plenaria anziché porre fine al dibattito ha inaugurato un percorso tormentato che ha visto l’avvicendarsi dell’intervento del legislatore italiano prima, della Commissione europea poi, e di nuovo, del legislatore italiano.

All’indomani della pronuncia, infatti, il Governo ha ritenuto di dover intervenire per dare un’impronta formale legislativa all’interpretazione della specialità fra ordinamenti espressa dall’Adunanza plenaria. Così, in un primo momento, è stato approvato il d.l. n. 70/2012 recante l’abrogazione del comma 6 dell’art. 70 che disponeva il famoso rinvio alla disciplina (di settore, secondo i giudici della Plenaria) a tutela del consumatore come norma di chiusura. Successivamente, con il d.l. n. 95/2012, art. 23, comma 12-quinquiesdecies [21], il legislatore ha (tentato di) definire il riparto di competenze nelle pratiche sleali usando una formula invertita, ma nella sostanza analoga, a quella del Consiglio di Stato: veniva, cioè, ribadita la competenza generale dell’AGCM sulle pratiche commerciali scorrette salvo poi chiarire che, nei settori regolati e nei limiti degli aspetti regolati, le pratiche sono di competenza delle Autorità di settore (se titolari di finalità di tutela del consumatore) ove tale competenza discenda da norme di rango europeo.

Una norma, questa, che da una parte ratificava gli approdi interpretativi dell’Adunanza plenaria demandando alle Autorità di settore la competenza di occuparsi del commercio sleale realizzato tramite condotte tipizzate dalla normativa specifica, ma dall’altra sembrava – complice anche l’abrogazione del comma 6, art. 70 cit. – riaffidare la competenza all’AGCM nei casi di lacune normative, evidenziando una certa ritrosia a portare alle estreme conseguenze il ragionamento della Plenaria e dunque ad escludere sempre l’appli­ca­zione della disciplina antitrust nei settori regolati.

Gli spunti di riflessione relativi all’esegesi della norma sono stati, tuttavia, recisi sul nascere dalla lettera del 18 ottobre 2013 con cui la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione [22] nei confronti dell’Italia per mancata attuazione della direttiva 2005/29 in materia di pratiche commerciali scorrette.

L’obiettivo critico della Commissione, più che la norma di recente introduzione di cui al d.l. n. 95/2012, era proprio l’interpretazione dell’Adunanza plenaria che aveva sostanzialmente esautorato l’AGCM dei poteri di repressione delle pratiche commerciali scorrette in favore di ordinamenti speciali i quali, tuttavia, non sarebbero in grado – a giudizio della Commissione – di soddisfare in modo soddisfacente le esigenze repressive indicate dalla direttiva. Dunque, il criterio della specialità per settori non corrisponderebbe alla ratio delle direttive e la Commissione, pur ammettendo che l’art. 3, par. 4 della direttiva introduce il «criterio di lex specialis», ritiene che applicarlo per la prevalenza di una disciplina «nel suo insieme» (sic) è in contrasto con la normativa europea.

Dalla lettera di messa in mora emerge, infatti, il convincimento che, fatta eccezione per i casi in cui la normativa di settore regoli in modo difforme (id est, incompatibile) da quella generale aspetti specifici delle pratiche sleali, «in qualunque altro caso» le due discipline debbano concorrere e gli eventuali «requisiti specifici» non incompatibili «si aggiungono (sic) ai requisiti generali disposti dalla direttiva». Dove l’espressione «in qualunque altro caso» sembrerebbe alludere anche al caso della sovrapposizione (almeno parziale) fra norme. Se così fosse, la soluzione andrebbe nella direzione del cumulo delle sanzioni o, per usare il termine usato dai funzionari europei, della complementarietà delle discipline.

Soltanto che, se l’interpretazione del termine «contrasto» avuta in mente dalla Commissione fosse proprio nel senso letterale, ossia di incompatibilità/reciproca esclusione, essa non sembrerebbe avere molto a che fare con la specialità: si consideri una norma speciale che dovesse disporre la liceità di un certo comportamento il quale, in virtù della disciplina sul commercio sleale, integri un illecito; il fatto che in questo caso trovi applicazione solo la norma di settore, e non entrambe le norme contemporaneamente, è espressione del principio di non contraddizione che sta alla base della coerenza di ogni ordinamento e non applicazione del principio di specialità.

La Commissione prosegue, poi, con un’affermazione non del tutto cristallina secondo cui «contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato, l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva non consente di concludere che l’ap­plicazione della stessa possa essere esclusa solo perché esiste una legislazione più specifica per un dato settore. Tale affermazione è corretta solo se tale legislazione più specifica si fonda su altre norme dell’Unione e se è limitata agli aspetti da essa disciplinati». Così lasciando, di nuovo, intendere che esistano, nei limiti degli aspetti demandati alla normativa di settore, casi specifici di pratiche commerciali scorrette sottratte alla competenza di AGCM, cui, quindi, non si darebbe corso all’aggiunta dei requisiti cui la lettera accennava poco prima anche senza «contrasto».

