Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Populismo, sovranismo e Stato regolatore: verso il tramonto di un modello? (di Marcello Clarich)


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SOMMARIO:

1. Lo Stato regolatore - 2. Stato regolatore, principi della democrazia liberale e populismo - 3. Lo Stato regolatore nell'età del populismo - 4. Il 'contratto di governo' e la fase iniziale della legislatura - 5. Conclusioni - NOTE


1. Lo Stato regolatore

Da qualche tempo, l’edificio dello Stato regolatore, costruito nell’ultimo quarto di secolo nel nostro Paese secondo i modelli anglosassoni, sembra mostrare segni di cedimento.

Conviene rammentare anzitutto i pilastri su cui si regge l’edificio eretto sulle macerie dello Stato interventista (programmatore, gestore) che ha dominato la scena nella gran parte del secolo scorso e che è stato abbattuto nell’ultima decade di quest’ultimo [1].

In primo luogo, lo Stato regolatore trova il suo humus naturale in sistemi economici nei quali il mercato è aperto alla concorrenza tra una molteplicità (o almeno una pluralità) di operatori. Una siffatta apertura richiede una cornice di regole e di istituzioni volte a garantire la par condicio tra gli operatori di mercato e il rispetto dei vincoli contrattuali, nonché le condizioni generali di stabilità atte a consentire il “calcolo economico”, al netto dei rischi fisiologici, e a promuovere gli investimenti. Questo processo è stato indotto nel nostro Paese, non tanto per spinte endogene, quanto piuttosto in seguito al recepimento di una serie di direttive europee di liberalizzazione emanate nell’ultimo scorcio del secolo scorso nei settori dei grandi servizi pubblici nazionali (energia, gas, comunicazioni elettroniche, poste, radio-televisione, ecc.).

È stato così smantellato il sistema dei monopoli legali, consentiti con larghezza dall’art. 43 Cost., che per decenni aveva visto come protagoniste le a­ziende di Stato e gli enti pubblici economici nella veste di operatori unici lungo tutta la filiera dell’attività.

Nel contesto di un’economia tendenzialmente chiusa e dominata dall’im­pre­sa pubblica operante in condizioni di monopolio, la regolazione era del tutto inesistente, data la sostanziale coincidenza tra soggetto regolatore e impresa regolata, o embrionale. Le stesse direttive e gli atti di indirizzo impartiti dai ministeri di settore e gli strumenti convenzionali erano da considerare, secondo le ricostruzioni della dottrina dell’epoca, più che strumenti di regolazione per così dire top-down, come la formalizzazione di proposte elaborate nella sostanza dalle imprese destinatarie, date anche le asimmetrie informative sussistenti tra queste ultime e il ministero di settore [2].

Smantellati i monopoli legali, il tema della regolazione economica diventa cruciale. L’apertura dei mercati alla concorrenza moltiplica infatti le relazioni giuridiche da disciplinare. Infatti, la regolazione non è più circoscritta a un unico rapporto verticale tra impresa monopolista e ministero di settore, ma deve coprire una trama più ampia di rapporti verticali e orizzontali. I primi sono intrattenuti dalle imprese in concorrenza con il regolatore di settore, mentre i secondi intercorrono tra le imprese stesse (i contratti di interconnessione nel settore della telefonia mobile, l’accesso alle reti, ecc.). A ciò si aggiungono i rapporti orizzontali tra i regolatori nazionali (autorità di settore e autorità della concorrenza) e verticali tra questi ultimi e i regolatori europei (agenzie europee, Commissione) all’interno di un sistema reticolare sempre più fitto.

Alla regolazione economica spetta il compito di creare i presupposti generali affinché possa svilupparsi una concorrenza tra una pluralità di operatori in contesti caratterizzati da monopoli naturali (reti non duplicabili) e dalla necessità di perseguire in modo efficace la missione di servizio pubblico (qualità elevata, universalità, continuità, abbordabilità, tutela dell’utente, ecc.).

Espunte le incrostazioni dirigistiche di una legislazione economica risalente molto spesso agli anni Trenta del secolo scorso, la regolazione si spoglia di ogni componente finalistica e di collegamento con obiettivi di politica industriale e di difesa dei “campioni nazionali”, per assumere il carattere di una regolazione condizionale [3]. Essa è cioè limitata ad assicurare il level playing field tra gli operatori.

Là dove lo Stato mantiene anche il controllo societario di alcune imprese ritenute strategiche, sempre per garantire la parità concorrenziale, le funzioni dello Stato regolatore devono essere tenute separate, anche sul piano organizzativo, da quelle dello Stato gestore. Le imprese pubbliche sono chiamate a competere sul piano paritario, senza privilegi, con quelle private e sono sottoposte anch’esse alla normativa antitrust. Le deroghe a quest’ultima, giustificate dall’esigenza di perseguire finalità di interesse pubblico, devono superare un test di proporzionalità particolarmente rigoroso.

In un siffatto contesto anche la possibilità del ricorso agli aiuti di Stato (sussidi, sgravi fiscali, garanzie pubbliche, ecc.) viene fortemente circoscritta dai Trattati e gli Stati nazionali vengono sottoposti a un regime di monitoraggio e di autorizzazione da parte della Commissione europea.

Una trama così fitta di rapporti da regolare non può essere affidata direttamente al Parlamento che non sarebbe in grado di seguire l’evoluzione tecnologica e degli assetti di mercato e di porre una disciplina di dettaglio adeguata. Da qui la necessità per il Parlamento di limitarsi alle “macroregole” che lasciano ampi spazi alla normazione secondaria. Quest’ultima, però, non viene affidata al Governo, bensì ad apparati di nuova generazione come le autorità amministrative indipendenti, dotate di competenze tecniche e di professionalità elevate e che, in linea con la natura condizionale della regolazione, sono sottratte in larga misura agli indirizzi governativi e scollegate dal circuito politico-rappresentativo. In questo modo esse sono in grado di garantire stabilità di assetti normativi e promuovere investimenti di lungo periodo da parte degli operatori.

L’accountability delle autorità è garantita dalla sottoposizione dei loro atti a controlli giurisdizionali, dall’applicazione rigorosa del contraddittorio procedimentale, dal loro inserimento in reti europee di regolatori di settore che fanno capo ad agenzie europee che attraverso raccomandazioni e orientamenti guidano l’attività dei regolatori nazionali, che sono sottoposti anche a forme orizzontali di peer review [4].

