Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Liberalizzazioni, regolazione e ora anche 'ri-regolazione' (di Camilla Buzzacchi)


Corte costituzionale sentenza 15 maggio 2014, n. 125

La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis, sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007).

In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007).

Come questa Corte ha più volte osservato, «si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’acce­zione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenze n. 299 del 2012, n. 80 del 2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004). In particolare, con riferimento alle misure di liberalizzazione, questa Corte ha avuto modo di affermare che «la liberalizzazione da intendersi come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale» (sentenze n. 299 e n. 200 del 2012).

Infine, si deve precisare che la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere «finalistico», non è una «materia di estensione certa» o delimitata, ma è configurabile come «trasversale», corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle Regioni (sentenze n. 80 del 2006, n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004).

Corte costituzionale sentenza 18 giugno 2014, n. 178

Questa Corte, in più occasioni, ha ricondotto le misure legislative di liberalizzazione di attività economiche alla materia «tutela della concorrenza» che l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. In particolare si è detto che: «la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’elimi­nazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale» (sentenza n. 200 del 2012).

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SOMMARIO:

1. Regolazione, concorrenza e liberalizzazioni: nodi sempre attuali per il giudice delle leggi - 2. La regolazione del commercio nella sent. n. 125/2014 - 3. La regolazione delle professioni nella sent. n. 178/2014 - 4. La giurisprudenza costituzionale in tema di liberalizzazioni-rego­lazione: la qualificazione della materia - 5. La giurisprudenza costituzionale in tema di liberalizzazioni/rego­lazione: la qualificazione delle competenze - 6. La razionalizzazione della regolazione - 7. La regolazione tra Stato e autonomie - Conclusioni - NOTE


1. Regolazione, concorrenza e liberalizzazioni: nodi sempre attuali per il giudice delle leggi

Un paio di decisioni della Corte costituzionale dello scorso anno – le sentenze 15 maggio 2014, n. 125 in materia di commercio e 18 giugno 2014, n. 178 in tema di professioni – pongono all’attenzione una tematica che a dieci anni esatti dalla sentenza 13 gennaio 2004, n. 14 [1] il giudice delle leggi si è ripetutamente trovato ad affrontare ed a risolvere: quella della partecipazione delle autonomie regionali a funzioni di regolazione in ambito di regime concorrenziale delle attività economiche.

In entrambi i casi, che scaturiscono da impugnazioni di normative regionali concernenti settori economici del tutto differenti, la Corte costituzionale individua una risposta che fa riferimento ad un modello dei rapporti tra Stato ed autonomie che merita un’apposita riflessione: tale modello parte dalla materia della tutela della concorrenza, passando attraverso le politiche di liberalizzazione e focalizzandosi sullo strumento della regolazione, che è appunto quello conteso tra livello centrale e livello dotato di autonomia. L’ambito nel quale si muove il giudice costituzionale appare pertanto particolarmente delicato e complesso, perché opera su due versanti sui quali da anni egli sta fornendo soluzioni interpretative, che a quanto pare continuano a sollevare interrogativi rilevanti, ai quali la giurisprudenza costituzionale riesce a fornire risposte ampiamente, ma non totalmente, uniformi: il versante della ripartizione delle com­petenze da un lato; e quello del rapporto tra liberalizzazione/concorrenza e regolazione dall’altro. I suddetti versanti continuano a riproporsi al giudizio della Corte costituzionale, che da alcuni anni ha reso più contorta la propria interpretazione integrandola con la categoria della ‘ri-regolazione’, che da un lato va compresa nei suoi tratti distintivi rispetto alla regolazione; e dall’altro va valutata per accertarne la sua possibile estensione all’ambito di spettanza della potestà legislativa regionale.

Sul piano metodologico il presente contributo parte anzitutto dalla ricostruzione delle controversie che hanno dato luogo alle decisioni del giudice costituzionale; analizza poi il quadro che tale giudice considera legittimo per l’e­sercizio delle competenze contese, in particolare alla luce dell’inquadra­mento della materia della tutela della concorrenza come effetto della libertà costituzionale di iniziativa economica; e riflette sulla compatibilità della soluzione individuata dal giudice rispetto al quadro dei principi e delle regole costituzionali, nonché sulla funzionalità della stessa con riguardo ai rapporti economici tipici di un’economia di mercato; dedicando poi una particolare attenzione alla categoria della ‘ri-regolazione’, e valutando se la medesima appare portatrice di una valenza innovativa.

Come si intuisce, le decisioni permettono infatti di spaziare su un ambito piuttosto vasto e composito, che va oltre il problema dell’intervento regolatorio delle Regioni in tema di commercio e in tema di professioni. Le pronunce si collocano in un ambito rispetto al quale, almeno dal 2004 con riferimento alla giurisprudenza post-revisione costituzionale, la Corte ha avuto modo di fornire una complessa interpretazione del principio della concorrenza, che ormai discende da una duplicità di previsioni – l’art. 41 e l’art. 117, comma 2, lett. e) – e che in più si intreccia con alcuni concetti limitrofi: quello delle liberalizzazioni e quello della regolazione. Per effetto di tali circostanze le decisioni qui scelte perdono il connotato collegato alla questione specifica da cui sono scaturite e consentono una riflessione più ampia e generale, che appunto ruota intorno alla terna concorrenza/liberalizzazione/regolazione, passando attraverso la questione non semplice della ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni.

Come si è accennato, va evidenziato che le due pronunce riguardano aree di produzione della ricchezza del tutto differenti: la prima, la sent. n. 125/2014, riguarda l’ambito del commercio, che negli ultimi anni è stato contraddistinto da una molteplicità di decisioni; la seconda, la sent. n. 178 del medesimo anno, si occupa invece della materia delle professioni, che anch’essa continua ad essere oggetto di un contenzioso tra Stato e Regioni rispetto al quale la Corte ha già provveduto a fornire una significativa cornice di riferimento. È pertanto piuttosto singolare che per due settori economici così eterogenei – in un caso le attività da regolamentare attengono lo scambio dei beni, nell’altro lo scambio di servizi – la risposta della giurisprudenza costituzionale rispetto ad una sovrapposizione di regolazioni sia così omogenea: ma la singolarità in fondo non è poi tale se si considera che i parametri a cui i giudici costituzionali si richiamano sono da un lato quelli del diritto europeo, la cui impostazione in tema di concorrenza è in larga misura unitaria, a prescindere dagli specifici mercati; e dall’altro i principi generali del quadro costituzionale, che sembrano condurre ad una visione unificata della questione.

