Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

One Size Fits All vs. principio di proporzionalità in ambito bancario e mobiliare (di Pierluigi De Biasi)


One size-fits-all is the traditional rule under the civil law system, where different rules of the same fact based on quantitative differences are scarce. A concept created by German scholars to limit the enforcement powers of the State, the proportionality rule, via the EU law became a fixture in the soft law production of the various authorities and standard setting institution. The principle, due to a spill-overeffect and to a new law is fully at home in the Italian law system.

The banking law and financial market law environments show that the proportionality rules are widely used and when they are not the effect is to eliminate small players from the market. However regulators implementing such provisions appear to pay lips service to the rule and de facto they impose to the regulated subjects to upgrade towards the more complex set of rules.

   

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La contrapposizione - 3. Una digressione su assetti alternativi - 4. Il passaggio da One-Size-Fits-All al principio di proporzionalità nel sistema bancario internazionale - 5. La regola di proporzionalità nella governance bancaria italiana - 6. Il mercato mobiliare, il principio One-Size-Fits-All e i FIA - 7. Una visione più ampia - NOTE


1. Premessa

L’ordinamento italiano tradizionalmente basato su regole che si applicano in via generale a tutti i consociati [1] ha recepito in epoche recenti, in modo che risulta particolarmente evidente nel diritto dell’economia e nel contiguo diritto amministrativo, gli effetti di una innovazione nel rapporto tra autorità e cittadino. Il principio di proporzionalità affermatosi nel diritto dell’Unione Europea è transitato nella produzione para-normativa delle varie autorità e standard setting institution, che elaborano principi, criteri, buone pratiche, linee guida, ossia che producono soft law. Parallelamente dapprima per un effetto di spill-over e poi anche per effetto di una recezione legislativa il principio ha trovato il suo posto a pieno titolo nell’ordinamento. Passeremo in rassegna alcuni esempi di fattispecie nelle quali viene usata la regola one-size-fits-all e altri retti dal principio di proporzionalità, tratti dalla normativa in materia bancaria e del mercato mobiliare, per poi verificare se l’applicazione quotidiana sia coerente con la regola enunciata. Non sarà oggetto di esame il contiguo tema della legificazione attraverso l’impiego di soft law, che pone evidenti problemi dati dallo stravolgimento del tradizionale processo di formazione delle norme, dalla carenza di accountability, per tacere della mancanza di responsabilità, in capo all’emittente e del generale aggiramento di ogni presidio democratico, quando si presuppone che le autorità nazionali siano tenute a conformarsi agli “orientamenti”, come è il caso, discusso in fine, dell’EBA e, in definitiva, pone inquietanti quesiti sulla redistribuzione della sovranità [2].


2. La contrapposizione

One-size-fits-all è il frutto diretto della regola pensata dal giurista: è generale e astratta. Il diritto tradizionalmente distingue tra diverse fattispecie e solo di rado distingue impiegando un concetto quantitativo (ad esempio, per una nor­ma tradizionale v. art. 1448, comma 2, c.c., e per una norma “tecnica” recente in materia regolata art. 29, comma 2-bis, TUB). Ancorché l’e­spressione sia tipicamente impiegata con riferimento a situazioni giuridiche di contenuto prevalentemente economico [3], è divenuta moneta comune in ogni campo del diritto [4]. Nel campo del quale si occupa il diritto dell’e­co­no­mia, fortemente impregnato di tecniche specialiste derivanti dall’incontro con altre scienze, la regola, di conio recente, si applica a situazioni nelle quale non esiste un interesse (del regolatore, degli attori o del mercato) a differenziare i trattamenti, ovvero quando il sotto-sistema normativo è relativamente semplice, mentre sull’altro versante la regola di proporzionalità si afferma quando la complessità del sistema si accresce ovvero aumenta la varianza tipologica tra i soggetti regolati. Il principio di proporzionalità, a lungo inglobato nell’area semantica della ra­gionevolezza [5], grazie all’influsso della normativa sovranazionale ottiene un autonomo riconoscimento come misurazione oggettiva di interessi in conflitto e si sostanzia nella definizione dell’assetto che sia al tempo stesso il più idoneo alla realizzazione dei fini perseguiti dai soggetti interessati e il meno gravoso per chi ne subisce gli effetti. Il principio di proporzionalità, che quando applicato in materie diverse dal diritto dell’economia ha un contenuto etico intuitivamente evidente, ha la funzione di limitare l’arbitrio del legislatore che tutto può [6]. Il principio, di origine tedesca [7], viene considerato dalle Corte di Giustizia un principio di rango costituzionale [8] e per il nostro ordinamento [9] risulta una importazione di origine comunitaria [10], a seguito del suo esplicito inserimento nei Trattati [11]. Il principio, che era nato in ambito giurisdizionale come criterio per valutare la conformità costituzionale delle leggi, divenne in seguito un principio legislativamente vincolante per l’azione [continua ..]