L’opzione della competenza per aspetti specifici (id est, per fattispecie) alle Autorità di settore sembrerebbe, comunque, confermata anche dall’obiettivo dichiarato di ripristinare l’efficacia della direttiva quale «rete di sicurezza» a tutela dei consumatori in tutti i settori [23] «colmando le lacune di altre specifiche normative settoriali». Il che riecheggia la locuzione «limitatamente agli aspetti regolati» contenuta nell’art. 23, comma 12-quinquiesdecies, d.l. n. 95/2012 vigente al tempo dell’apertura della procedura di infrazione.

La Commissione ha, poi, smontato anche l’affermazione con cui il Consiglio di Stato negava la possibilità di un intervento “caso per caso” dell’AGCM sostenendo, invece, che la relativa disciplina «contiene criteri generali per valutare il carattere leale di una pratica commerciale e trova applicazione al di là della fase di commercializzazione, ossia anche durante e successivamente alla conclusione dell’operazione commerciale». Alla luce di ciò, «per quanto esaustiva possa essere una disciplina settoriale specifica nello stabilire obblighi informativi aggiuntivi nella fase precontrattuale, non si può escludere che, pur rispettando tali obblighi di trasparenza e pubblicità delle informazioni, un professionista metta in atto una pratica sleale, ad esempio traendo in inganno i consumatori in violazione dell’art. 5 della direttiva (“la clausola generale”)».

Questa affermazione sembra evocare la complementarietà delle due discipline nelle situazioni in cui, nonostante la disciplina di settore preveda delle ipotesi specifiche di pratiche commerciali scorrette, il rispetto formale di tali norme non esclude la competenza – come rete di sicurezza – di AGCM all’esito di una valutazione complessiva dell’operazione commerciale. Se così fosse, tuttavia, salterebbe il funzionamento della competenza per aspetti specifici perché, formalmente, i due illeciti, ancorché speciali, continuerebbero ad applicarsi contemporaneamente in astratto, a motivo della molteplicità di manifestazioni che contempla la norma generale. Salvo poi capire quale sanzione applicare in concreto per non violare il principio di proporzionalità.

Dal canto suo, il legislatore italiano ha fatto immediatamente dietro front sulla norma del 2012 ed ha inserito, all’art. 27 cod. cons., il comma 1-bis [24] il quale, pur avendo come obiettivo la chiarezza, ha invece a sua volta generato non poche criticità interpretative.

Tale norma ripristina, infatti, la competenza esclusiva di AGCM a reprimere le pratiche commerciali scorrette, anche nei settori regolati. Tuttavia, la disposizione stabilisce che le Autorità di regolazione mantengono comunque la capacità di «esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta». Il che può creare qualche problema giacché: o la norma intende fare salve le competenze di settore per gli illeciti che non lambiscano neanche indirettamente la tematica delle pratiche commerciali scorrette – ma ciò la renderebbe una norma di fatto inutile in quanto è evidente che le Autorità conserverebbero questi poteri; oppure – più probabilmente – vuole sottolineare che, a fronte di illeciti che coinvolgono profili specifici di pratiche commerciali scorrette, le Autorità di settore devono cedere il passo ad AGCM la quale, avendo una visione d’insieme dell’operazione posta in essere al di là della singola violazione, è l’unica autorizzata a sanzionare. Con l’implicita conseguenza che la norma di settore verrebbe, nella sostanza, disapplicata nonostante il comma 1-bis – con un ulteriore profilo di ambiguità – specifichi che è fatto comunque salvo «il rispetto della regolazione vigente» (cosa che, al contrario, lascerebbe intendere l’applica­zione del concorso delle norme). Peraltro, nel caso in cui AGCM ritenesse, all’esito dell’istruttoria, di non contestare all’impresa la realizzazione di una pratica commerciale scorretta, la norma di settore non potrebbe comunque più essere applicata anche a fronte di una sua violazione conclamata. Il che, oltre a realizzare ad una zona franca sanzionatoria discutibile, sembrerebbe contrastare con la linea espressa dalla lettera di messa in mora della Commissione nel senso dell’aggiunta della disciplina di settore – nei limiti della compatibilità – a quella generale.

Insomma, a fronte del nuovo comma 1-bis si è posto un nuovo interrogativo, e cioè se la normativa generale debba riconoscersi sempre speciale – per quanto paradossale ciò possa sembrare – rispetto a quella di settore, introducendo, di fatto, una nuova ipotesi di specialità per settori, stavolta rovesciata. Circostanza, questa, non esattamente il linea con quando ipotizzato dalla Commissione che, seppure nella vaghezza di alcune argomentazioni contenute nella lettera di messa in mora, sembrava andare nella direzione della complementarietà.

Al netto di ogni considerazione, sembra quindi che, nonostante l’intervento approntato dal legislatore nel 2014, sia rimasto irrisolto il nodo del principio di specialità, vero convitato di pietra nel dibattito sul riparto delle competenze.


5. L'Adunanza Plenaria del 2016: assorbimento o specialità?

L’interpretazione del comma 1-bis cit. ha prevedibilmente generato un contrasto all’interno delle Sezioni del Consiglio di Stato in ordine alla corretta applicazione della nuova regola. Nell’ambito della Sesta Sezione, infatti, è stato, dapprima, sostenuto che la norma è chiara nell’attribuire ad AGCM una competenza generale ed esclusiva ad intervenire in materia di pratiche commerciali scorrette, anche nei settori regolati e quindi anche a fronte di condotte contrarie a specifiche norme di settore di derivazione europea [25]. In seguito, la Sezione ha, invece, ipotizzato che AGCM sia titolare in via esclusiva del compito di intervenire solo ove la normativa di settore non abbia tipizzato – ex ante, precisano pleonasticamente i giudici – in modo completo ed esaustivo (secondo le espressioni usate dall’antica Plenaria) la regola comportamentale applicabile. In un’evenienza del genere, infatti, non si renderebbe necessaria la funzione di “rete di sicurezza” evocata dalla Commissione.