Rispetto ad entrambe le prospettive pare di potere introdurre già alcune osservazioni, che poi nel corso delle riflessioni verranno meglio sviluppate.

In merito alla matrice sovranazionale del diritto pro-concorrenziale, ci si può interrogare se essa debba necessariamente condurre ad una sistemazione univoca dei rapporti tra Stato e Regioni: la soluzione non è poi così pacifica neanche nel ragionamento della Corte, come la complessa giurisprudenza costituzionale, che si affronterà, ha dimostrato da quando si è trovata ad interpretare il nuovo Titolo V Cost. Una parte del ragionamento che si intende impostare è allora quella di valutare quali spazi siano effettivamente accessibili per una regolazione differenziata delle attività economiche che, complessivamente, non concorra a comprimere la salvaguardia del regime di concorrenza delle medesime; ragionamento che può partire da due settori produttivi del tutto distinti, a fronte dei quali si può ponderare quanto lo spazio di coinvolgimento delle autonomie possa dipendere dalle peculiarità dei singoli ambiti economici, o quanto invece essa discenda da un orizzonte di principi costituzionali che orientano verso una prospettiva unitaria di ripartizione della materia concorrenza/regolazione tra le istituzioni centrali e quelle dotate di autonomia territoriale.

Ma le due decisioni qui proposte si rivelano interessanti anche per il tema che ripropongono, quello di una regolazione che diventa ‘ri-regolazione’: tale categoria, che ricorre ormai nel linguaggio dell’interprete della Costituzione per effetto di diverse sentenze anche antecedenti, merita un apposito approfondimento che, come si è già cominciato ad evidenziare, ruota intorno al triplice intreccio di concorrenza, regolazione e liberalizzazione.

Per giungere a tali riflessioni è necessario ora presentare le questioni da cui esse muovono.


2. La regolazione del commercio nella sent. n. 125/2014

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 recante disposizioni in materia di commercio per l’attuazione del d.l. n. 201/2011 e del d.l. n. 1/2012. La violazione riguarda gli artt. 41 e 117, commi 1 e 2, lett. e), Cost.

In particolare l’art. 9, che rientra nella disciplina dei ‘poli commerciali’ che già una legge regionale del 1999 aveva regolamentato, introdurrebbe regole discriminatorie e restrittive della concorrenza rendendo più difficoltosa l’aper­tura di nuovi esercizi commerciali; e si porrebbe in contrasto con i principi di liberalizzazione della disciplina statale attrattiva della competenza in materia di tutela della concorrenza.

La disposizione impugnata aggiunge un insieme di criteri a quelli che la disciplina umbra del 1999 già prevedeva per l’apertura di poli commerciali: e dunque indica i soggetti a cui l’autorizzazione di polo commerciale possa essere rilasciata; disciplina le procedure di autorizzazione per le superfici di vendita degli esercizi commerciali presenti in un polo commerciale; individua le modalità di classificazione degli esercizi commerciali come ‘polo commerciale’ (edifici contigui i cui perimetri si tocchino; edifici nei quali sono inseriti più e­sercizi commerciali in piani sovrastanti; edifici adiacenti i cui perimetri si trovino ad una distanza lineare inferiore a 40 metri; edifici adiacenti i cui perimetri si trovino ad una distanza lineare superiore a 40 metri, qualora vi siano collegamenti strutturali di qualsiasi tipo tra detti edifici; un unico edificio dotato di più ingressi autonomi e indipendenti e servizi non gestiti unitariamente); precisa il perimetro dell’edificio e le modalità di calcolo delle distanze tra gli edifici, anche alla luce del codice della strada; infine prescrive i calcoli da effettuare per ciascun edificio ai fini della valutazione delle dotazioni territoriali minime e degli standard urbanistici degli esercizi presenti in un polo commerciale.

Il giudice costituzionale reputa fondata la questione sollevata dallo Stato, poiché rileva come la norma impugnata vada effettivamente ad introdurre vincoli all’apertura degli esercizi commerciali che nel 1999 non erano stati contemplati; e così facendo viola principi di liberalizzazione posti dalla disciplina nazionale ed europea. Nello specifico, tali principi di liberalizzazione discendono dall’art. 31, comma 2, d.l. n. 201/2011 secondo cui: «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali»; e dal­l’art. 1 del d.l. n. 1/2012 che ha stabilito, in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 41 Cost. e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell’Unione europea, che sono abrogate tanto le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione per l’avvio di un’attività economica, se non sono giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità; quanto le norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite. Tale disposizione del 2012 dichiara superate le disposizioni «di pianificazione e programmazione territoriale (…) che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi, ovvero impediscono, limitano o condizionano l’offerta di prodotti e servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalità, ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza fra gli operatori economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori nei loro confronti». Rispetto a questa impostazione liberalizzatrice le prescrizioni regionali appaiono vincoli inaccettabili.

Una seconda questione sollevata dallo Stato riguarda la previsione dell’art. 43 della legge umbra che prescrive che i nuovi impianti eroghino, oltre a benzina e gasolio, almeno un prodotto a scelta tra alimentazione elettrica, metano, GPL, biodiesel per autotrazione, idrogeno o relative miscele. Ora, l’art. 83-bis, comma 17, d.l. n. 112/2008, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitività, dispone che l’installazione e l’esercizio di un impianto di distribuzione di carburanti non possono essere subordinati al rispetto di vincoli, con finalità commerciali, relativi a contingentamenti numerici, distanze minime tra impianti e tra impianti ed esercizi o superfici minime commerciali o che pongono restrizioni od obblighi circa la possibilità di offrire, nel medesimo impianto o nella stessa area, attività e servizi integrativi o che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale di più tipologie di carburanti. Il giudizio della Corte è che la norma regionale introduce vincoli più restrittivi all’apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburanti, e introduce dunque barriere all’ingresso nei mercati che appaiono significative e sproporzionate, e soprattutto non giustificate dal perseguimento di specifici interessi pubblici.