Le politiche di liberalizzazione sono state accompagnate da politiche di pri­vatizzazione, sotto la spinta sia di orientamenti politici volti a ridurre la pre­senza diretta dello Stato come operatore di mercato sia di necessità di tipo finanziario di Stati, come l’Italia, con equilibri della finanza pubblica precari dovuti anche a livelli di indebitamento assai elevati. Ciò anche se il diritto europeo mantiene un atteggiamento di neutralità nei confronti della proprietà pubblica o privata delle imprese. Come si è già sottolineato, le State owned enterprises, da sottoporre di regola in tutto e per tutto al diritto comune (diritto societario), devono soltanto competere con quelle private sul piano di parità. Il criterio del­l’operatore di mercato deve ispirare l’azione dello Stato ogni qual volta assume i panni dell’azionista o interviene con misure di sostegno a singole imprese o a settori di imprese potenzialmente in grado di distorcere la concorrenza [5].

Lo Stato regolatore presuppone inoltre un’apertura dei mercati non soltanto a livello di singoli Stati e a livello europeo, ma anche a livello globale nel quale sono presenti altri regolatori come il WTO, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, ecc.


2. Stato regolatore, principi della democrazia liberale e populismo

In termini più generali, lo Stato regolatore presuppone, almeno implicitamente, un ordinamento costituzionale ispirato al modello della democrazia liberale che, come noto, prevede l’esistenza di un sistema articolato di pesi e contrappesi volti a evitare la tirannia della maggioranza uscita vincitrice in una competizione elettorale [6].

Mentre il principio democratico governa la fase ascendente della legittimazione dei poteri pubblici lungo l’asse corpo elettorale-Parlamento-Governo, il principio liberale delimita per così dire dall’alto, a presidio di possibili degenerazioni autoritarie (la cosiddetta tirannia della maggioranza), gli ambiti decisionali di que­st’ultimo. Il principio liberale garantisce i diritti individuali e delle minoranze che altrimenti correrebbero il rischio di essere sopraffatte. Fin dal­l’e­poca del costituzionalismo settecentesco e delle Costituzioni americana e francese, la separazione dei poteri, il sistema dei check and balance e gli altri presidi dello Stato di diritto (riserve di legge, principio di legalità, diritti fondamentali, ecc.) hanno rappresentato la matrice che ha segnato gli sviluppi dei principali paesi occidentali [7].

L’equilibrio tra i due principi, che è scolpito anzitutto nelle Costituzioni e nel caso dell’Unione europea nei Trattati, è delicato e instabile. Le due possibili degenerazioni consistono, da un lato, nella democrazia illiberale, là dove, pur salvaguardando formalmente, il metodo della competizione elettorale, viene messo in discussione il ruolo dei contrappesi istituzionali (Corte costituzionale, magistratura, minoranze parlamentari, stampa indipendente, organizzazioni internazionali, ecc.); dall’altro nel liberalismo non democratico, là dove il complesso dei contrappesi istituzionali e dei vincoli esterni imposti agli Stati riduce progressivamente gli spazi di decisione e delle scelte rimesse in ultima analisi agli elettori e alla maggioranza parlamentare [8]. Con specifico riguardo al contesto europeo, nel quale si sta progressivamente affermando un regime sovranazionale privo di una base democratica e destinato a regolare il funzionamento degli Stati membri, si è parlato di “democrazia addomesticata dai mercati” [9].

In questo quadro, le tendenze populiste e sovraniste emergenti in questa fase storica in Europa e negli Stati Uniti spostano inevitabilmente l’equilibrio verso il primo estremo, anche come reazione alla percezione da parte di un’ampia fascia di elettori dello strapotere acquisito da alcuni dei contrappesi, specie nell’ultima fase conseguente alla crisi economica e finanziaria più recente.

Su questi temi si è formata ormai un’ampia letteratura che tende a dimostrare come la crisi economica e finanziaria abbia avuto un ruolo di “catalizzatore” dei tanti motivi di insoddisfazione, da tempo latenti, nei confronti delle politiche liberistiche e degli effetti della globalizzazione soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione [10]. Le reazioni in vari paesi hanno portato all’affer­mar­si di movimenti e partiti di matrice populista. Il populismo a sua volta contiene in sé una matrice illiberale che rimette in discussione i postulati del modello di Stato dominante nei paesi occidentali nella seconda parte del Ventesimo secolo.

In particolare, a differenza di altri movimenti e partiti politici che hanno dominato la scena negli ultimi decenni, il populismo nella versione più pura (ideal-tipica) avanza la pretesa di una rappresentanza diretta ed esclusiva del popolo, inteso come categoria astratta da porre al fianco di altre entità metafisiche (nazione, classe, ecc.) elaborate nelle varie fasi storiche dalle scienze sociali. Viene così meno il ruolo del governo come “governo di tutti” che è uno dei pilastri del costituzionalismo occidentale e in nome dell’appello ai “diritti della maggioranza” si fa largo il principio, teorizzato dal totalitarismo, della “pars pro toto” cioè “dell’esistenza di una parte (una sola) che può presumere, legalmente e di fatto, di rappresentare virtuosamente l’intero corpo sociale” [11].

Di conseguenza, una volta che si stabilisce che il “vero popolo” è necessariamente unico, viene rifiutato il pluralismo e con esso il confronto e il dibattito razionale tra visioni alternative dei bisogni e delle priorità di una determinata comunità politica. Solo i populisti rappresentano il popolo così concepito, al di là dei meccanismi elettorali della democrazia rappresentativa che peraltro dovrebbe essere sostituita, in tutto o in parte, con istituti di democrazia diretta anche con modalità oggi consentite dalle piattaforme telematiche.

Una venatura moralistica sta poi alla base dell’ostilità nei confronti delle élite politiche, economiche e tecnocratiche ritenute corrotte e lontane dal popolo e che impongono dall’alto politiche contrarie agli interessi di quest’ultimo. Le forze politiche contrapposte sono composte non da avversari nel gioco dell’al­ternanza democratica, ma da nemici da escludere da ogni forma di dialogo o confronto. Nei regimi liberal-democratici, invece, il conflitto e lo scontro, pur sempre presenti, non assumono “la forma di un “antagonismo” (lotta tra nemici), bensì la forma di un “agonismo” (lotta tra avversari)” la cui esistenza è per­cepita come legittima [12].