Pertanto, con ordinanza 18 settembre 2015, n. 4351 la sesta Sezione ha chiesto all’Adunanza Plenaria se il neointrodotto comma 1-bis cit. debba interpretarsi nel senso del riconoscimento ad AGCM di una competenza esclusiva in materia di pratiche commerciali scorrette, anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea ritenute idonee a reprimere il comportamento. Nel caso di specie, AGCM aveva contestato ad una multinazionale della telefonia mobile di aver attivato dei servizi di navigazione internet e segreteria telefonica sulle SIM vendute senza aver previamente acquisito il consenso del consumatore e senza averlo reso edotto della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità, esponendolo ad addebiti inconsapevoli. Tuttavia, la vendita delle SIM e, in particolare, l’utilizzo della tecnica opt out risultano essere materie demandate dalla legge alla competenza di AGCOM.

La soluzione fornita dall’Adunanza Plenaria [26] offre molti spunti di riflessione e apre diversi interrogativi.

Il Collegio prende le mosse dal caso concreto affermando che la condotta sottoposta al suo esame integra pacificamente una pratica commerciale scorretta, in specie aggressiva ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f), cod. cons., attuata mediante l’inosservanza degli obblighi informativi previsti dalla normativa di settore [27] e presidiati dall’AGCOM.

Proprio questo rapporto di strumentalità tra i due illeciti evidenzia, per la Plenaria, una ipotesi di «specialità per progressione» in cui la violazione di meri obblighi informativi realizza un più ampio illecito anticoncorrenziale «ben più grave per entità e per disvalore sociale». Per questo motivo, nel caso di specie non è ravvisabile nessuna specialità poiché, più che un conflitto di norme in astratto, viene in rilievo un’ipotesi di «assorbimento-consunzione, atteso che la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall’AGCOM è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata da AGCM».

In altri termini, la competenza di AGCOM è sostanzialmente assorbita da quella di AGCM perché il disvalore della violazione degli obblighi informativi è assorbito da quello insito nella pratica anticoncorrenziale.

Si è già visto come il principio dell’assorbimento (o consunzione) rappresenti una delle strategie escogitate dall’ordinamento per non incorrere nel divieto di bis in idem [28]. Dunque, deve ritenersi che secondo l’Adunanza plenaria l’applicazione della norma consumeristica esclude l’applicazione di quella specifica settoriale, onde evitare duplicazioni sanzionatorie. Dal che discende l’incompetenza nelle ipotesi tipiche di pratiche sleali dell’AGCOM che – tutt’al più – ai sensi del nuovo comma 1-bis cit., potrà segnalare tale violazione ad AGCM in sede di parere; con la difficoltà oggettiva di prevedere se l’Autorità antitrust deciderà di contestare una pratica anticoncorrenziale: essendo, infatti, la pratica scorretta il frutto di una valutazione d’insieme, il relativo provvedimento sanzionatorio potrebbe intervenire molto tempo dopo la violazione degli obblighi settoriali. E in questo lasso di tempo AGCOM ben potrebbe intanto contestare la violazione degli obblighi. In un caso del genere, quale sarebbe la sorte della contestazione adottata da AGCOM? Sarebbe forse auspicabile la previsione di onere preventivo di segnalazione di tali condotte in capo ad AGCOM.

Non a caso, forse, i giudici specificano che non costituisce violazione del principio del bis in idem la contemporanea pendenza di due procedimenti, bensì il fatto che «uno di essi venga instaurato o prosegua dopo che l’altro si è chiuso con una decisione definitiva, non importa se di assoluzione o di condanna». Chiarimento che, tuttavia, non riesce a dissipare tutte le criticità sopra illustrate.

Un meccanismo così delineato appare, oggettivamente, farraginoso. Non a caso nell’ordinamento penale il criterio dell’assorbimento opera attraverso le cc.dd. clausole di riserva che sono appunto volte ad evitare situazioni di sdoppiamento sanzionatorio. E la cui mancanza, peraltro, è suscettibile di generare diverse incertezze interpretative nel caso delle pratiche scorrette posto che nessuna disposizione stabilisce che tra i due illeciti esiste un rapporto di assorbenza. Così, secondo lo stesso ragionamento, l’assorbimento potrebbe essere ravvisato anche tra altri gruppi di norme senza che ciò corrisponda ad una chiara scelta legislativa. Con tutto ciò che ne potrebbe conseguire in termini di violazione del principio di tipicità dell’illecito di cui all’art. 1, legge n. 689/1981 [29].

Inoltre, ai sensi della direttiva 2009/29, «gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore» sono espressamente menzionati come «norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali», destinati a prevalere. Dunque, sembrerebbe che, mai come in casi del genere, debba operare il principio di specialità, in quanto esplicitamente evocato.

