Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Alle radici del paradigma regolatorio dei mercati (di Marcello Clarich)


Il saggio analizza la teoria della regolazione dei mercati partendo dalle assunzioni esplicite o implicite del modello. Il saggio analizza in particolare i fallimenti del mercato unitamente ai fallimenti dello Stato e si sofferma sull’ipotesi del marcato efficiente, che si autoregola e che ha influenzato per molti anni la regolazione pubblica. Prende in considerazione la teoria che applica all’economia il modello dell’evo­lu­zione elaborato nella biologia. Si sofferma infine su ideologie come il populismo che in anni recenti hanno condizionato le regolazione economica.

At the roots of market regulation theory

The essay analyzes the theory of market regulation starting from the explicit or implicit assumptions of the model. The essay analyzes in particular market failures together with state failures and dwells on the so called efficient market hypothesis (i.e. a self-regulating market) which has influenced public regulation for many years. It takes also into consideration a theory which claims that the evolution model developed in biology applies to the economy. Finally, he dwells on ideologies such as populism that in recent years have conditioned economic regulation.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. I fallimenti del mercato come radici “visibili” del paradigma regolatorio dei mercati - 3. Il principio di proporzionalità - 4. Le radici meno “visibili” - 5. L’ipotesi del mercato efficiente - 6. Il modello evoluzionista - 7. I fattori ideologici - 8. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

Il titolo di questo lavoro richiede una precisazione preliminare sul significato del termine “radici”. Anzitutto le radici possono essere intese in senso letterale. Si pensi a quelle degli alberi, che sono nascoste, cioè poste sotto la parte visibile della pianta. Nel nostro caso, volendo utilizzare la metafora, il tema sembra richiedere un’analisi dei presupposti e assunzioni implicite, appunto non immediatamente visibili, del paradigma regolatorio dei mercati ovvero dello Stato regolatore [1]. Le radici possono essere intese anche in senso figurato come le origini, il principio di qualcosa, la causa e, a tal riguardo, si potrebbero richiamare le varie definizioni proposte dalla filosofia. Nel nostro caso, il tema potrebbe dunque richiedere un’analisi delle ragioni per le quali si è affermato il paradigma regolatorio dei mercati in contrapposizione a quello precedente dello Stato interventista, nonché delle ragioni per le quali esso sembra andato in crisi. Entrambe le accezioni, applicate al modello del paradigma regolatorio dei mercati, portano a prendere in considerazione la teoria dei fallimenti del mercato, le assunzioni implicite dell’ipotesi del mercato efficiente autoregolantesi e le ideologie sottese al modello di Stato. Su questi temi verranno svolte alcune considerazioni, dopo aver richiamato in premessa che il paradigma in questione si è affermato, com’è noto, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, anzitutto nei paesi anglosassoni e poi nell’Europa continentale, specie in seguito alle direttive di liberalizzazione dei grandi servizi pubblici a rete negli anni Novanta del secolo scorso. Esso è stato dominante, in parallelo con l’espandersi del modello delle democrazie liberali, almeno fino alla crisi del 2008-2011 e da quel momento è oggetto di un ripensamento che, come si vedrà, ha messo in dubbio le stesse radici del modello.


2. I fallimenti del mercato come radici “visibili” del paradigma regolatorio dei mercati

Il paradigma regolatorio dei mercati, per proseguire nella metafora, affonda le radici, spesso, come si dirà, spesso visibili, nei cosiddetti fallimenti del mercato. La regolazione economica nasce, com’è noto, con il tentativo di correggere le situazioni di insuccesso o di “fallimento del mercato” (market failures) con strumenti di intervento e misure correttive di tipo autoritativo (o di command and control) [2]. Quanto ai fallimenti del mercato, si tratta di situazioni nelle quali il mercato deregolamentato, cioè retto esclusivamente dal diritto privato (diritto dei contratti e della responsabilità civile, tutela giurisdizionale), non è in grado di tutelare in modo adeguato gli interessi della collettività. Infatti, gli strumenti della regolazione pubblicistica intervengono quando le regole privatistiche (codice civile e delle leggi speciali riconducibili al diritto privato) non sono in grado di soddisfare le esigenze di correggere situazioni nelle quali le attività dei privati mettono a rischio interessi pubblici. Per esempio, per assicurare la tutela dell’ambiente si possono esercitare azioni civili di risarcimento dei danni nel caso dell’inquinamento (art. 844 cod. civ. sulle immissioni). Tale meccanismo, alla fine, non funziona perché i danni da inquinamento ambientale non possono essere contrastati efficacemente con azioni giudiziarie attesa la difficoltà, in molti casi, di individuare con precisione l’inquinatore, di provare il nesso di causalità (si pensi all’inquinamento diffuso), di coordinare e aggregare le azioni di un numero spesso elevato di soggetti danneggiati. Spesso poi, per ciascuno di danneggiati si tratta di small claims che pochi hanno interesse ad attivare, nonostante l’introduzione in molti ordinamenti delle azioni di classe. Inoltre, la responsabilità civile non consente una supervisione su base continuativa a tutela dell’interesse pubblico ambientale (le azioni sono iniziative individuali). In questa situazione interviene dunque la regolazione pubblica con le varie tecniche di “command and control” (regole rigide, piani, sanzioni, autorizzazioni preventive, ecc.) che gli studiosi della regolazione analizzano e classificano. La teoria dei fallimenti del mercato è stata quella che più ha condizionato chi ha teorizzato il paradigma regolatorio [continua ..]