Lo stesso linguaggio usato nel dibattito pubblico è fatto per lo più di slogan e di tesi semplificate che riesce quasi impossibile confutare con ragionamenti fondati su argomentazioni razionali e su fatti accertati. Se prevalgono gli avversari nella competizione elettorale, quest’ultima è stata truccata (“rigged” nel linguaggio del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump) o falsata da poteri occulti interni ed esterni (per esempio, la finanza internazionale). Il complottismo, il vittimismo e la ricerca di capri espiatori sono ingredienti tipici del populismo [13].

Sul piano istituzionale, i contropoteri e i presidi anche costituzionali fondati sul principio liberale sono visti come ostacoli a realizzare la volontà del popolo [14]. Il pluralismo interno ai nuovi partiti non è garantito e i dissidenti vengono generalmente espulsi o messi a tacere e il consenso interno viene assicurato da meccanismi di rilevazione delle preferenze sulla base di votazioni organizzate su piattaforme informatiche poco trasparenti. La stessa dialettica parlamentare si imbarbarisce e il ruolo dell’opposizione viene misconosciuto anche là dove la decisione richiede maggioranze qualificate. Le garanzie procedurali sia in sede giudiziaria sia in sede amministrativa sono mal tollerate.


3. Lo Stato regolatore nell'età del populismo

Se quelli sin qui descritti sono per sommi capi il modello dello Stato regolatore e i tratti essenziali del populismo, non deve stupire che in questa fase storica la regolazione indipendente e le autorità ad essa preposte incontrino un’opposizione crescente. Esse infatti fanno parte strutturalmente dei contrap­pesi istituzionali che si riconnettono al principio liberale.

In realtà, non si può ignorare che lo Stato regolatore ha fatto fatica ad affermarsi nella cultura politica e giuridica del nostro Paese, dominata per decenni da ideologie, delle quali sembrano intrise, in misura maggiore o minore, le forze politiche che sostengono il Governo, favorevoli all’intervento pubblico nelle forme più intrusive (pianificazione e programmazione, proprietà e gestione pubblica delle imprese, sussidi statali, concessioni e autorizzazioni discrezionali, ecc.) [15]. Segni di ripensamento si sono manifestati già nella fase a­scendente del modello, per esempio, attraverso il trasferimento di alcune competenze inizialmente attribuite alle autorità di regolazione ai ministeri di settore.

La stessa crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 ha provocato crepe vistose all’edificio dello Stato regolatore con la messa a nudo di numerosi “fallimenti della regolazione”. Sono state così messe in campo, allo scopo di prevenire effetti sistemici (il cosiddetto effetto domino), misure urgenti di sostegno a favore di istituzioni finanziare sull’orlo del tracollo nella forma di ausili finanziari, ricapitalizzazioni, garanzie dirette o indirette degli Stati e altri tipi di intervento che non rientrano negli strumenti ordinari previsti da questo modello di Stato. In breve, lo Stato regolatore ha ceduto il passo allo Stato salvatore, con la sua “mano visibile” e pesante, specie nella primissima fase della crisi del 2008 [16].

Tuttavia, in una seconda fase, superato il momento più critico, lo Stato regolatore ha ripreso e potenziato il suo ruolo [17]. Ha esteso per esempio il suo raggio di azione alle agenzie di rating, rendendo più articolate e stringenti le regole soprattutto nel settore finanziario con l’obiettivo di ridurre i rischi sistemici e garantire maggior trasparenza. A livello europeo, è stato avviato il processo dell’Unione bancaria con il rafforzamento della regolazione di matrice europea e l’attribuzione di nuovi poteri di regolazione e di intervento agli apparati europei (alla Banca centrale europea, per quanto riguarda la vigilanza, al Resolution Board per quanto riguarda la risoluzione delle crisi bancarie) [18].

Questo processo ha comportato inevitabilmente una perdita di peso dei regolatori nazionali. Inoltre, ed è questo il fattore rilevante per misurare la crisi dello Stato regolatore, la percezione diffusa è che la regolazione venga elaborata in contesti tecnocratici sempre più disancorati dal circuito politico rappresentativo e calata, per così dire, dall’alto [19].

Più in generale, gli spazi di manovra nei quali possono muoversi gli Stati europei sono stati ridotti in seguito all’introduzione di una disciplina del bilancio più rigorosa, fondata su limiti all’indebitamento e su altri parametri rigidi (il cosiddetto Fiscal Compact[20]. Gli interventi della Commissione europea e di altri organismi internazionali (la cosiddetta Troika) nei confronti degli Stati membri che hanno imposto misure di austerità e riforme strutturali non previste dall’agenda politica nazionale sono stati vissuti come interferenze nella so­vranità proprio in una fase nella quale, anche per altri fattori (la pressione migratoria, gli effetti della globalizzazione economica, il terrorismo di matrice i­slamica, ecc.), gli Stati nazionali tendono a chiudersi maggiormente in sé stes­si.

La perdita di sovranità conseguente all’insieme dei vincoli europei, in alcuni Stati nazionali ha generato la sensazione di un trasferimento del potere reale dal cittadino elettore a un’élite tecnocratica poco sensibile alle esigenze delle fasce della popolazione più colpite dalla crisi economica e che hanno visto peggiorare il proprio tenore di vita, accrescere le diseguaglianze e svanire le attese di un miglioramento. Negli Stati maggiormente colpiti dalla crisi è stato imposto un “processo decisionale non-maggioritario (…) distaccato dalla responsività (di breve termine) verso i cittadini che ha imposto misure di austerità (riforme, fiscali di bilancio, del lavoro) “decise da attori esterni e implementate da attori interni”. La democrazia si è snaturata, almeno in parte, in una “democrazia senza scelta” [21]. Del resto, a livello più generale di analisi dei processi di globalizzazione, è stato messo in evidenza il paradosso secondo il quale sovranità nazionale, democrazia e globalizzazione non possono essere compiutamente realizzate in contemporanea [22].