3. Una digressione su assetti alternativi

Prima di entrare nel merito, si deve rapidamente ricordare che one size fits all non è il solo principio che si può porre in regime di alternatività a quello di proporzionalità e infatti esistono casi nei quali l’alternativa è «comply or explain»: tipicamente il bilancio delle imprese è un modello uguale per tutte (one-size-fits-all) [19] e, quindi, ciascuna non è tenuta a spiegare una serie di scelte operate nella redazione del documento, ma in caso la singola impresa intenda discostarsi dalla regola (comply) deve darne conto e offrire una motivazione (explain): l’esempio più ovvio è l’art. 2423-bis, comma 2, c.c. che obbliga a fornire in nota integrativa una serie di motivazioni e informazioni per il caso di deroga ai criteri di valutazione tra un esercizio e l’altro, per tacere del caso – storico – delle «speciali ragioni» che consentivano la deroga alle valutazioni di bilancio secondo l’art. 2425 c.c. nel testo precedente la novella del 1991 [20]. In astratto esiste anche una differente configurazione di interessi, discussa da decenni dalla dottrina principalmente negli Stati Uniti [21], nella quale si ipotizza di diversificare le regole («personalize») applicabili a relazioni giuridicamente rilevanti, in dipendenza da specifiche caratteristiche di almeno una delle parti, che sono applicabili in mancanza di scelta esplicita di una diversa cla­usola [22]. La diversità rispetto alle norme derogabili note al nostro ordinamento è che la norma applicabile automaticamente per noi è una, laddove nel sistema discusso si avrebbero molteplici regole, ciascuna applicabile a un insieme di consociati. Come è stato osservato il dibattito si è sviluppato lentamente ha solo di recente trovato un inquadramento sistematico anche perché le limitazioni tecnologiche «would have rendered our approach wildly unrealistic» e il punto è ritenuto oggi superabile grazie alla rivoluzione portata da Big Data [23], innovazione tecnologica e rivoluzione di parametri interpretativi che obbliga tutti gli autori a esaminare profili di preoccupazione connessi alla privacy, essenzialmente minimizzando il problema [24]. L’evoluzione ha portato a indentificare come area [continua ..]