3. Il principio di proporzionalità

Fa per così dire da trait d’union fra teoria dei fallimenti del mercato e regolazione pubblica – come assunzione inespressa che però trova anche qualche riferimento normativo puntuale [5] – è il principio di proporzionalità. Questo principio, com’è noto, trae origine dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa tedesca e che è stato fatto proprio dal diritto dell’Unione europea e poi dal diritto nazionale [6]. Esso si ispira a un paradigma ancor più generale, cioè la priorità del mercato rispetto allo Stato. È l’intervento dello Stato che deve essere giustificato, non la libertà dei privati di operare e contrattare sulla base dei principi del codice civile e del diritto comune [7]. Questo principio deve guidare il regolatore nella scelta degli strumenti correttivi e implica che tra gli strumenti astrattamente idonei a tutelare l’interesse pubblico, la scelta ricada su quelli meno restrittivi della libertà di impresa. In applicazione del principio di proporzionalità, gli interventi di tipo pubblicistico a correzione del fallimento del mercato si giustificano, com’è noto, in quanto sono idonei a correggere il fallimento del mercato rilevato; necessari, nel senso che non ci sono alternative meno penalizzanti e restrittive di situazioni anche privatistiche; adatti a risolvere complessivamente il problema, tenuto conto del complesso degli interessi in gioco e degli effetti della misura. L’applicazione del principio di proporzionalità consente quindi di misurare l’intervento pubblico e calibrarlo esattamente in funzione dell’esigenza specifica. La teoria dei fallimenti del mercato si traduce, in definitiva, in principi giuridici che ormai la giurisprudenza europea, ma anche quella nazionale, e in particolare il giudice amministrativo chiamato a sindacare gli atti delle autorità di regolazione, applicano con sempre maggiore dimestichezza e rigore [8].


4. Le radici meno “visibili”

Tuttavia, sono presenti anche altre radici, forse meno visibili, che hanno condizionato il paradigma regolatorio dei mercati e che può essere utile analizzare, non solo per spiegare le vicende dell’ultimo decennio, ma anche per orientarsi in una fase nella quale, anche in seguito alla diffusione delle nuove tecnologie, i mercati sono in rapida trasformazione e lo stesso diritto deve adattarsi alle nuove situazioni se non vuole perdere aderenza alla realtà [9]. Per individuare le radici meno visibili del paradigma regolatorio dei mercati, con riferimento agli anni antecedenti crisi degli anni 2008-2011, un riferimento utile può essere il rapporto Turner, dal nome del Presidente della Financial Services Authority (FSA), con sottotitolo “A regulatory response to the global banking crisis” [10], commissionato dal Ministro del Tesoro inglese nel 2009. Una parte del rapporto approfondisce il tema delle assunzioni implicite del modello regolatorio dominante. L’obiettivo di questo studio era in realtà anche quello di indagare le cause e le lezioni da trarre dalla crisi del 2008. Essa fu prevista solo da pochi economisti, che però, quando negli anni 2006-2007 avevano ipotizzato un eccesso di rischio che gravava sui mercati finanziari, erano stati criticati dai propri colleghi, ciò in nome del paradigma del mercato che si autocorregge e che non ha bisogno di interventi esterni (e tutt’al più con le ricette del “Washington con­sensus” dettate soprattutto per i paesi in via di sviluppo). Insieme alla revisione delle cause della crisi, il governo inglese chiese di formulare una serie di raccomandazioni sui cambiamenti nella regolazione e nell’approccio alla vigilanza necessari per creare un sistema bancario più solido. Le cause della crisi economica del 2008-2011 indicate nel Turner Review, includono, per esempio, l’innovazione tecnologica nei mercati finanziari e la diffusione di strumenti finanziari poco trasparenti e complessi, soprattutto per quanto riguarda l’allocazione del rischio che si disperdeva in una serie di transazioni intermedie spesso opache. Si riteneva peraltro che i rischi collegati a questi strumenti finanziari complessi potessero essere controllati e dominati in gran parte attraverso l’appli­ca­zione di modelli matematici sempre più sofisticati, che avevano creato [continua ..]