Tutto ciò in un contesto nel quale ingenti risorse pubbliche sono state destinate per il sostegno di istituzioni finanziarie in crisi (anch’esse considerate come componenti dell’élite), salvate sacrificando anche i piccoli risparmiatori che hanno visto azzerare il valore dei propri titoli azionari e obbligazionari (cosiddetto bail-in). Lo stesso divaricarsi della forbice reddituale tra una cerchia ristretta di high earners e la grande massa della popolazione, che si è sentita minacciata nel proprio status anche dalla massa crescente degli immigrati, ha accresciuto il senso di frustrazione.


4. Il 'contratto di governo' e la fase iniziale della legislatura

Alla luce di quanto sin qui esposto, non deve pertanto stupire il fatto che siano emersi negli anni più recenti movimenti populisti e sovranisti, non solo in Europa, capaci di raccogliere gli umori profondi dell’elettorato. Nel nostro Paese, in seguito alle elezioni politiche del 2018 che hanno visto prevalere la Lega e il Movimento Cinque Stelle, si è giunti alla formazione tra le due forze politiche di un “governo del cambiamento” che si propone di riportare al centro dei processi decisionali, come reazione agli eccessi di quello che è stato definito in precedenza come liberalismo non democratico, il popolo sovrano contrapposto alle élite nazionali ed europee.

Basta scorrere l’inedito contratto di governo tra le due forze politiche che lo sostengono per rendersi conto come i presupposti dello Stato regolatore vengono messi in discussione. Anche se manca nel contratto un capitolo organico in materia economica e anche se i contenuti sono in molti punti assai generici, qualche indizio emerge qua e là nei trenta paragrafi nei quali esso è articolato.

In materia di servizi pubblici, viene espressa l’opzione netta per un “servizio idrico integrato di natura pubblica” in linea con gli indirizzi espressi nel referendum del 2011 (par. 2).

Viene proposta l’istituzione di una banca per gli investimenti, lo sviluppo dell’economia e delle imprese italiane regolata da una legge che preveda una garanzia diretta ed esplicita dello Stato. La nuova banca dovrà operare sotto la supervisione di un organismo di controllo pubblico con la presenza dei ministeri economici come “cabina di regia sulla gestione degli strumenti di politica industriale e del credito e dell’innovazione” (par. 5).

Con riferimento alla crisi di Alitalia, viene previsto un rilancio nell’ambito di un piano strategico nazionale dei trasporti “che non può prescindere da un vettore nazionale competitivo” (par. 27).

Nei rapporti con l’Unione europea si ritiene necessario rivedere l’impianto della governance economica oggi “basato sul predominio del mercato rispetto alla più vasta dimensione economica e sociale”.

Viene assunto anche un impegno a superare “gli effetti pregiudizievoli per gli interessi nazionali derivanti dalla direttiva Bolkenstein” (par. 29). Quest’ul­ti­mo riferimento allude soprattutto all’annosa questione delle concessioni demaniali per gli stabilimenti balneari e alla necessità imposta dal diritto europeo che esse vengano assentite in base a procedure competitive, una prospettiva quest’ultima osteggiata dai partiti che sostengono il nuovo Governo.

Questi passaggi sintetici del contratto di governo fanno intravedere un’im­postazione ispirata al recupero di un ruolo più pregnante dei poteri pubblici nell’economia che sembra porsi in contraddizione con i presupposti dello Stato regolatore.

Ma al di là di questo documento di incerta natura giuridica, che media tra i programmi elettorali delle due forze politiche presentatesi come antagoniste nel corso della campagna elettorale e che ora sostengono il nuovo Governo, il cambio di impostazione emerge da alcune azioni poste in essere nei primi mesi della nuova legislatura e dalle esternazioni pubbliche dei ministri responsabili.

Vanno richiamate anzitutto alcune prese di posizione che mettono in discussione il ruolo delle autorità indipendenti.

La vicenda principale è costituita dalla manovra finanziaria proposta dal nuovo esecutivo, che ha al suo centro il cosiddetto reddito di cittadinanza, la revisione della cosiddetta legge Fornero in materia di pensioni e la flat tax, misure varate nell’obiettivo di rilanciare la crescita economica, ma che mettono a rischio gli equilibri della finanza pubblica e violano le regole europee dettate dal Fiscal Compact.

Le autorità nazionali competenti in materia hanno messo in luce aspetti critici della manovra fin dalla fase iniziale, prima ancora che su di essa pervenissero i rilievi da parte dell’Unione europea.

Infatti, da un lato, l’Ufficio parlamentare di bilancio non ha validato le previsioni per il 2019 contenute nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (DEF) pubblicata il 4 ottobre 2018 che rendono eccessivamente ottimistica la previsione di crescita sia del PIL reale (1,5%) sia di quello nominale (3,1% nel 2019). Lo scenario programmatico delineato nella nota di aggiornamento “comporta una deviazione significativa della regola sul saldo strutturale sia in termini annuali sia in media su due anni”, come dichiarato dal presidente dell’Ufficio, Giuseppe Pisauro, in audizione davanti alle commissioni bilancio riunite di Camera e Senato il 9 ottobre 2018.

Dall’altro lato, il vice direttore generale della Banca d’Italia, Federico Signorini, sempre in sede di audizione in parlamento sulla nota di aggiornamento del DEF, ha dichiarato che “l’aumento dei trasferimenti correnti per il reddito di cittadinanza e pensioni e gli sgravi fiscali tendono ad avere effetti congiunturali modesti e graduali nel tempo” e ha stimato “che il moltiplicatore del reddito associato a questi interventi sia contenuto”. Quanto al sistema pensionistico, ove si voglia introdurre maggiore flessibilità circa l’età del pensionamento, co­me proposto dal Governo, “è necessario garantire l’equivalenza attuariale dei trattamenti previsti se si intende preservare la sostenibilità a lungo termine del sistema pensionistico, oggi un fondamentale elemento di forza delle finanze pubbliche italiane”.

Con riguardo alla manovra in materia di pensioni, la stessa Corte di conti, e per essa il presidente Angelo Buscema, ha sottolineato che “un indebolimento delle riforme che hanno contribuito ad una maggiore sostenibilità del nostro si­stema non può non destare preoccupazione”.

Le reazioni in sede governativa nei confronti di queste prese di posizione sono state negative.