Tuttavia, la Plenaria ritiene che «il comportamento contestato all’operatore economico con provvedimento antitrust […] non è per nulla interamente ed esaustivamente disciplinato dalle norme di settore, la quale non comprende affatto un’ipotesi di illecito come quella considerata, ovvero una “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”».

Esaurita l’analisi del caso concreto, la Plenaria passa all’analisi del sistema operando un «revirement parziale» delle decisioni del 2012 [30] «nella misura in cui esse possano essere lette come mera applicazione dei criterio di specialità per settori e non per fattispecie concrete». Soluzione imposta, secondo i giudici, anche dall’apertura della procedura di infrazione e dalla, conseguente, introduzione del comma 1-bis all’art. 27 cod. cons.

Secondo il Collegio, nel caso in cui due norme appartenenti a diversi settori convergano sul medesimo fatto, la norma da applicare è una soltanto, quella speciale individuata secondo il criterio del «raffronto tra le fattispecie», non astratte, ma concrete.

La circostanza che il raffronto riguardi le fattispecie concrete piuttosto che quelle astratte non è priva di conseguenze: anzi, nell’ambito del ragionamento della Plenaria, assume un rilievo particolare poiché, comunemente, si ritiene che la specialità in concreto altro non sia che una forma di assorbimento mascherata.

In altri termini, le norme per essere speciali devono esserlo in astratto, ossia recare l’una – nella formulazione letterale – tutti gli elementi costitutivi dell’altra più uno, aggiuntivo o specializzante. Il fatto che concretamente ledano il medesimo bene, oppure che in concreto un illecito venga commesso per mezzo dell’altro non vale a renderle speciali. Ciò farebbe, infatti, saltare il principio di legalità perché il trattamento sanzionatorio non sarebbe più prevedibile ex ante, ma varierebbe a seconda delle modalità concrete dell’illecito.

Al riguardo, la dottrina penale ritiene che il criterio dell’assorbimento nasca dalla constatazione che il rapporto di specialità non è, da solo, in grado di risolvere tutte le ipotesi di concorso apparente di norme [31]. Soltanto che, affidandosi a un criterio così sfuggente, si rimette la determinazione della norma concretamente applicabile al giudice piuttosto che al legislatore, con tutto ciò che ne consegue in termini di incertezza per le imprese negli investimenti e nelle operazioni sul mercato.

La Plenaria, dunque, risponde ai quesiti riaffermando, a parole, il principio di specialità e, tuttavia, nei fatti, limitandosi ad enunciare un criterio di assorbimento che non sembra in grado di dare una risposta di sistema al problema delle competenze. Essendo, esso, basato sul concreto atteggiarsi del fatto dopo che è stato commesso: un criterio caso per caso che lascia – non l’ul­tima, come è giusto che sia ma – “l’unica” parola al giudice.

Peraltro, poco tempo dopo la pubblicazione della sentenza in udienza plenaria del Consiglio di Stato, la Commissione europea ha diffuso delle Linee guida sull’applicazione della direttiva 2005/29 in caso di pratiche commerciali scorrette disciplinate da norme di settore [32], a cui va riconosciuto senz’altro un apprezzabile intento chiarificatore, il quale tuttavia non sembra riuscire a sciogliere i dubbi di fondo.

Anzitutto, la Commissione “completa” la frase contenuta nella lettera di messa in mora del 2013, aggiungendo che la locuzione «in contrasto» usata dalla direttiva [33] riguarda non solo il «conflitto tra le due disposizioni» ma anche i casi in cui «il contenuto dell’altra disposizione del diritto dell’Unione si sovrappone al contenuto della disposizione pertinente della direttiva, per esempio disciplina il comportamento in questione in modo più dettagliato e/o è applicabile a un settore specifico» [34] così chiarendo che la norma speciale si applica in caso di identità di elementi costitutivi.

Il documento continua, poi, affermando che «La direttiva rimane nondimeno pertinente per valutare altri possibili aspetti della pratica commerciale non contemplati dalle disposizioni settoriali, come, per esempio, il comportamento aggressivo di un professionista» in quanto «l’applicazione della direttiva non è di per sé esclusa solo perché esistono altre normative dell’UE che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali». Il che non crea problemi se tale applicazione complementare riguarda pratiche commerciali scorrette diverse da quelle già contestate con l’applicazione della disciplina di settore posto che, se la norma specifica avesse già punito la pratica sleale, non avrebbe senso punirla di nuovo sotto altri punti di vista.

Tuttavia, la Commissione ritiene di chiudere il cerchio così: «La direttiva può quindi essere generalmente applicata assieme alle norme settoriali dell’UE in maniera complementare; pertanto, i requisiti più specifici stabiliti da altre norme dell’UE di solito si aggiungono ai requisiti generali stabiliti dalla direttiva, di norma per impedire ai professionisti di fornire le informazioni richieste dalla normativa settoriale in modo ingannevole o aggressivo, salvo il caso in cui questo aspetto sia specificamente disciplinato dalle norme settoriali».