5. L’ipotesi del mercato efficiente

Il rapporto tratta anche la questione delle assunzioni teoriche alla base dei precedenti approcci alla regolazione, messe in discussione dalla crisi del 2008. Quella più rilevante è l’ipotesi del mercato razionale ed efficiente (efficient market hypothesis), alla quale sono collegate alcune asserzioni con implica­zioni sull’approccio regolatorio: i prezzi di mercato sono buoni indicatori del valore economico valutato razionalmente; lo sviluppo del credito cartolariz­zato, basato sulla creazione di mercati nuovi e più liquidi, ha migliorato sia l’efficienza allocativa che la stabilità finanziaria; le caratteristiche di rischio dei mercati finanziari possono essere dedotte dall’analisi matematica, fornendo solide misure quantitative del rischio di negoziazione; la disciplina di mercato può essere utilizzata come strumento efficace per limitare l’assunzione di rischi dannosi; l’innovazione finanziaria può essere considerata vantaggiosa in quanto la concorrenza sul mercato eliminerebbe qualsiasi innovazione che non apporti valore aggiunto [11]. Ebbene, il rapporto contesta l’assunzione che i mercati sono sempre razionali, così da giustificare una presunzione forte in favore dei mercati deregolamentati e contraria a ogni forma di interevento pubblico. Secondo questa visione il “policymaker”, vale a dire, il regolatore, non è quasi mai in grado di valutare meglio dei mercati le misure da adottare per migliorare il funzionamento di questi ultimi. In definitiva, l’ipotesi del mercato efficiente si fonda, da un lato, su una fiducia quasi incrollabile nel mercato che si autoregola, seleziona i rischi e li contiene, e dall’altro, da una sfiducia altrettanto marcata nelle autorità pubbliche che intervengono a regolare i mercati [12]. Il rapporto critica queste assunzioni e sottolinea, per esempio, che la razionalità individuale non si traduce automaticamente in una razionalità collettiva, perché le azioni dei singoli individui possono, se intraprese in condizioni di informazione imperfetta o indotte da particolari relazioni tra gli investitori finali e i loro agenti di gestione patrimoniale, determinare, a livello di sistema, movimenti dei prezzi di mercato caratterizzati da uno slancio auto-rinforzante che li rende a un certo punto insostenibili [13]. Prove empiriche dimostrano inoltre che i [continua ..]


6. Il modello evoluzionista

Negli ultimi anni sta prendendo piede anche un filone di pensiero che nega un’altra assunzione implicita e cioè la possibilità di applicare o simulare le leggi della fisica ai modelli economici. È questo l’orientamento dominante tra gli economisti, a partire da Paul Samuelson che, in uno dei testi di economia più diffusi a livello mondiale, aveva infatti equiparato le leggi dell’economia alle leggi della termodinamica [17]. Alcuni studiosi di economia e delle scienze sociali ritengono invece che i mer­cati vadano analizzati non tanto con modelli di razionalità che valgono per le cosiddette “scienze dure”, quanto piuttosto secondo il modello evoluzionista delle scienze biologiche. In questa prospettiva, per esempio, Andrew W. Lo, in un recente volume sui mercati adattativi, applica la teoria dell’evoluzione di Darwin ai mercati finanziari e sostiene in particolare che il sistema finanziario non è un sistema meccanico o fisico, bensì “an ecosystem, a collection of interdipendent species all struggling for survival and reproductive success in an ever-changing environment” [18]. Secondo questa impostazione, dunque, la disciplina dei mercati deve adattare le proprie regole a un contesto assimilabile a un sistema biologico in continua evoluzione. Il diritto viene considerato come una sorta di software o di sistema operativo che in qualche modo sta alla base anche dei comportamenti degli attori sul mercato [19]. In ogni caso, al di là delle critiche al modello tradizionale, non sembra essersi ancora sviluppato un nuovo paradigma alternativo perché le teorie delle neuroscienze non hanno costruito un modello strutturato e integrato. Nella fase attuale, le vecchie r adici non sono ancora state sostituite, né sono sostituibili, con altre che abbiano un’analoga capacità esplicativa. Infatti, secondo lo stesso Andrew Lo “it takes a theory to beat a theory, and the behavioral finance literature hasn’t yet offered a clear alternative that does better” [20].