Per un verso infatti i rilievi formulati dall’Ufficio parlamentare del bilancio (come anche quelli della Corte dei conti) sono rimasti senza seguito poiché il Governo non ha apportato alcuna modifica alla nota di aggiornamento inviata alla Commissione europea.

Si tratta di un fatto rilevante in special modo per quanto riguarda i rapporti con l’Ufficio parlamentare del bilancio che, com’è noto, è un organismo indipendente istituito in attuazione delle normative europee sulla nuova governance economica con legge rinforzata 24 dicembre 2012, n. 243. Esso è investito del compito di svolgere analisi e verifiche sulle previsioni economiche e di finanza pubblica del Governo e di valutare il rispetto delle regole di bilancio nazionali ed europee (artt. 16 ss.). In adempimento della sua missione l’Ufficio fin dall’inizio ha svolto una funzione di “contraltare” alle manovre proposte dai Governi in carica, esprimendo in particolare un giudizio negativo anche nei confronti della nota di aggiornamento presentata dal Governo presieduto da Matteo Renzi, che però aveva introdotto alcune modifiche alla manovra.

Poco rispettose del ruolo dell’Ufficio, che, secondo la legge opera, alla stre­gua delle altre autorità indipendenti, “in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione” (art. 1, comma 2), sono state talune esternazioni da parte di esponenti della maggioranza parlamentare secondo i quali il parere negativo dell’Ufficio appariva privo di fondamento scientifico e di profilo puramente politico e ciò anche perché i tre componenti dell’Ufficio furono nominati dal Governo presieduto da Matteo Renzi e, come tali, rispondono in qualche modo alla maggioranza parlamentare relativa alla precedente legislatura. In realtà, le modalità di nomina dei componenti dell’Ufficio riprendono il modello di altre autorità indipendenti caratterizzato dal fatto che la nomina avviene con modalità che presuppongono un consenso più ampio della maggioranza parlamentare che sostiene il Governo [23].

Quanto alle preoccupazioni espresse della Banca d’Italia nei confronti delle proposte in materia di pensioni in termini di sostenibilità finanziaria, il vice presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, ha censurato la presa di posizione in base all’argomento che la Banca d’Italia non si è presentata alle elezioni.

Per quanto non prive di efficacia comunicativa nei confronti di una parte consistente dell’elettorato, reazioni di questo genere, qui riportate solo a campione, denotano una cultura istituzionale carente. Sia l’Ufficio parlamentare di bilancio sia, a maggior ragione, la Banca d’Italia, anche in quanto componente del Sistema Europeo delle Banche Centrali, hanno il ruolo specifico di fungere da contrappeso ai governi in carica e alle maggioranze parlamentari, nell’inte­resse generale di lungo periodo della comunità. La loro legittimazione deriva direttamente dai Trattati europei e dalla Costituzione e non può passare, per definizione, da un’investitura per così dire dal basso.

Più in generale anche lo scontro frontale con la Commissione europea, che ha contestato la manovra finanziaria in quanto adottata in grave violazione delle regole e dei parametri europei liberamente accettati anche dallo Stato italiano, ha una duplice connotazione: da un lato, manifesta una scarsa considerazione degli impegni assunti in sede europea a partire dall’approvazione del Trattato sul Fiscal Compact; dall’altro fa trasparire l’insofferenza nei confronti di un altro attore neutrale nel gioco dei pesi e contrappesi qual è appunto la Commissione europea che, lungi da perseguire politiche proprie, assolve al ruolo di “guardiano dei Trattati” nell’interesse dell’intera Unione europea.

Sempre in tema di autorità indipendenti e di contropoteri tecnici vanno segnalati anche altri episodi.

Si pensi, per esempio, alla delegittimazione, spintasi fino alla richiesta di di­missioni, del presidente dell’INPS, Tito Boeri, che sulla base di computi tecnici aveva manifestato dubbi in sede di audizione parlamentare sulla sostenibilità finanziaria nel lungo periodo della riforma pensionistica proposta dal Governo.

Si pensi ancora alla contestazione del ruolo dei vertici burocratici del Ministero dell’Economia (Ragioniere generale dello Stato, Direttore generale, Capo di gabinetto), accusati di ostacolare la manovra economica e finanziaria impostata dal Governo e alla richiesta di una loro sostituzione con dirigenti più fedeli. Si pensi infine alla revoca dall’incarico del presidente dell’Agenzia spaziale italiana (Marco Bussetti, uno dei più illustri astrofisici italiani) da parte del Ministro dell’Università e della Ricerca e le conseguenti dimissioni di quattro dei cinque membri del comitato di selezione, organismo composto da scienziati italiani e internazionali e da esperti in alta amministrazione, al quale spetta l’individuazione, sulla base di un avviso pubblico, di rose di candidati alla carica di presidente e di consigliere di amministrazione degli enti di ricerca. Come precisato nella lettera di dimissioni, la decisione è stata presa a tutela del “principio costituzionale di autonomia della ricerca” [24].

In realtà, i civil servants, che secondo l’art. 98 della Costituzione sono, al pari di tutti i dipendenti pubblici, al servizio esclusivo della Nazione (e non già di una parte politica), da un lato sono tenuti al rispetto delle direttive politiche del Governo; dall’altro lato, per essere fedeli alla loro missione, hanno il dovere di rappresentare la non praticabilità di certe scelte o gli effetti negativi delle medesime sull’equilibrio dei conti e sulla sostenibilità nel lungo periodo della spesa pubblica e dell’indebitamento.

Emblematica è anche la vicenda delle dimissioni nel settembre 2018 del presidente della Consob, Mario Nava, a pochi mesi dall’assunzione delle funzioni (aprile 2018) a valle della designazione da parte del precedente Governo allo scadere della legislatura. Il tema del contendere, oggetto anche di interrogazioni parlamentari, riguardava la legittimità della nomina di un dirigente della Commissione europea in posizione di comando autorizzato dall’amministra­zione di appartenenza al fine di poter assumere le funzioni di presidente della Consob. Ciò alla luce della normativa italiana secondo la quale, invece, un dipendente statale o di un ente pubblico allo stato giuridico nominato a componente della Consob va collocato d’ufficio in aspettativa (art. 1, comma 5, della legge n. 216/1974). Sulle analogie e differenze tra comando, disciplinato dalle norme sullo stato giuridico dei funzionari europei, e aspettativa, disciplinata dalla normativa nazionale, si può discettare a lungo.