4. Il passaggio da One-Size-Fits-All al principio di proporzionalità nel sistema bancario internazionale

One-size-fits-all è uno slogan che si impone e gode di notorietà nel modo della regolazione, primariamente bancaria, grazie alla prima tornata di regole di Basilea nel 1988, considerando il Concordat del 1975 [31], e sue revisioni, come un grado zero della regolazione bancaria internazionale. Il passaggio dalla vigilanza strutturale, ossia dalla babele delle regolazioni nazionali, in larga maggioranza incardinate in diversi paesi (USA e Italia, per esempio, ma non Germania) su principi di specializzazione delle banche nell’erogazione del credito, di diversificazione dei soggetti e di limitata “competenza” territoriale [32], alla vigilanza prudenziale avviene imponendo regole uniformi sulla quantità di capitale che l’inter­mediario deve detenere, consentendo la più ampia scelta degli impieghi attraverso un semplice schema che definisce la ponderazione in base a ipotesi di rischio date dallo statuto del prenditore (Stato sovrano o supra-national, banca, impresa), lo Stato nel quale opera (OCSE oppure non-OCSE) o il tipo di garanzia ottenuta. Il sistema è semplice, poco costoso, flessibile e funziona benissimo in un sistema che si avvia a generalizzare l’ado­zio­ne della banca universale [33]. Ovviamente consente alla singola banca di operare arbitraggi [34], ma il sistema in generale funziona, può essere impiegato in ogni tipo di banca e costituisce un modo per level the playing field, peraltro considerando il solo rischio di credito. L’arrivo di tutte le successive ondate regolatorie, note come Basilea II e via crescendo di ordinale, porta a considerare altre variabili (rischio di tasso e di cambio, per esempio), a concepire regole organizzative di complessità sempre maggiore e regole di adeguatezza patrimoniale correlate alla valutazione del rischio più articolate di quanto fosse la matrice di Basilea I. Le valutazioni possono addirittura essere effettuate dal singolo intermediario e sono basate su modelli matematici che pochi sono in grado di capire e di verificare e talvolta su serie storiche inadeguate, perché inevitabilmente brevi: i derivati esistono solo dagli anni Novanta, per esempio, i derivati di credito da meno ancora. Per diretta conseguenza della crescente complessità il sistema deve rinunciare al modello one-size-fits-all e si provvede a far nascere [continua ..]


5. La regola di proporzionalità nella governance bancaria italiana

Rimanendo nell’area della banca consideriamo la sua governance [49]. Le disposizioni di vigilanza della Banca d’Italia [50] prevedono tre livelli di governance differenziati, per rispondere a possibili diverse strutture operative e dimensionali della impresa gestita. La regola di allocazione in una delle tre caselle in prima battuta è dimensionale, quindi oggettiva, ed è basata sugli attivi [51]; tuttavia se la banca ritiene che i criteri dimensionali non siano sufficientemente significativi per l’attribuzione a una delle tre categorie, vengono in rilievo alcuni criteri qualitativi. Di fatto poi la lettura del testo porta a comprendere che, forse inevitabilmente, la scelta di adottare un modello più complesso non deve essere spiegata, mentre quella di adottare un modello più “basso” deve essere giustificata e, dipendendo la scelta anche dalla dialettica con il regolatore, è ovvio che la tendenza sarà verso la scelta del modello più elevato, soluzione certamente gradita dal regolatore, la cui preferenza non può che indirizzarsi verso il modello più complesso e, in ipotesi, più protettivo nei riguardi dell’im­presa, anche ove sia forse eccessivo nel caso concreto. Il ruolo della vigilanza nel dissesto di una banca è sempre delicato [52]. Aver consentito l’adozione di un modello di grado due o tre per la gestione dell’im­presa e (quindi) dei suoi rischi, per il noto fallace ragionamento post hoc, propter hoc prova che l’adozione del modello più semplice è all’origine del dissesto. In fondo, con una analogia di non certissima tenuta, possiamo ricordare che la light touch regulation, pensiamo a quella svolta dalla FSA in UK, ha prodotto guasti incommensurabili [53] e quindi un pizzico sano scetticismo non pare completamente fuor di luogo. Non esiste, mancando una reale controprova (salvo i casi estremi, si vedano le situazioni nelle quali sono stati commessi fatti penalmente rilevanti), alcun metodo per correlare in modo affidabile e oggettivo il livello di sofisticazione del modello gestionale con il rischio assunto nella gestione dell’impresa e, in definitiva, con il suo risultato. La soluzione più efficiente (nel senso che assicura sicurezza) nella prospettiva del regolatore è quella [continua ..]