Al netto di una formulazione alquanto vaga, sembra che la Commissione, pur auspicando l’applicazione della norma di settore al caso specifico in essa contemplato, ritenga che, ove la pratica sleale rivesta anche altre caratteristiche, si debbano applicare congiuntamente norma di settore e disciplina generale. Sempre nell’ambito della stessa unica operazione. Circostanza che, però, crea dubbi di compatibilità col divieto di bis in idem perché se effettivamente la disciplina di settore costituisse una ipotesi tipica di pratica realizzata tramite la violazione di un obbligo specifico, allora la relativa sanzione dovrebbe punire l’intero fatto della pratica commerciale scorretta. Ma se la competenza sulla restante parte della pratica rimane all’AGCM, allora forse è più corretto dire la norma di settore sanziona solo il fatto dell’inadem­pimento dell’obbligo previsto in sé, e non della pratica in generale. Diversamente opinando, si finirebbe per applicare due norme che puniscono la stessa cosa.


6. La specialità per fattispecie concrete non chiarisce i dubbi: l’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia

La soluzione prospettata dall’Adunanza plenaria non è stata in grado di chiarire i dubbi che avevano dato origine alla rimessione. Pertanto, la stessa Sezione rimettente ha ritenuto doveroso sollevare questione pregiudiziale interpretativa dinanzi alla Corte di Giustizia [35] nel tentativo di ottenere una parola definitiva sul riparto di competenze nelle pratiche commerciali scorrette e, in particolare, sulla compatibilità euro-unitaria dell’art. 27, comma 1-bis, cod. cons. [36].

Il Collegio ha, infatti, ritenuto che non fosse stato dato il giusto rilievo al fatto che il codice delle comunicazioni elettroniche costituisce il recepimento delle direttive europee 2002/19-20-21-22 ed ha sottolineato che gli artt. 70, 71 e 98 c. 16 cod. comunicazioni elettroniche «dettano una serie di disposizioni a tutela dei consumatori nel settore specifico delle comunicazioni elettroniche, attribuendo i relativi poteri regolatori e sanzionatori all’AGCOM». Affermazione che lascia velatamente intendere come, nell’applicazione di queste norme, la regolazione e la vigilanza siano intimamente connesse – due facce della stessa medaglia – dove solo l’Autorità di regolazione può comprendere appieno il significato e il peso della violazione, anche ai fini della commisurazione della sanzione. E ritenere che AGCM sia l’Autorità maggiormente in grado di garantire la tutela del consumatore appare più una petizione di principio che un dato empirico: non a caso, nel 2012, anche la Plenaria aveva osservato che «appare ben difficile sezionare chirurgicamente la disciplina [di settore], al fine di enucleare singoli interessi oggetto di tutela, poiché tale modus operandi contrasta con l’inevitabile unitarietà degli interessi operanti nelle singole fattispecie concrete. Ma soprattutto tale distinzione […] non trova riscontro nel dato normativo».

Da questo punto di vista, l’art. 27 comma 1-bis che devolve, in blocco, la competenza sulle pratiche sleali all’AGCM non appare in linea con l’ipotesi, pure espressamente contemplata dal legislatore europeo, che degli aspetti specifici di tali pratiche, previsti anch’essi dalla normativa europea, si occupino i soggetti dell’ordinamento attributari dei relativi poteri.

Tale disciplina non appare neanche perfettamente in linea con quanto a suo tempo contestato dalla Commissione europea che, nel lamentare la perdita di competenze in capo ad AGCM, non sembrava mirare a depauperare completamente le Autorità di settore dei propri poteri in materia di pratiche scorrette atteso il riferimento alla direttiva consumatori come una rete di sicurezza (e quindi come strumento residuale), Tanto più che in questo caso, l’illecito di settore considerato è espressamente contemplato dal legislatore europeo come ipotesi esemplificativa di aspetto specifico di pratica commerciale scorretta (cfr. considerando n. 10 direttiva 2005/29).

In tale contesto, effettivamente il binomio assorbimento-specialità in concreto offerto dalla Plenaria non sembra una risposta in grado di fornire una regola chiara di riparto ex ante. Binomio, questo, mai evocato né dalle direttive né dalla Commissione e che, oltre a creare delle frizioni con il principio di legalità nelle sanzioni amministrative, rischia di attribuire, prater – o addirittura, contra legem – una competenza, di fatto, regolatoria all’AGCM lasciandole mano libera nell’interpretare illeciti di settore.

Per questi motivi, la Sesta Sezione ha formulato una serie di quesiti alla Corte che mirano, in primo luogo, a chiarire se la ratio della direttiva 2005/29 quale “rete di sicurezza” e il principio di specialità così come inteso dalla direttiva ostino ad una normativa interna, di derivazione euro-unitaria, che escluda la competenza delle Autorità di settore a reprimere la violazione di direttive specifiche nei casi in cui sia astrattamente configurabile una pratica commerciale scorretta nonché, più, in generale, se la specialità consenta l’applica­zione necessitata della normativa generale in materia di pratiche scorrette anche laddove esista una disciplina di settore con prerogative regolatorie e sanzionatorie che preveda ipotesi tipiche di «pratiche aggressive» o «in ogni caso aggressive». Inoltre, alla Corte di Giustizia è richiesto di chiarire se la specialità debba essere intesa per settori o per fattispecie o per Autorità e se la nozione di contrasto di cui all’art. 3, par. 4, dir. 2005/29 sottintenda una radicale antinomia oppure anche un concorso di nome.