Certo è che la nomina del nuovo presidente aveva superato le verifiche di legittimità esterne e interne alla Consob nell’ambito del procedimento di nomina previsto dalla legge (Corte dei conti, Presidenza della Repubblica, verifica dei requisiti all’atto dell’insediamento). Averla rimessa in discussione, fino a provocare le dimissioni di un tecnico pienamente titolato a svolgere con autorevolezza ed efficacia il compito, costituisce uno strappo vistoso rispetto alle prassi precedenti.

Infatti, insieme ad altre iniziative, come la rivalutazione di decisioni in tema di progetti infrastrutturali e industriali (TAV, TAP, cessione del­l’ILVA, ecc.) approvati dal precedente Governo, fa intravedere un orientamento volto a negare “il principio, fondamentale nell’orga­nizzazione della politica moderna, della “continuità dello Stato” e ciò in base a un atteggiamento secondo cui “tutto ciò che è stato fatto dai governi che hanno preceduto quello attuale sia opera di nemici e che dunque esso non vincoli in alcuna maniera l’esecutivo in carica” [25].

Un altro tema riguarda le nomine dei vertici scaduti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e dell’Istat, oltre che quella del nuovo presidente della Consob. Il lungo tempo di vacatio trascorso e i nomi di possibili designati, apparsi sulla stampa, alcuni inadatti al ruolo, vuoi per scarsa competenza ed esperienza, vuoi per ragioni di affiliazione partitica, costituiscono altrettanti sintomi di una scarsa attenzione nei confronti di istituzioni fondamentali nel panorama di pubblici poteri. È evidente infatti, quanto alle tempistiche, che nelle more delle nomine dei vertici esse si limitano per lo più all’ordi­naria amministrazione rendendo meno incisiva la loro azione nei confronti delle imprese e dei mercati. Quanto alle qualifiche professionali e di indipendenza, per quanto si debba riconoscere che anche in passato sono state compiute scelte piuttosto discutibili e poco rispettose delle esigenze delle istituzioni coinvolte [26], sarebbe auspicabile risalire piuttosto che scendere la china.

In un contesto di delegittimazione dei poteri neutrali, persino il ruolo della magistratura è stato contestato, sempre in base all’idea della primazia del popolo sovrano e del Governo che lo rappresenta anche nei confronti di magistrati non eletti. L’argomento dell’assenza di una investitura elettiva è stato utilizzato dal Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in relazione a una comunicazione formale di avvio di indagini penali nei suoi confronti secondo la procedura speciale delineata per i reati compiuti dai ministri dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 attuativa dell’art. 96 della Costituzione, ricevuta dalla procura di Palermo sul caso del “sequestro” dei migranti trattenuti per alcuni giorni a bordo della nave Diciotti in condizioni igienico sanitarie precarie e in apparente violazione delle norme nazionali e internazionali.

Al di là delle vicende riguardanti specificamente le autorità indipendenti (e degli altri contropoteri neutri), lo stesso Stato regolatore, delle quali esse sono in qualche modo l’emblema, sembra essere rimesso in discussione nelle sue fondamenta attraverso il recupero del modello dello Stato interventista nelle sue varie dimensioni.

Si pensi al coinvolgimento delle cosiddette aziende di Stato in operazioni di politica industriale come in particolare il rilancio di Alitalia attraverso l’inter­vento delle Ferrovie dello Stato, oppure alla convocazione da parte della presidenza del Consiglio dei ministri dei vertici delle società partecipate dallo Stato (incluse quelle quotate) per un confronto in ordine alla politica di assunzioni del personale conseguente all’anticipazione dell’età pensionabile proposta dal governo. La stessa Cassa Depositi e Prestiti viene chiamata in causa ripetutamente come possibile partner in operazioni industriali.

Si pensi ancora alla cessione da parte di Fiat Chrysler Automobiles (FCA) di Magneti Marelli, società leader nel settore della componentistica per autoveicoli, a un gruppo giapponese (Calsonic Kansei) controllato da un fondo a­mericano e alle reazioni in sede politica volte a reclamare un potenziamento dello strumento della golden share allo scopo di proteggere maggiormente l’in­dustria nazionale.

Anche la riforma Madia sulle società a partecipazione pubblica, pur salvaguardata nel suo impianto generale, corre il rischio di subire rallentamenti e attenuazione nella fase attuativa di riordino e di messa in liquidazione soprattutto delle società partecipate dagli enti locali [27].

In materia di servizio idrico, in attuazione delle indicazioni già menzionate contenute del contratto di governo, parlamentari della maggioranza hanno presentato un progetto di legge volto a una ripubblicizzazione pressoché integrale del settore, prevedendo come forme di gestione soltanto l’azienda speciale o la società a partecipazione totale pubblica, istituendo un fondo nazionale per la pubblicizzazione, escludendo la finalità lucrativa delle gestioni [28].

Questi e altri sintomi potrebbero far ritenere che siamo in presenza di quelle che gli scienziati sociali definiscono come “giunture critiche”, cioè periodi di tempo relativamente brevi nei quali si realizzano modifiche rilevanti delle regole e delle procedure [29].


5. Conclusioni

La parabola dello Stato regolatore sembrerebbe dunque essere ormai nella fase discendente, peraltro non solo nel nostro paese. Una risalita nella curva non è da escludere, ma molto dipenderà dalla durata dell’attuale ciclo politico e istituzionale sulla quale sarebbe azzardato formulare previsioni. Decisiva sarà anche la questione se i difensori dei principi della democrazia liberale e del­l’economia di mercato sapranno liberarsi da alcuni dogmi, correggendo gli errori commessi nei decenni passati e offrendo risposte adeguate alle ansie e alle preoccupazioni di ampi strati della popolazione [30].

Dopo la crisi del 2008 si sono levate voci critiche nei confronti degli eccessi del liberismo economico, del livello crescente della diseguaglianza [31] e dei rischi derivanti dalla globalizzazione [32]. Si è anche rivalutato il ruolo dello Stato come di creatore di “valore pubblico” (“public value”) promuovendo l’innova­zio­ne, prima ancora che produttore, secondo la teoria dei fallimenti del mercato, di “beni pubblici” (“public goods”[33].