L’ultima doglianza cade sull’art. 44 della legge regionale, che al comma 1 prevede che possano essere installati nuovi impianti dotati di apparecchiature self-service pre-pagamento funzionanti senza la presenza del gestore, se questi rispondono alla qualificazione di pubblica utilità in termini di unico impianto del Comune, o di impianto posto ad almeno dieci chilometri dal punto di distribuzione più vicino. Ciò significa che il legislatore regionale si pone in contrasto con il d.l. n. 1/2012, il cui art. 18 dispone che per gli impianti stradali di distribuzione carburanti posti al di fuori dei centri abitati non possano essere posti vincoli o limitazioni all’utilizzo continuativo delle apparecchiature. E pertanto, anche la terza norma impugnata introduce una misura restrittiva della concorrenza che non può che condizionare e ritardare l’avvio di nuove attività economiche e l’ingresso di nuovi operatori.

Vi è da osservare che le ultime due questioni riguardano uno specifico settore, quella della distribuzione dei carburanti, il quale è stato interessato da pronunce tanto della giurisprudenza europea – la sentenza della Corte di giustizia UE, 11 marzo 2010, causa 384/08 [2] – quanto del giudice amministrativo italiano: il Consiglio di Stato, con sentenza 27 aprile 2012, n. 2456, si è richia­mato allo stesso quadro normativo utilizzato ora dalla Corte – che invece omette totalmente il rinvio alla giurisprudenza europea – con il quale il legislatore, conformemente ai rilievi formulati dal giudice europeo, ha introdotto una completa liberalizzazione in materia, con effetto abrogativo delle previsioni precedenti e quindi anche delle distanze minime previste dai regolamenti regionali [3]. La sent. n. 125, sotto questo profilo, interviene rispetto ad un quadro normativo di riferimento chiaro e definito.

La decisione di per sé, per i riflessi che ha sulla materia del commercio, non è sicuramente di portata fondamentale: d’altra parte si pone all’interno di un filone di pronunce che si è caratterizzato, soprattutto nei più recenti giudizi, per le soluzioni di segno costante che ha fornito rispetto alle scelte dei legislatori, sollecitando un dibattito dottrinario piuttosto animato. Come è stato osservato la normativa italiana a partire dalla fine del 2011 – per impulso del Governo Monti – ha qualificato la libertà di apertura dei nuovi esercizi commerciali come principio fondamentale dell’ordinamento italiano: il legislatore ha optato per una presunzione di libertà delle attività commerciali, in coerenza con i principi stabiliti in materia dall’Unione europea [4]. E la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale – si richiamano alcune delle principali decisioni in materia di orari di apertura degli esercizi di vendita, quali le sentenze n. 1/2004; n. 64, n. 165 e n. 430/2007; n. 350/2008; n. 247 e n. 288/2010; n. 150/2011, fino alla n. 299/2012; e in materia di apertura al mercato e di eliminazione di barriere e vincoli al libero esplicarsi dell’attività economica, quali ancora la sent. n. 150/2011, e le successive sentt. n. 18 e n. 200/2012 [5] – sul terreno della regolazione del commercio sembra destinata a produrre un’invariabile e sempre meno comprimibile legittimazione della politica statale in materia di concorrenza. Un primo effetto di tale giurisprudenza pare voler essere quello di sostenere l’indirizzo statale di razionalizzazione degli oneri e dei limiti burocratici per chi fa impresa; un secondo quello di ricondurre la regolazione dei mercati, anche negli aspetti più attinenti alla realtà locale, nell’ambito legislativo statale per il tramite della tutela della concorrenza, sottraendo il commercio alla manifesta tendenza, a livello regionale, alla pianificazione commerciale [6]. A fronte di tale evoluzione giurisprudenziale, occorre effettivamente constatare che di fatto la differenziazione tra territori non ha oggi un aspetto rassicurante, perché a fronte di normative regionali più tempestive, che hanno recepito il dettato nazionale e che pertanto appaiono ampiamente liberalizzate, altre continuano ad applicare limitazioni poco ragionevoli [7]. La questione conserva elementi di complessità e di contraddizione che è immaginabile che condurranno a nuovi interventi di definizione degli ambiti e delle attribuzioni.


3. La regolazione delle professioni nella sent. n. 178/2014

Oggetto della seconda decisione in esame è ancora una disciplina della Regione Umbria, la legge regionale 23 luglio 2013, n. 13 in materia di turismo: il Governo impugna gli artt. 62, comma 1; 63, comma 1, lett. b), e 2; 68 e 73.

La prima disposizione impugnata – l’art. 62, comma 1 – prescrive i requisiti professionali che i titolari o i legali rappresentanti di agenzie di viaggio e turismo devono possedere per la gestione tecnica delle medesime: la prescrizione fa riferimento al d.lgs. n. 206/2007, che ha attuato la direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali.

La violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., che la Corte costituzionale riconosce sussistente, sorge nella misura in cui la norma contestata, che concerne la materia concorrente delle professioni, non rispetta il principio secondo il quale l’individuazione delle figure professionali con i relativi profili e titoli abilitanti è riservata alla competenza legislativa statale di principio. La disciplina di quadro del legislatore statale è rappresentata dall’art. 20, comma 1, dell’Allegato 1 del d.lgs. n. 79/2011 (Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo, a norma dell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246, nonché attuazione della direttiva 2008/122/CE, relativa ai contratti di multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di rivendita e di scambio), che rinvia a regolamenti governativi la determinazione dei requisiti professionali a livello nazionale dei direttori tecnici delle agenzie di viaggio e turismo. L’errore della normativa regionale consiste nel differenziare i requisiti professionali che devono possedere i titolari o i legali rappresentanti delle agenzie di viaggio da quelli previsti per il cosiddetto ‘direttore tecnico’ di agenzia di viaggio, che la legge regionale 23 luglio 2003, n. 13 prevede nel successivo art. 63, comma 1, perché così facendo individua figure professionali nuove che la legislazione statale di riferimento non contempla. La norma impugnata è manchevole nel riferirsi solo al d.lgs. n. 206/2007, senza richiamarsi anche all’Allegato 1 del d.lgs. n. 79/2011: alla Regione, secondo la giurisprudenza della Corte in materia di professioni, è fatto obbligo di «rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato» potendo essa invece disciplinare «quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale» (sentt. n. 424/2005, n. 40/2006, n. 300/2007, n. 93/2008, n. 138/2009 e n. 98/2013).