In altri termini, la Sezione rimettente ha chiesto alla Corte di puntualizzare se veramente il diritto europeo imponga, in materia di pratiche sleali, la disapplicazione di fatto di alcune norme (sempre europee) in favore di altre; se esista un criterio per individuare la norma applicabile diverso da valutazioni opinabili legate al fatto concreto e, infine, se non sia invece il caso di ritenere che, almeno in alcune situazioni, i vari illeciti concorrano.


7. Conclusioni
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Sono molte le considerazioni che potrebbero farsi sulla tormentata questione delle competenze nelle pratiche commerciali scorrette. Si potrebbe, ad esempio, affermare che la violazione della normativa di settore, più che ledere questo o quell’altro interesse singolarmente, rappresenti semplicemente un illecito plurioffensivo, che incide su una pluralità di interessi, e che quindi viene demandato alla competenza di una sola Autorità per questioni interne di suddivisione dei compiti. Ciò anche alla luce del fatto che non avrebbe senso altrimenti affermare l’indifferenza dell’Unione europea rispetto all’organizzazione interna se, per evitare duplicazioni sanzionatorie, occorre che entrambi gli illeciti vengano contestati dalla stessa Autorità (in quanto l’una Autorità non può indovinare che valutazioni farà l’altra). Pertanto, laddove le singole norme appaiano, raffrontate in astratto, speciali, si applicherà quella caratterizzata dal requisito ulteriore, per aggiunta o per specificazione. Negli altri casi, avrà luogo il concorso, che senza dubbio implicherebbe l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più gravoso per le imprese, ma che tuttavia potrebbe anche essere un giusto prezzo da pagare per conoscere con certezza in anticipo le conseguenze delle proprie azioni.

La verità, però, è che la materia delle sanzioni è estremamente delicata in quanto è in grado di influire sulle scelte degli operatori economici nello svolgimento delle operazioni di mercato e che sia il legislatore che la giurisprudenza italiani non sono riusciti ad applicare fino in fondo il criterio della specialità, anche perché il diritto europeo ha, al riguardo, fornito indicazioni contrastanti: da una parte, la prevalenza della disciplina di settore in casi specifici, dall’altro, la perdurante applicabilità della disciplina generale in relazione ad altri aspetti, senza specificare se questi altri aspetti debbano riguardare lo stesso fatto o meno. Con, forse, un po’ di ipocrisia nel non affermare apertamente che, a seconda del caso concreto, la violazione degli obblighi specifici assume talvolta la valenza di sintomo di un illecito più ampio, piuttosto che un’ipotesi tipica di pratica commerciale scorretta.

Dunque, al di là del rapporto fra norme di diritto interno (ancorché frutto della trasposizione di direttive), la soluzione del rompicapo risiede nel rapporto fra norme europee: cioè, come debba essere inteso il rapporto di specialità fra le norme sovranazionali. Il legislatore nazionale, infatti, non può dettare autonomamente un criterio di prevalenza di una norma europea su un’altra omologa in quanto non è abilitato – per il principio di primazia – a disapplicare una norma europea.

Da questo punto di vista, l’art. 27, comma 1-bis cit., sottraendo la competenza alle Autorità di settore in materia di aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette derivanti da norme euro-unitarie, probabilmente, si prende una libertà che non gli spetta.

La Sezione rimettente ha, dunque, saggiamente deciso di dare la parola alla Corte di Giustizia, l’unico organo competente a chiarire le modalità di applicazione del principio di specialità fra le norme europee, o meglio fra la direttiva 2005/29 e le direttive specifiche di settore.

All’esito del chiarimento dei giudici di Lussemburgo, anche il conflitto di competenze interno all’ordinamento italiano dovrebbe trovare finalmente la sua soluzione.

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NOTE

[1] L’ordinanza di rimessione del Consiglio di giustizia amministrativa 17 ottobre 2013, n. 848 sottoponeva i seguenti quesiti: «2) se, limitatamente alle questioni suscettibili di essere decise mediante l’applicazione del diritto dell’Unione europea, osti con l’interpretazione di detto diritto e, segnatamente con l’articolo 267 TFUE, l’articolo 99, comma 3, [codice del processo amministrativo], nella parte in cui tale disposizione processuale stabilisce la vincolatività, per tutte le Sezioni e i Collegi del Consiglio di Stato, di ogni principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, anche laddove consti in modo preclaro che detta adunanza abbia affermato, o possa aver affermato, un principio contrastante o incompatibile con il diritto dell’Unione europea; e, in particolare,

– se la Sezione o il Collegio del Consiglio di Stato investiti della trattazione della causa, laddove dubitino della conformità o compatibilità con il diritto dell’Unione europea di un principio di diritto già enunciato dall’adunanza plenaria, siano tenuti a rimettere a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso, in ipotesi ancor prima di poter effettuare un rinvio pregiudiziale alla [Corte di giustizia] per accertare la conformità e compatibilità europea del principio di diritto controverso, ovvero se invece la Sezione o il Collegio del Consiglio di Stato possano, o piuttosto debbano, in quanto giudici nazionali di ultima istanza, sollevare autonomamente, quali giudici comuni del diritto dell’Unione europea, una questione pregiudiziale alla [Corte di giustizia] per la corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea;