Il recupero del ruolo dello Stato regolatore andrebbe inserito dunque in una strategia più ampia che guardi in un modo più unitario la “economic regulation” e la “social regulation” [34].

Le vicende più recenti, che in Europa riguardano anche altri paesi come la Polonia e l’Ungheria nei quali le garanzie dello Stato di diritto sembrano vengono indebolite, confermano comunque la tesi secondo la quale i tasselli istituzionali che compongono il quadro di riferimento delle democrazie liberali, nel quale si iscrive anche l’esperienza relativamente recente dello Stato regolatore, sono difficili da comporre e da mettere a sistema, mentre è assai facile scompaginarli e disperderli.


NOTE

[1] Cfr A. LA SPINA-G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, 2000, p. 38 s. anche per la distinzione tra “social regulation”, nella quale la presenza diretta dello Stato e dei pubblici poteri trova una maggiore giustificazione, e “economic regulation”, che mira a correggere i cosiddetti fallimenti del mercato e alla quale specificamente si riferisce il modello dello Stato regolatore. La letteratura in tema è vastissima: cfr. F. MERUSI, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000; G. AMATO, Autorità semi-indipendenti ed autorità di garanzia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, p. 747; S. CASSESE, Dalle regole del gioco al gioco con le regole, in Mercato, concorrenza, regole, 2002, p. 271 s.; F. BASSI-F. MERUSI (a cura di), Mercati e amministrazioni indipendenti, Milano, 1993; S. CASSESE-C. FRANCHINI (a cura di), I garanti delle regole, Bologna, 1996; M. D’ALBERTI-A. PAJNO (a cura di), Arbitri dei mercati – Le autorità indipendenti e l’economia, Bologna, p. 201; M. CLARICH, Autorità indipendenti – Bilancio e prospettive di un modello, Milano, 2005.

[2] F. MERUSI, Le direttive governative nei confronti degli enti di gestione, Milano, 1977.

[3] La distinzione tra regolazione finalistica e condizionale è emersa da tempo nella letteratura amministrativistica per segnalare il passaggio dal vecchio al nuovo modello di governo dell’e­conomia per descrivere l’evoluzione cui è andata incontro la regolazione dei mercati. Cfr. S. CASSESE, Fondamento e natura dei poteri della Consob relativi all’informazione del mercato, in AA.VV., Sistema finanziario e controlli: dall’impresa al mercato, Milano, 1986, p. 49 ss.; L. TORCHIA, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, 1992; G. VESPERINI, La Consob e l’infor­mazione del mercato mobiliare. Contributo allo studio della funzione regolativa, Padova, 1993.

[4] Cfr. G. MAJONE, Independence vs Accountability? Non-Majoritarian Institutions and Emocracy in Europe, EUI Working Papers, 1994, p. 23 secondo il quale, se ben disegnato dal legislatore il modello delle autorità indipendenti consente di assicurare “che nessuno in particolare controlli un’agenzia indipendente, eppure che l’agenzia risulti comunque ‘sotto controllo ’”.

[5] OECD Guidelines on Corporate Governance of State-Owned Enterprises, 2015 Edition.

[6] Cfr. S. CASSESE, La democrazia e si suoi limiti, Milano, 2017 che sottolinea l’importanza del sistema dei check and balances e dei contropoteri allo scopo di tenere la maggioranza sotto controllo. I modelli di democrazia sono almeno due e cioè quello non maggioritario o madisoniano che tende a limitare il potere in modo da prevenire il rischio della tirannia della maggioranza e quello maggioritario o populistico che tende a concentrare tutto il potere nelle mani della maggioranza e quindi a “controllare tutto quello che la politica possa toccare”: cfr., nell’ambito dell’analisi del modello delle autorità indipendenti, A. LA SPINA-G. MAJONE (a cura di), op. cit., p. 65.

[7] Sull’importanza dello Stato di diritto e delle istituzioni della democrazia liberale ai fini dello sviluppo economico cfr. D. ACEMOGLU-J. ROBINSON, Why nations fail. The origins of power, prosperity and poverty, New York, 2012, p. 333; F. FUKUYAMA The origin of political order, New York, 2011, p. 245 s.

[8] Y. MOUNK, The people vs. democracy – Why our freedom is in danger and how to save it, Cambridge, 2018 per un’acuta analisi della crisi della democrazia liberale in questa fase storica.

[9] Cfr. W. STREECK, Tempo guadagnato – La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, 2013, p. 138 e ciò “mentre in passato erano i mercati a venire addomesticati dalla democrazia”.

[10] Cfr. L. MORLINO-F. RANIOLO, Come la crisi economica cambia la democrazia, Bologna, 2018 che si soffermano soprattutto sull’esperienza recente dei paesi del Sud Europa.

[11] Cfr. JAN-WERNER MULLER, What is populism, Filadelfia, 2016.

[12] Cfr. C. MOUFFE, Per un populismo di sinistra, Bari, 2018, p. 93.

[13] Quanto all’esperienza europea negli Stati europei con finanze pubbliche non in equilibrio e che nella fase più critica della crisi del 2008 rischiavano di “morire di austerità”, i capri espiatori preferiti sono stati i mercati finanziari, le istituzioni europee e i governi creditori colpevoli di imporre troppa austerità: cfr. L. BINI SMAGHI, Morire di austerità – Democrazie europee con le spalle al muro, Bologna, 2013, pp. 128-129.

[14] Di recente è stato affermato, soprattutto con riguardo alle vicende dei paesi dell’Europa dell’Est, che “what characterizes populists in power are their constant attempts to dismantle the system of checks and balances and to bring independent institutions like courts, central banks, medial outlets, and civil society organizations under their control”: cfr. I. KRASTEV, After Europe, Filadelfia, 2017, p. 75.

[15] Si è anche sostenuto che talvolta gli strumenti dello Stato regolatore sono stati utilizzati nei singoli Stati per finalità di politica industriale: cfr. M. THATCHER, From old to new industrial policy via economic regulation, in Rivista della Regolazione dei mercati, 2, 2014, pp. 6-22.