La legge regionale umbra ha invece fatto correttamente riferimento nell’art. 63, comma 1, lett. b) – in tema di requisiti per la professione di direttore tecnico di agenzia di viaggio – al già citato art. 20 dell’Allegato 1, d.lgs. n. 79/2011, nonché al d.lgs. n. 206/2007: tale rimando esaustivo alla legislazione statale porta il giudice costituzionale a respingere la questione a lui sottoposta. Mentre nuovamente viene dichiarata l’illegittimità con riferimento all’art. 63, comma 2, nella parte in cui dispone che per il titolare dell’agenzia di viaggio e turismo e per i dipendenti della stessa, il periodo di formazione professionale previsto dal d.lgs. n. 206/2007 possa essere sostituito da un equivalente numero di anni di attività lavorativa presso un’agenzia di viaggio e turismo. Infatti il legislatore regionale supera i limiti della legislazione concorrente nel momento in cui equipara lo svolgimento dell’attività lavorativa presso un’agenzia di viaggi e turismo con il periodo di formazione professionale, posto che invece la disciplina statale cumula la pregressa esperienza lavorativa con il periodo di formazione professionale.

Una quarta questione è stata sollevata dalla Stato e ha ad oggetto l’art. 68 della legge regionale che, nel disciplinare la forma dell’‘impresa professionale di congressi’, la qualifica come «attività di organizzazione, produzione e gestione di manifestazioni congressuali, simposi, conferenze e convegni», rimandando ad un regolamento regionale la disciplina dei requisiti e delle modalità per l’esercizio dell’attività di organizzazione professionale di congressi ed istituendo gli elenchi provinciali delle imprese, da tenere secondo criteri e modalità stabiliti dalla Giunta regionale. In questo caso, oltre alla violazione della competenza concorrente in materia di professioni, si prospetta anche il contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. e), Cost. sotto il profilo del rispetto della libera concorrenza. Effettivamente, secondo il giudizio del giudice di costituzionalità, la norma regionale introduce una nuova figura professionale non prevista espressamente dalla legislazione statale – quella di organizzazione, produzione e gestione di manifestazioni congressuali, simposi, conferenze e convegni – e nel rimandare ad un regolamento regionale la disciplina dei requisiti e delle modalità per l’esercizio di tale attività, nonché nell’istituire elenchi provinciali delle imprese professionali esercenti tale attività, compie una duplice negazione del dettato costituzionale.

La decisione completa un indirizzo giurisprudenziale del tutto netto, che risale al 2005 – si vedano le sentt. n. 353 e 355 di quell’anno – e afferma che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale: da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali. Sono poi seguite ulteriori decisioni dello stesso tenore: le sentt. nn. 153 e 424/2006, le nn. 57 e 300/2007, nonché le successive sentt. nn. 300/2010, 230/2011 e 108/2012, e pertanto la posizione non pare più suscettibile di modifiche. Fin dal 2005 è stato in particolare segnalato che tra gli indici sintomatici dell’istituzione di una nuova professione vi è quello della previsione di appositi elenchi, disciplinati dalla Regione, connessi allo svolgimento della attività che la legge regolamenta: ora, «l’istitu­zione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale, prescindendosi dalla circostanza che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento della attività cui l’elenco fa riferimento» [8]. La sent. n. 178 richiama così la sent. n. 98/2013, non lasciando alcun margine di ammissibilità della disciplina regionale.

Per finire, l’art. 73, comma 4, della legge umbra prevede che le guide turistiche che, avendo conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione presso altre Regioni, intendono ora svolgere la propria attività nella Regione Umbria, siano soggette all’accertamento, da parte della Provincia, della loro conoscenza del territorio. Il Governo ritiene che tale verifica rappresenti un ostacolo ingiustificato all’accesso ed all’esercizio della professione di guida turistica, e dunque determini una restrizione ai principi di libera circolazione delle persone e dei servizi; e che risulti violato anche l’art. 117, comma 2, lett. e), Cost., in quanto la disposizione contrasterebbe con la piena liberalizzazione della materia introdotta dall’art. 3 della legge 6 agosto 2013, n. 97, legge europea 2013, che prevede la validità dell’abilitazione all’esercizio dell’attività di guida turistica su tutto il territorio nazionale e demanda ad un decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, sentita la Conferenza unificata, l’individuazione dei siti di particolare interesse storico, artistico o archeologico per i quali occorre una specifica abilitazione.

Il giudice costituzionale accoglie i rilievi proprio in virtù di tale ultima disposizione, che rappresenta una misura legislativa di liberalizzazione di attività economiche. La Corte richiama la propria linea giurisprudenziale in materia – e su questo occorre già soffermarsi nel prossimo paragrafo – per effetto della quale «la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazio­ne” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze». Il giudice ripropone qui una riflessione sull’effi­cienza e la competitività del sistema economico, collegando il raggiungimento di tali obiettivi alla qualità della regolazione: essa «condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale» [9]. I richiami sono alle sentt. n. 167/2009, n. 247 e n. 152/2010, ma soprattutto alla più recente sent. n. 200/2012.

Come si è visto per l’ambito del commercio, anche per quello delle professioni [10] si può osservare che la materia risulta ormai profondamente segnata da una giurisprudenza costituzionale, che si allinea al quadro del diritto europeo per costruire uno spazio nel quale l’esercizio delle attività non deve incontrare restrizioni che non siano giustificate dal perseguimento di beni costituzionali.


4. La giurisprudenza costituzionale in tema di liberalizzazioni-rego­lazione: la qualificazione della materia

Così esposte le questioni su cui la Corte ha dovuto esprimersi, è ora opportuno collocarle nel più ampio filone giurisprudenziale riguardante la materia-funzione della tutela della concorrenza [11], all’interno del quale è gradualmente emersa l’attenzione per il binomio liberalizzazioni/regolazione. Una volta ricostruita la rilevanza che a queste due ultime categorie viene assegnata nell’in­terpretazione della materia trasversale della concorrenza diventa poi possibile evidenziare un’ulteriore e particolare categoria concettuale che tale giurisprudenza ha enucleato: quella della ‘ri-regolazione’.