7. I fattori ideologici

I rapporti tra Stato e mercato hanno subito nel tempo varie oscillazioni, con fasi di maggior e minore dominanza del primo, alla base delle quali va considerato anche il fattore ideologico, anch’esso da considerare come una radice invisibile o forse come un elemento causale [21].  Si pensi all’ordoliberalismo tedesco (Ordoliberalismus), fondato sulla li­bertà economica individuale e su una forte componente etica e che ha ispirato il modello dell’economia sociale di mercato. La lotta ai monopoli, il de­cen­tramento dei poteri e un approccio di tendenziale neutralità tra Stato e mer­cato ha dominato l’assetto regolatorio dell’economia della Germania dal se­condo dopoguerra in poi [22]. Si pensi invece, per contrapposizione, alla pre­cedente impostazione di segno molto più interventista della socialde­mocrazia tedesca, che sta alla base dello Stato sociale e il cui avvento risale alla fine dell’Ottocento, con l’affermarsi di movimenti e partiti di matrice socialista o marxista. Il paradigma regolatorio dei mercati, consolidatosi nell’ultima parte del secolo scorso ed estesosi a livello mondiale, ha come radice nascosta il predominio della visione liberal-democratica che, soprattutto dopo il crollo dei regimi di stampo socialista dopo il 1989, non sembrava avere più competitori credibili [23] . Nella fase più recente, successiva alla crisi del 2008-2011, il paradigma regolatorio dei mercati tradizionale è messo in crisi, non solo in seguito alle critiche interne al modello già esaminate, ma anche dall’espandersi di ideologie di stampo sovranista e populista che contestano i paradigmi dominenti negli anni più recenti. La crisi finanziaria ed economica ha avuto due risvolti paralleli. Da un lato, ha provocato crepe vistose all’edificio dello Stato regolatore con la messa a nudo di numerosi “fallimenti della regolazione”. Nell’immediato, per evitare il tracollo del sistema finanziario, lo Stato regolatore ha ceduto il passo allo Stato salvatore specialmente nella prima fase della crisi del 2008 [24] con la messa in campo di quasi tutti gli strumenti tradizionali della regolazione economica (finanziamenti e garanzie pubbliche in deroga alla disciplina degli aiuti di Stato, proprietà pubblica, ecc.). Dall’altro lato, la crisi recente ha favorito lo [continua ..]


8. Conclusioni

Le relazioni tra Stato e mercato sono sempre influenzate dal cambiamento del clima culturale e politico dell’epoca in cui si vive. Nella fase attuale la re­golazione sta incontrando un’opposizione crescente all’apertura dei mercati a livello nazionale e a livello globale, anche a causa dei sovranismi e delle ten­sioni geopolitiche sempre più evidenti. Le idee e le certezze che hanno costituito i pilastri fondanti della regolazione economica da almeno un trentennio sono in crisi e le stesse democrazie liberali non sembrano in buona salute [28]. Per ritornare in auge, quest’ultime de­vono imboccare il “corridoio stretto” i cui confini sono segnati da uno Stato forte e autorevole e da una società civile altrettanto forte e vigile [29]. Scenari di incertezza stanno emergendo, da ultimo, anche in seguito alla pandemia da Covid-19 che ha già provocato in Europa e a livello globale l’a­dozione di misure di intervento in materia economica che si pongono agli antipodi del paradigma della regolazione di mercati e che vanno nella direzione di una presenza diretta o indiretta degli Stati e della deglobalizzazione. La crisi che si prospetta, ancor più grave di quella del 2008 e che minaccia di accrescere le tensioni geopolitiche a livello globale, apre scenari oggi imprevedibili. Ad ogni modo, anche se non emergono ancora all’orizzonte, almeno nel mondo occidentale, modelli interpretativi compiuti alternativi al paradigma della regolazione dei mercati che ha dominato gli ultimi decenni, bisognerebbe almeno evitare di ricadere in errori del passato, riproponendo ricette che si sono rivelate fallimentari e che potrebbero rendere ancor più inevitabile la prospettiva di una “stagnazione secolare” o anche di una “decrescita felice” (ma forse, in realtà, non tanto felice) [30].


NOTE