6. Il mercato mobiliare, il principio One-Size-Fits-All e i FIA

Il segmento del risparmio gestito ha visto succedersi regimi differenti. Le varie direttive UCITS [54] hanno imposto un modello, i fondi c.d. armonizzati, o­mogeneo nell’area EU e, infatti, il settore del risparmio gestito è l’area più transnazionale nella galassia della triade assicurazione – banca – mercato mobiliare. Uno degli effetti che conseguono all’adozione del principio one-size-fits-all, oltre a rendere comparabili le offerte di fornitori diversi, è stato quello di imporre costi significativi e quindi il mercato si è organizzato in modo che è cresciuta la massa gestita da ciascun operatore o, se si preferisce, esiste oggi, e lo si può desumere dalla lettura dei dati sulla dimensione degli OICR a­perti, una barriera all’entrata costituita da una soglia minima di masse gestite, per poter rendere economica l’operazione [55]. Dopo la crisi l’UE interviene sull’area, all’epoca lasciata alla discrezionalità nazionale, dei c.d. fondi alternativi (indicativamente i fondi immobiliari, di private equity ed hedge), imponendo loro una struttura regolatoria simile a quella alla quale soggiacciono i gestori di fondi UCITS [56], scelta che, per la verità, il nostro ordinamento aveva già compiuto all’alba degli anni ’90, disegnando una struttura molto simile per i gestori di fondi aperti e di fondi chiusi. One size fits all dunque? Nell’Italia fino all’arrivo della direttiva [57] sicuramente sì, il principio informava il sistema e si può serenamente dire che, a parte una serie di problemi sofferti dai fondi immobiliari, quasi certamente più per il tipo di bene che per difetti gestionali o di supervisione, il sistema ha mostrato criticità in rarissimi casi e la gestione della crisi è stata tale da non danneggiare gli investitori. Oggi, in effetti, l’assunto non è più del tutto vero. Per semplicità continuiamo a limitare il campo d’esame a casa nostra e ricordiamo che le norme attuative della direttiva AIFM rendono possibile, per gestori di fondi relativamente piccoli (c.d. sotto soglia), ricorrere a una struttura organizzativa semplificata, impiegando un capitale ridottissimo, scelta che parrebbe ispirata al principio di [continua ..]


7. Una visione più ampia

Una prima considerazione è che qualsiasi moderno documento di contenuto regolatorio paga un tributo formale [63] al principio di proporzionalità [64], ma la sola incertezza applicativa è una molla che spinge il soggetto regolato verso forme organizzative di rango superiore a quello per esso ipotizzabile. In una prospettiva un po’ più alta si potrebbe considerare che il principio di proporzionalità si deve applicare certamente alle norme sostanziali che regolano l’attività, ma ne dovrebbe derivare un modello condiviso di verifica sulla reale applicazione. In ambito bancario, invece, una recente indagine [65] indica che, dei 79 Paesi esaminati, 39 gestiscono ancora una ripartizione settoriale a triplice modalità e 23 hanno agenzie integrate (nove delle quali raddoppiano come autorità monetarie). Altri nove hanno due agenzie divise lungo linee settoriali, e otto hanno scelto un cosiddetto sistema twin peaks, con un’agenzia che gestisce la regolamentazione del mercato dei capitali e l’altra che controlla la condotta sul mercato e verso i clienti. Questa diversità strutturale non garantisce coerenza nell’attuazione di standard che, in linea di principio, sono di applicazione mondiale, ma anche limitandoci al territorio dell’Unione Europea vediamo che, all’interno dell’area euro, in metà degli Stati Membri la supervisione si trova all’interno della banca centrale, laddove nell’altra metà, conseguentemente, i supervisori sono esterni. Un’applicazione coerente richiederebbe che il Financial Stability Board indicasse un modello preferibile. È possibile dedurre che la mancata omogeneità nell’applicazione degli standard conduca a una struttura dei costi diversa tra operatori di magnitudine simile, ma soggetti a supervisori diversi. Se consideriamo le banche non quotate il punto è di limitatissima rilevanza: si tratta di banche il cui mercato è nazionale (e dunque la popolazione dello specifico insieme è omogeneamente trattata) e le cui azioni non hanno un definito valore di mercato giornalmente verificabile attraverso il prezzo espresso dalla borsa. Se consideriamo le banche quotate, spesso capogruppo di società con sede in Paesi diversi, la (ipotetica) differenza nel costo della compliance si [continua ..]


NOTE