– se – nell’ipotesi in cui la risposta alla domanda posta nel precedente [trattino] fosse nel senso di riconoscere a ogni Sezione e Collegio del Consiglio di Stato il potere/dovere di sollevare direttamente questioni pregiudiziali davanti alla [Corte di giustizia] ovvero, in ogni caso in cui la [Corte di giustizia] si sia comunque espressa, viepiù se successivamente all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, affermando la sussistenza di una difformità, o di una non completa conformità, tra la corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea e il principio di diritto interno enunciato dall’adunanza plenaria – ogni Sezione e ogni Collegio del Consiglio di Stato, quali giudici comuni di ultima istanza del diritto dell’Unione europea possano o debbano dare immediata applicazione alla corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea per come interpretato dalla [Corte di giustizia] o se, invece, anche in tali casi siano tenuti a rimettere, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso all’adunanza plenaria, con l’effetto di demandare all’esclusiva valutazione di quest’ultima, e alla sua discrezionalità giurisdizionale, l’applicazione del diritto dell’Unione europea, già vincolativamente dichiarato dalla [Corte di giustizia];

– se, infine, un’esegesi del sistema processuale amministrativo della Repubblica italiana nel senso di rimandare all’esclusiva valutazione dell’adunanza plenaria l’eventuale decisione in ordine al rinvio pregiudiziale alla [Corte di giustizia] – ovvero anche soltanto la definizione della causa, allorché questa direttamente consegua all’applicazione di principi di diritto eurounitario già declinati dalla [Corte di giustizia] – non sia di ostacolo, oltre che con i principi di ragionevole durata del giudizio e di rapida proposizione di un ricorso in materia di procedure di affidamento degli appalti pubblici, anche con l’esigenza che il diritto dell’Unione europea riceva piena e sollecita attuazione da ogni giudice di ciascuno Stato membro, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione siccome stabilita dalla [Corte di giustizia], anche ai fini della massima estensione dei principi del cd. “effetto utile” e del primato del diritto dell’Unione europea sul diritto (non solo sostanziale, ma anche processuale) interno del singolo Stato membro (nella specie: sull’articolo 99, comma 3, del codice del processo amministrativo della Repubblica italiana)».

[2] La Corte si è espressa nei termini che seguono: “2) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale.

3) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che, dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea ad una questione vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell’Unione».

[3] Tale impostazione è stata “ratificata” anche dalla stessa Adunanza plenaria che, con la sentenza 27 luglio 2016, n. 19, ha affermato che «Alla luce dell’orientamento espresso della Corte di giustizia nella citata sentenza 5 aprile 2016, C-689/13, l’art. 99, comma 3, c.p.a. deve, dunque, essere interpretato nel senso che:

  1. a) la Sezione cui è assegnato il ricorso, qualora non condivida un principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria su una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione Europea, può adire la Corte di giustizia ex art. 267 TFUE ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale, anche senza rimettere previamente la questione all’Adunanza plenaria affinché questa riveda il proprio orientamento;
  2. b) la Sezione cui è assegnato il ricorso, dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia ad una questione vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione Europea da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di giustizia abbia già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell’Unione Europea.
  3. I principi così enunciati consentono, dunque, alle Sezioni cui è assegnato il ricorso sia di poter adire direttamente la Corte di giustizia, senza dovere prima rimettere la questione al­l’Adunanza plenaria, sia di poter disattendere il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria, ove esso risulti manifestamente in contrasto con una interpretazione del diritto dell’U­nione già fornita, in maniera chiara ed univoca, dalla giurisprudenza comunitaria.

Ciò non toglie, tuttavia, che l’Adunanza plenaria, nei casi, come quello del presente giudizio, in cui sia stata investita dalla sezione cui è assegnato il ricorso di una questione diretta a provocare in senso lato un “ripensamento” (una revisione o anche solo una specificazione, una mitigazione oppure semplicemente un chiarimento) su un principio di diritto precedentemente enunciato, possa pronunciarsi sulla relativa questione, eventualmente anche dando seguito ai dubbi di corretta interpretazione del diritto dell’Unione Europea prospettati dalle Sezione, rimettendo alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE».

[4] Sul sito istituzionale della giustizia amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it) è, peraltro, specificato che «a) questione analoga a quella sollevata dal C.g.a. nel 2013, era stata di recente rimessa all’Adunanza plenaria dalla V Sezione del Consiglio di Stato (ordinanza 17 marzo 2016, n. 1090, Pres. Pajno, est. Tarantino, riportata nella News dell’Ufficio studi in data 18 marzo 2016);