Proprio la prima delle due decisioni analizzate, la sent. n. 125, riporta la costante giurisprudenza costituzionale volta ad affermare una nozione di concorrenza che rispecchia quella operante in ambito comunitario e che si articola in due accezioni: essa da un lato comprende «gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione»; e dall’altro si fonda su «misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche».

Fin dalla sent. n. 14/2004 è stata indicata l’interpretazione da dare alla nozione di concorrenza a seguito della revisione costituzionale del 2001: essa «comprende interventi regolativi, la disciplina antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza». Più in particolare «la tutela della concorrenza costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» [12]. Le due direttrici della concorrenza – quella statica e quella dinamica – vedono pertanto da una parte interventi di regolazione finalizzati a ripristinare equilibri che siano andati persi; e dall’altra, invece, misure pubbliche tese a ridurre squilibri, sviluppare il mercato e garantire assetti concorrenziali.

Definendo la tutela della concorrenza come «una delle leve della politica economica statale» [13] destinata, in accezione dinamica, a promuovere «misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» la Corte è passata a qualificare tale competenza non in termini di ambito materiale specifico e oggettivamente delimitato, bensì come un’attribuzione trasversale dello Stato, come del resto la dottrina e la giurisprudenza costituzionale già avevano pacificamente riconosciuto [14]. La Corte ha consolidato infatti l’orientamento affermato in precedenti pronunce, ed in particolar modo nella sent. n. 241/1990, che a sua volta si era richiamata alla sent. n. 223/1982 [15].

Ma ciò che qui si vuole evidenziare è l’individuazione da parte della Corte di una dimensione di ‘benessere sociale’ coesistente con quella dell’‘efficienza economica’, perché è la prima che costituisce il presupposto per la legittimazione degli interventi di carattere regolativo.

Proprio nella decisione del 1990 si era cominciato a sostenere che l’utilità ed i fini sociali vanno anteposti alla libertà di concorrenza, che pure è «valore basilare della libertà di iniziativa economica, ed è funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori», affinché non rischino di essere pregiudicate le esigenze di costoro e dei contraenti più deboli, che «sono parte essenziale» di quei fini sociali; e ancora, si era prospettato il pericolo di ostacolo al «programma di eliminazione delle disuguaglianze di fatto additato dall’art. 3, secondo comma, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l’altro controlli sull’economia privata finalizzati ad evitare discriminazioni arbitrarie» [16].

La lettura della concorrenza introdotta dalla sent. n. 14/2004 è stata ribadita dalla successiva n. 401/2007 [17], che ha affermato che la nozione di concorrenza, riflettendo quella operante in ambito comunitario, include in sé sia interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, sia interventi mirati a ridurre gli squilibri attraverso la creazione delle condizioni per l’instaurazione di assetti concorrenziali. Rientrano, pertanto, nell’ambito materiale in esame le misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e gli strumenti di liberalizzazione dei mercati stessi.

Nella sent. n. 270/2010 [18] è apparso un approccio più articolato, che con più precisione è arrivato al nocciolo della questione del rapporto tra concorrenza e regolazione: e lo ha fatto recuperando quella dimensione ‘sociale’ di cui si è detto. La Corte ha richiamato la clausola dell’utilità sociale, e in merito ad essa ha individuato un ruolo per la regolazione: partendo dall’esigenza del bilanciamento tra utilità sociale e concorrenza si è riconosciuto che la giurisprudenza costituzionale ha affrontato solo indirettamente «il rapporto tra concorrenza e regolazione generale e il profilo dell’equilibrio tra l’esigenza di apertura del mercato e di garanzia dell’assetto concorrenziale rispetto alle condotte degli attori del mercato stesso, cioè imprese e consumatori, da una parte; e, dall’altra, la tutela degli interessi diversi, di rango costituzionale, individuati nell’art. 41, commi 2 e 3, Cost., che possono venire in rilievo e la tutela dei quali richiede un bilanciamento con la concorrenza». I limiti individuati dall’art. 41 per l’iniziativa economica privata – l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, nonché i fini sociali a cui l’attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata – possono giustificare una regolazione che sia appunto strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito. Lo strumento della regolazione emerge quindi in funzione di tali interessi, e presenta carattere derogatorio, e dunque eccezionale, nella misura in cui «siffatto intervento del legislatore costituisca la sola misura in grado di garantire al giusto la tutela di quegli interessi» [19].

Il passaggio successivo è segnato da decisioni nelle quali si è illustrata ulteriormente la funzione della regolazione a partire dall’art. 41 Cost.: la sent. n. 167/2009, poi richiamata dalle sentt. n. 152 e 247/2010, ha negato che rispetto all’art. 41 Cost. si possa configurare «una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale. Ciò che conta è che, per un verso, l’individua­zione dell’utilità sociale non appaia arbitraria e che, per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue» [20].

Ma è con le decisioni del 2012 – la n. 200 e la n. 299 – che la regolazione è stata più precisamente inquadrata: e con essa, anche la ‘ri-regolazione’. La prima ha enucleato addirittura un autonomo «principio della liberalizzazione delle attività economiche», che ha ricondotto al tema della tutela della concorrenza, intesa in linea con la lettura datane dalla pronuncia del 2004. Questo autonomo principio della liberalizzazione è stato tradotto ed esplicitato dalla Corte costituzionale in termini di «razionalizzazione della regolazione» [21]: e rappresenta «uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico». La liberalizzazione, nella lettura che ne ha fatto il giudice supremo, è dunque «una politica di “ri-regola­zione” che tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze». Affermato tale principio, si è aggiunto però che «l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato»: da ciò è disceso che «una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale» [22]. Sono dunque «inutili oneri regolamentari» quelli che ostacolano le dinamiche economiche, mentre sono oneri regolamentari necessari quelli che tutelano superiori beni costituzionali, qualificabili in termini di utilità sociale, come si è visto dalla giurisprudenza sull’art. 41 Cost.