[16] Cfr. G. NAPOLITANO, Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in Giornale dir. amm., 2008, p. 1083 ss. Sul punto si vedano anche G. NAPOLITANO (a cura di), Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, Bologna, 2012; R. MICCÙ, Lo Stato regolatore e la nuova Costituzione economica: paradigmi di fine secolo a confronto, in P. CHIRULLI-R. MICCÙ (a cura di), Il modello europeo di regolazione, Napoli, 2011, p. 138 ss.

[17] Cfr. M. CLARICH, La “mano visibile” dello Stato nella crisi economica e finanziaria”, in Rivista della regolazione e dei mercati, 2015 ove si è sostenuta la tesi, più ottimistica di quella qui espressa (come emerge già dal titolo di questo saggio) alla luce dell’evoluzione in questa fase, secondo la quale, in conseguenza dei numerosi interventi intervenuti dopo la crisi del 2008, “lo Stato regolatore, pur soggetto a un ripensamento anche nei suoi presupposti teorici, non sembra giunto al tramonto, almeno nel mondo occidentale, anche se la sicumera di molti suoi adepti si è incrinata”.

[18] Cfr.M. CHITI-V. SANTORO (a cura di), L’unione bancaria europea, Pisa, 2016; E. BARUCCI-M. MESSORI (eds.), Towards The European Banking Union, Florence, 2014; E. CHITI-G. VESPERINI (a cura di), The administrative architecture of financial integration. Institutional design, legal issues. Perspectives, Bologna, 2015; M. CLARICH, I poteri di vigilanza della Banca centrale europea, in Dir. pubbl., 2013, p. 975 ss.

[19] Secondo Y. MOUNK, op. cit., p. 60 i cambiamenti intervenuti dopo la seconda guerra mondiale e la complessità delle sfide regolatorie dovute allo sviluppo tecnologico e al processo economico hanno determinato “a shift of power away from national parliements. To deal with the need of regulation in highly technical fields, bureaucratic agencies staffed with subject-matter experts began to take on a quasi-legislative role (…) This loss of power for the peoples’s representatives is not a result of elite cospiracy. On the contrary, it has occurred gradually, and often imperceptibly, in response to real policy challenges. But the cumulative result has been a creeping erosion of democracy”.

[20] Ci si riferisce al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria firmato a Bruxelles il 2 marzo 2012, al di fuori dei Trattati europei, da venticinque Stati membri.

[21] Cfr. L. MORLINO-R. RANIOLO, op. cit., pp. 183-184. Per la tesi secondo la quale i vincoli e­sterni di derivazione europea non costituiscono “non un limite alla democrazia, bensì un suo arricchimento” atteso che in questo modo i governi nazionali finiscono per rispondere non solo ai propri elettorati ma anche ad altri popoli e governi europei con i quali i singoli governi nazionali hanno stabilito di unirsi in un “condominio”. cfr. S. CASSESE, La democrazia e i suoi limiti, cit., p. 87.

[22] Le opzioni possibili sono solo, alternativamente, restringere la democrazia per guadagnare competitività nei mercati internazionali, limitare la globalizzazione per preservare la legittimazione democratica a livello nazionale, globalizzare la democrazia sacrificando la sovranità nazionale: cfr. D. RODRIK, The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy, New York, 2012.

[23] In base all’art. 16, comma 2, infatti i tre membri sono nominati, tra persone di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economica e di finanza pubblica a livello nazionale e internazionale, d’intesa dai presidenti del Senato e della Camera dei deputati nell’ambito di un elenco di dieci soggetti indicati dalle Commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza di due terzi dei rispettivi componenti.

[24] Cfr. art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2009, n. 213.

[25] Cfr. P. POMBENI, op. cit., p. 785.

[26] Per esempio, con riguardo alle nomine dei componenti dell’Autorità garante della concorrenza del mercato, è stata criticata la presenza nel collegio di soli giuristi: cfr. A. MACCHIATI, Un’autorità per giuristi?, in Mercato, concorrenza e regole, 2016, p. 359 ss.

[27] Una disposizione del Disegno di legge di bilancio 2019 autorizza le amministrazioni pubbliche a non dismettere le proprie partecipazioni societarie che non rispettano i parametri del d.lgs. n. 175/2016 nel caso in cui la società abbia conseguito un risultato medio in utile nei tre anni precedenti sospendendo l’applicazione della legge Madia in questa parte fino al 31 dicembre 2021.

[28] Cfr. Proposta di legge n. 52 presentata alla Camera dei Deputati, in Atti parlamentari, XVIII legislatura.

[29] Per l’impiego di questa terminologia con riferimento alla crisi del 2008 cfr. L. MORLINO-F. RANIOLO, op. cit., p. 12.

[30] Per alcuni possibili rimedi cfr. Y. MOUNK, op. cit., p. 184 ss.

[31] Cfr. B. MILANOVIC, Global inequality. A new approach for the age of globalization, Cambridge, 2016, p. 192 ss. secondo il quale nel mondo occidentale la globalizzazione ha portato alla crescita delle diseguaglianze e alla crisi delle classi medie e ciò può portare, come reazione, a un’involuzione della democrazia in “plutocracy” (Stati Uniti) o all’affermarsi del populismo o nativismo (specie in Europa).

[32] Cfr. per esempio D. RODRIK, op. cit., secondo il quale con riferimento agli eccessi della globalizzazione “our challenge today is to render the existing openness sustainable and consistent with broader social goals” (p. 253).

[33] Cfr., da ultimo, M. MAZZUCCATO, The value of everything. Making and taking in the global economy, Londra, 2018, p. 265.

[34] La social regulation ha come obiettivo quello di correggere una serie di effetti collaterali o esternalità delle attività economiche in campi quali la salute, l’ambiente, la sicurezza dei lavoratori e gli interessi dei consumatori e di attuare politiche redistributive volte a contrastare eccessi di diseguaglianza e a fornire i cosiddetti beni meritori (istruzione, abitazioni a prezzo politico per i poveri, ecc.). Cfr. già A. LA SPINA-G. MAJONE, op. cit., p. 38 ss., anche per l’osservazione secondo la quale, se è vero che il movimento della deregulation nasce dall’insoddisfazione verso la economic regulation, “le ragioni della regolazione sociale, invece non ne sono state sensibilmente indebolite, e hanno anzi conosciuto addirittura un rafforzamento”.