  1. b) identica problematica (e soluzione) è quella che si prospetta avuto riguardo all’art. 374, co. 3, c.p.c. (in relazione ai rapporti fra sezioni semplici e sezioni unite della Corte di Cassazione), nonché all’art. 1, co. 7, d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito con modificazioni, nella l. 14 gennaio 1994, n. 19 (in relazione ai rapporti fra sezioni giurisdizionali, centrali o regionali, e sezioni riunite della Corte dei conti); entrambe le menzionate disposizioni recano una norma di analogo tenore rispetto a quella sancita dall’art. 99, co.3, c.p.a.;
  2. c) Cons. giust. amm. 15 gennaio 2015, n. 1 ha effettuato direttamente, ai sensi dell’art. 267 FUE, un rinvio pregiudiziale alla Corte del Lussemburgo in materia di avvalimento e di tutela della buona fede del partecipante ad una gara di appalto, ritenendo non persuasivi, sul punto, i principi elaborati dall’Adunanza plenaria;
  3. d) costituisce ius receptum che l’obbligo del giudice del rinvio di uniformarsi alla regula iuris enunciata dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c. viene meno quando la norma da applicare in aderenza a tale principio sia stata abrogata, dichiarata incostituzionale, modificata o sostituita per effetto di ius superveniens, nell’ambito del quale rientrano i mutamenti normativi prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia UE, che hanno efficacia immediata nell’ordina­mento nazionale (cfr. da ultimo Cass., sez. lav., 12 settembre 2014, n. 19301; Corte cost. 28 giugno 2006, n. 252);
  4. e) coerentemente è pacifico che:
  5. I) il giudice del rinvio ex art. 384 c.p.c., il quale dubiti della conformità del principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, è tenuto a sollevare la questione pregiudiziale interpretativa innanzi alla Corte di giustizia, non potendo l’applicazione del diritto processuale nazionale limitare il tenore generale dell’art. 267 Fue (cfr. Corte giust. UE 15 gennaio 2013, C-416/10, ibid., voce Unione europea, n. 1077; 20 ottobre 2011, C-396/09);
  6. II) qualora il tenore della sentenza interpretativa sia in contrasto con il principio di diritto, sarà la prima a dover essere applicata dal giudice del rinvio: per tale orientamento, inaugurato da Corte giust. UE 16 gennaio 1974, C-66/73 (richiamata nella pronuncia in commento) v., tra le tante, Corte giust. 15 gennaio 2013, C-416/10».

[5] Direttive 2002/19, 2002/20, 2002/21 e 2002/22.

[6] Considerando n. 10 e art. 3, par. 4, direttiva 2005/29.

[7] R. CAPONIGRO, L’actio finium regundorum tra l’Autorità antitrust e le altre Autorità indipendenti, in Studi e ricerchewww.giustizia-amministrativa.it, 2013.

[8]Corte EDU, sez. II, sent. 27 settembre 2011, ric. n. 43509/08, Pres. Tulkens, Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia.

[9] Cass., Sez. Un., 16 giugno 2003, n. 25887, sentenza c.d. Giordano.

[10] Deve sussistere tra le due norme un rapporto di continenza formale.

[11] Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2008.

[12] Nell’ordinamento penale, infatti, tali criteri operano, normalmente, attraverso una previsione legislativa esplicita recata dalle cc.dd. clausole di riserva.

[13] C.d. specialità in concreto e specialità reciproca.

[14] Cons. St., Ad. plen., sent. 13 giugno 2012, n. 12.

[15] Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»).

[16] L’art. 19, comma 3, recita così «In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici».

[17] L’ipotesi che nel diritto penale è prevista all’art. 81, comma 1, c.p. cui viene applicato il trattamento del cumulo formale.

[18] Nel caso di specie, l’istruttoria di AGCOM si era conclusa in senso favorevole all’impresa ricorrente.

[19] Art. 70, comma 6, d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259, c.d. codice delle comunicazioni elettroniche.

[20] La norma è stata abrogata con il d.l. n. 70/2012 e recitava «Rimane ferma l’applicazione delle norme e delle disposizioni in materia di tutela dei consumatori».

[21] «L’importo massimo delle sanzioni di cui all’art. 27, commi 9 e 12, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in materia di pratiche commerciali scorrette, la competenza ad accertare e sanzionare le quali è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati, è aumentato a 5.000.000 di euro».

[22] Procedura d’infrazione n. 2169/2013.

[23] La Commissione, infatti, lamenta come, a seguito della Plenaria del 2012, fosse stata applicata la specialità per settori a praticamente tutti i mercati regolamentati ritenuti esaustivi.

[24]«Anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze».

[25] Cons. St., sez. VI, 5 marzo 2015, n. 1104.

[26] Cons. St., Ad. plen., sent. 9 febbraio 2016, n. 4.

[27] Artt. 70 e 71, d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259, c.d. codice delle comunicazioni elettroniche.

[28] L’assorbimento è comunemente denominato, in dottrina, principio del ne bis in idem sostanziale, cfr., per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2008.

[29] Art. 1. «Principio di legalità. Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati».

[30] Cons. St., Ad. plen., nn. 11, 12, 13, 14/2012.

[31] Per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2008, p. 671.

[32] Orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/ce relativa alle pratiche commerciali sleali” del 25 maggio 2016.

[33] Art. 3, par. 4, direttiva 2005/29 secondo cui «In caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici».

[34] La Commissione utilizza la parola «oppure» lasciando intendere che nel proprio concetto di contrasto non rientra la sovrapposizione e dunque ammettendo, implicitamente, che nella lettera di messa in mora il profilo della sovrapposizione era stato escluso.

[35] Cons. St., sez. VI, ord. 17 gennaio 2017, n. 167.

[36] La Sesta Sezione ha altresì rimesso alla Corte di Giustizia l’interpretazione del caso concreto chiedendole se fosse corretta la qualificazione in termini di pratica commerciale aggressiva e di pratica commerciale in ogni caso aggressiva.