Può essere utile ricordare che tale pronuncia doveva esprimersi, tra le varie questioni, su quella principale relativa a una disciplina – l’art. 3, comma 1, d.l. n. 138/2011 – nella quale il legislatore ha espresso alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza: in particolare il principio secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge»; e l’indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro – oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica – la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana «a presidio dell’utilità sociale di ogni attività economica, come l’art. 41 Cost. richiede». È qui che il giudice costituzionale ha chiarito il rapporto tra liberalizzazione e regolazione: il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche può incontrare eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica, che devono trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o in ulteriori interessi. La Corte di per sé non ha ravvisato illegittimità nel principio dell’art. 3 della disciplina del 2011, e ha affermato piuttosto – ed è quanto qui interessa – che tale «principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale» [23]: e ciò è quanto ha qualificato ‘ri-rego­lazione’. È stato osservato come la Corte abbia sconfessato l’idea che l’as­senza di regolazione sia ammissibile, e come ciò si deduca anche dall’u­nica declaratoria di incostituzionalità emessa in questa pronuncia: l’assenza di regolazione nella lettura del giudice diventa anzi qualcosa che determinerebbe confusione e renderebbe più difficile la competizione tra operatori. L’art. 41 Cost. si dimostra così capace di adattarsi al contesto in cui opera, e la regolazione risulta “presupposto stesso della liberalizzazione in quanto condizione del fatto che all’interno di un mercato vi sia effettiva libertà di concorrere” [24].

Con la sent. n. 299 la Corte ha ripercorso tutto il cammino giurisprudenziale fin qui ricostruito, ed è quindi parsa confermare il suo costante indirizzo; e tuttavia, come è stato segnalato da attenta dottrina, ha finito per approdare ad un orientamento praticamente opposto che risulta “schiacciato sull’idea di una deregolamentazione che, palesemente, non consente di armonizzare i diversi interessi in gioco” [25]. Infatti, nello specifico, la Corte ha aperto incondizionatamente a norme volte all’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali; e ha argomentato tale orientamento asserendo che l’eliminazione di questi limiti «favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore». In tale prospettiva le misure in esame appaiono «coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale nel mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale» [26].

E si arriva così alle ultime decisioni che precedono le sentenze qui commentate: le sentt. n. 8 e 27/2013. Con la prima la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’art. 1 del d.l. n. 1/2012 che «in vista di una progressiva e ordinata liberalizzazione delle attività economiche (…) prevede un procedimento di ri-regolazione delle attività economiche a livello statale, da realizzarsi attraverso strumenti di delegificazione, che mira all’abrogazione delle norme che, a vario titolo e in diverso modo, prevedono limitazioni o pongono condizioni o divieti che ostacolano l’iniziativa economica o frenano l’ingresso nei mercati di nuovi operatori». Il giudice costituzionale ha effettuato prima u­na valutazione di insieme delle disposizioni impugnate, poiché esse in parte prevedevano settori e interessi da assoggettare a tale delegificazione, in parte ne individuavano altri da escludere. Per esempio, dalle norme destinate alla delegificazione risultavano escluse quelle regolamentazioni giustificate da «un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordina­mento comunitario» (art. 1, comma 1, lett. a), e che fossero adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite (art. 1, comma 1, lett. b); ma più specificamente l’art. 1, comma 2, richiedeva che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche fossero interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato al perseguimento di finalità di interesse pubblico generale. Venivano individuati però anche una serie di interessi pubblici, in parte di rango costituzionale, che al contrario possono giustificare limiti e controlli: erano quelli idonei ad «evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica». E ancora, la successiva disposizione, il comma 3, demandava a regolamenti di delegificazione l’individuazione delle attività per le quali potevano permanere limiti, regolamentazioni e controlli e l’identificazione, invece, delle disposizioni legislative e regolamentari che dovevano risultare abrogate. Il giudizio complessivo che il giudice supremo esprime è stato quello che la disciplina su concorrenza, sviluppo delle infrastrutture e competitività del decreto del 2012 si colloca nel solco di un’evoluzione normativa diretta ad attuare quanto già evidenziato dalla sent. n. 200, ovvero che «il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale»: configurandosi come intervento normativo che «prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali» [27].

La decisione di poco successiva, la n. 27, ha ripreso invece l’indirizzo della sent. n. 299/2012: quello maggiormente aperto ad una logica di generalizzata eliminazione delle regolazioni.

Riassumendo le linee portanti di questa giurisprudenza focalizzata sugli artt. 41 e 117 Cost., si può concludere che essa è partita dall’ambito della libertà in materia economica, che dà luogo ad un modello di relazioni fondato sulla concorrenza, per approdare all’individuazione da un lato di settori ed interessi rispetto ai quali limitazioni, vincoli e restrizioni devono cadere, realizzandosi così l’inveramento di quello che il giudice è arrivato a qualificare come il principio della liberalizzazione; e dall’altro di settori ed interessi che impongono invece la permanenza di limitazioni, vincoli e restrizioni, in nome della cura e della salvaguardia di beni che arrivano ad essere di rango costituzionale. È dunque con riferimento a questi ultimi che si apre la sfera della regolazione: ed è rispetto ad essa che occorre fare qualche considerazione aggiuntiva, per comprendere come da tale categoria si passi a quella ulteriore, e forse differente, della ‘ri-regolazione’.

Ma prima di dedicarsi a tali riflessioni, è opportuno ancora occuparsi della collocazione della tutela della concorrenza, ed in particolare del profilo liberalizzazioni/regolazione, tra Stato e livelli territoriali.


5. La giurisprudenza costituzionale in tema di liberalizzazioni/rego­lazione: la qualificazione delle competenze

L’aver posto, nel 2001, la materia della tutela della concorrenza nella disposizione della Carta fondamentale – l’art. 117 – che presiede al meccanismo di riparto delle competenze tra Stato e Regioni ha fatto sì che le questioni attinenti tale rilevante bene costituzionale sarebbero poi sorte proprio a seguito di contese tra livelli di governo in merito all’esercizio di una competenza che, stando alla lettera della norma, è riservata in via esclusiva allo Stato. E infatti proprio da una controversia di tale natura è scaturita la prima delle decisioni che ha affrontato la complessa problematica della possibilità delle Regioni di intervenire in via legislativa nel sistema dei rapporti economici.

Tutte le impugnazioni che hanno condotto alla sent. n. 14/2004 hanno posto «sia pure senza evocarla espressamente, la questione cruciale del rapporto tra le politiche statali di sostegno del mercato e le competenze legislative delle Regioni nel nuovo Titolo V, p. II, della Costituzione». Il giudice costituzionale ha riformulato la questione in maniera tale da domandarsi «se lo Stato, nell’orientare la propria azione allo sviluppo economico, disponga ancora di strumenti di intervento diretto sul mercato, o se, al contrario, le sue funzioni in materia si esauriscano nel promuovere e assecondare l’attività delle autonomie»; ciò ha spinto la Corte a volgersi al tema più generale degli interventi pubblici qualificati nel diritto comunitario come aiuti di Stato, i quali coinvolgono i rapporti con l’Unione europea e incidono sulla concorrenza e la cui disciplina si articola “nell’attuale fase di integrazione sovranazionale, su due livelli: comunitario e statale” [28]. Il giudice delle leggi ha dunque prestato relativa considerazione alle argomentazioni delle Regioni, spostando immediatamente la riflessione dal piano delle modalità di distribuzione delle competenze a quello della cosiddetta «politica della concorrenza», che è stata individuata anzitutto come settore di intervento comunitario, e successivamente come specifico campo di intervento del diritto interno, dove innegabilmente si incrociano le competenze di più livelli di governo – Stato e Regioni – secondo criteri che la pronuncia stessa ha provveduto a definire. Con questa diversa prospettiva di lettura il giudice ha potuto comporre la controversia andando oltre il dato costituzionale rappresentato dal Titolo V, con le sue norme specificamente dedicate ad attribuire ai diversi enti i rispettivi campi di intervento: utilizzando il parametro più ampio della ragionevolezza, egli ha dilatato la competenza statale di cui all’art. 117, comma 1, lett. e), Cost., interpretandola come «funzione di sta­bilizzazione macroeconomica» [29], e ha trasposto la questione dal quadro del diritto costituzionale interno a quello del diritto comunitario, operazione che gli ha consentito di accantonare parzialmente i parametri costituzionali, o meglio di adottarne altri diversi da quelli invocati dalle Regioni remittenti.

Pur definendo, come si è già detto, la tutela della concorrenza come «una delle leve della politica economica statale» [30], la Corte è riuscita però ad individuare interventi regionali sullo sviluppo economico che si legittimano per la loro riconducibilità a competenze concorrenti o residuali, sforzandosi di dare soluzione al problema di «tracciare la linea di confine tra il principio autonomistico e quello della riserva allo Stato della tutela della concorrenza» e dunque di salvare, in capo alle Regioni, significativi poteri di intervento di politica economica [31]. A fianco degli interventi – evidentemente di spettanza statale – «che attengono allo sviluppo dell’intero Paese» e dunque esprimono un carattere unitario e «risultano tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie» ve ne possono essere altri privi di carattere unitario, che il giudice ha anche provato a delineare, definendoli «sintonizzati sulla realtà produttiva regionale» e configurandoli in negativo: si deve trattare di interventi che non ostino alla libera circolazione delle persone e delle cose e all’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale, secondo il dettato dell’art. 120 Cost. Il tentativo del giudice di delineare uno spazio di politica economica regionale si è esaurito purtroppo a questo livello, perché dominante è risultato invece il parametro che serve a configurare la natura e l’esten­sione della politica economica statale: è il parametro della «rilevanza macroeconomica» – contrapposto al carattere «localistico e microsettoriale» degli interventi regionali – in virtù del quale l’altro parametro, quello del riparto costituzionale delle competenze, è suscettibile di arretramento [32]; e, soprattutto, si tratta di un parametro fondato sul criterio della ragionevolezza [33]. Vi è chi ha configurato una tale espansione della competenza statale come un recupero di quella nozione dell’interesse nazionale [34] che il nuovo Titolo V Cost. non ha ritenuto di conservare; effettivamente si può ritenere che il richiamo al giudizio di ragionevolezza inevitabilmente espanda la discrezionalità del legislatore statale e restringa la sfera di intervento del legislatore regionale, perché il primo non trova più, come limite, il sistema di riparto delle competenze, ma e­sclusivamente il parametro della razionalità e della proporzionalità degli interventi rispetto agli obiettivi attesi.

Nel medesimo anno la Corte si è pronunciata con la sent. n. 272, nella quale anzitutto ha respinto la possibilità, prospettata dalla parte regionale ricorrente, di distinguere le competenze legislative dello Stato da quelle delle Regioni «in ordine rispettivamente a misure di “tutela” o a misure di “promozione” della concorrenza, dal momento che la indicata configurazione della tutela della concorrenza ha una portata così ampia da legittimare interventi dello Stato volti sia a promuovere, sia a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato». Utilizzando la categoria della c.d. «materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un’estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, per così dire, ‘trasversale’», secondo l’interpre­tazione avviata dalla sent. n. 407/2002 in materia ambientale, la Corte ha ribadito la spettanza al solo Stato di interventi legislativi, che possono effettivamente andare a toccare «la pluralità di altri interessi – alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni – connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese» con i quali tale materia-funzio­ne si intreccia [35].

Nel 2006, con la sent. n. 80, si è riaffermata la particolare modalità con la quale le materie trasversali, come la concorrenza, operano nell’ordinamento: esse «incidono naturalmente, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse possano ritenersi propri, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano. Né il legislatore regionale può pretendere di modificare anche solo in parte disposizioni (…) formulat(e) in forma chiaramente inderogabile e che, per di più, preved(ono) al suo interno un ruolo delimitato per lo stesso legislatore regionale» [36]. Ancora una volta gli spazi per l’interven­to regolatorio delle Regioni sono apparsi quasi impraticabili.

La successiva sent. n. 401/2007 ha ripreso e riconfermato l’affermazione del carattere trasversale della competenza statale relativa alla tutela della concorrenza, estendendolo anche alla normazione secondaria: riprendendo la sent. n. 303/2003, il giudice delle leggi ha legittimato il condizionamento di disposizioni regolamentari dello Stato nei confronti di leggi regionali incidenti nel settore del mercato. Ad essa si è aggiunta la sent. n. 443/2007, che ha ritenuto che «una illegittima invasione della sfera di competenza legislativa costituzionalmente garantita alle Regioni, frutto di eventuale dilatazione oltre misura dell’interpretazione delle materie trasversali, può essere evitata non – come prospettato dalle ricorrenti – tramite la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, ma con la rigorosa verifica della effettiva funzionalità delle norme statali alla tutela della concorrenza. Quest’ultima infatti, per sua natura, non può tollerare differenziazioni territoriali, che finirebbero per limitare, o addirittura neutralizzare, gli effetti delle norme di garanzia» [37]. Come è evidente, è sembrato qui raggiunto il livello massimo di sfavore verso il coinvolgimento delle istituzioni territoriali.

Un’indiretta apertura rilevante nei confronti dell’intervento regolatorio delle Regioni sul terreno della concorrenza si è avuta con la sent. n. 200/2012: vi si è affermato che «l’intervento del legislatore, statale e regionale, di attuazione del principio della liberalizzazione è tanto più necessario alla luce della considerazione che tale principio non è stato affermato in termini assoluti, né avrebbe potuto esserlo in virtù dei vincoli costituzionali, ma richiede di essere modulato per perseguire gli altri principi indicati dallo stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali». Il riferimento all’intervento del legislatore “anche” regionale di attuazione del principio della liberalizzazione è assolutamente significativo, tanto più che si sono indicate specifiche misure la cui fissazione spetta al regolatore regionale: tra esse le discipline della vendita al pubblico di farmaci da banco o automedicazione, l’apertura di strutture di media e grande distribuzione, l’organizzazione sanitaria, che «non vengono assorbite nella competenza legislativa dello Stato relativa alla concorrenza, ma richiedono di essere regolate dal legislatore regionale» [38].

Particolare è stato il contributo della sent. n. 299/2012: perché oggetto della stessa è stata la materia del commercio, ma il giudice ha ammesso in che preponderante misura essa si intrecci con la tutela della concorrenza. La Corte ha ricostruito precedenti occasioni nelle quali è stata chiamata a giudicare normative regionali che disciplinavano la materia degli orari degli esercizi commerciali e dell’obbligo di chiusura domenicale e festiva: con riferimento al quadro normativo della legislazione statale del 1998, e quindi precedente alla revisione del Titolo V, essa ha ritenuto legittimo l’esercizio della competenza in materia di commercio da parte del legislatore regionale solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus alla tutela della concorrenza. Significative, in tal senso, le decisioni n. 288/2010 e n. 150/2011: la prima per aver dichiarato legittime normative regionali che avevano introdotto una disciplina più favorevole rispetto a quella statale del 1998, nel senso della liberalizzazione degli orari e delle giornate di chiusura obbligatoria; la seconda per aver annullato discipline di segno contrario.

Riconfermando la propria pronuncia n. 443/2007, il giudice nel 2012 ha ritenuto di escludere che una dilatazione oltre misura dell’interpretazione delle materie trasversali – quale la concorrenza – si potesse valutare sulla base della distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio: ha indicato invece la verifica dell’effettiva funzionalità delle norme statali alla tutela della concorrenza come criterio per valutare la legittimità della disciplina statale e per precludere normative regionali produttive di una differenziazione [39] che potrebbe essere poco funzionale.

Un’apertura importante per le autonomie regionali agli spazi della regolazione è stata infine offerta dalla sent. n. 8/2013, che «estende all’intero sistema delle autonomie il compito di attuare i principi di liberalizzazione». Nell’analisi della Corte l’obiettivo perseguito dal legislatore è che «l’azione di tutte le pubbliche amministrazioni – centrali, regionali e locali – sia improntata ai medesimi principi, per evitare che le riforme introdotte ad un determinato livello di governo siano, nei fatti, vanificate dal diverso orientamento dell’uno o dell’altro degli ulteriori enti che compongono l’articolato sistema delle autonomie». Per queste ragioni «il principio di liberalizzazione delle attività economiche – adeguatamente temperato dalle esigenze di tutela di altri beni di valore costituzionale – si rivolge tanto al governo centrale, quanto a Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni, perché solo con la convergenza dell’azione di tutti i soggetti pubblici esso può conseguire risultati apprezzabili» [40]. Il giudice ha aggiunto che «l’ampiezza dei principi di razionalizzazione della regolazione delle attività economiche non comporta l’assorbimento delle competenze legislative regionali in quella spettante allo Stato nell’ambito della tutela della concorrenza, ex art. 117, comma 2, lett. e), Cost., che pure costituisce il titolo competenziale sulla base del quale l’atto normativo statale impugnato è stato adottato. Al contrario: grazie alla tecnica normativa prescelta, i principi di liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitino ad esercitare le proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche, essendo anzi richiesto che tutti gli enti territoriali diano attuazione ai principi dettati dal legislatore statale. Le Regioni, dunque, non risultano menomate nelle, né tanto meno private delle, competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma sono orientate ad esercitarle in base ai principi indicati dal legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di concorrenza» [41]. La conclusione, riprendendo la sent. n. 200/2012, è stata che si possono concepire interventi del legislatore nazionale che non occupano gli spazi riservati a quello regionale, ma presuppongono invece «che le singole Regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a livello statale». Si è trattato di un’apertura di notevole portata, che le due sentenze del 2014 dalle quali muovono le presenti considerazioni sembrano in larga misura già contraddire: in particolare la sent. n. 125, infatti, riprende il filone del carattere ‘finalistico’ della materia della tutela della concorrenza, evidenziando la sua estensione non certa perché corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dai singoli interventi del legislatore statale; e dunque evidenziando la sua idoneità a influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle Regioni.


6. La razionalizzazione della regolazione

Il quadro fin qui tracciato permette ora di aprire una riflessione che da un lato si pone l’obiettivo di comprendere il significato e la portata della nozione della ‘ri-regolazione’, che nella logica della giurisprudenza della Corte costituzionale è stata assimilata al principio della liberalizzazione; e dall’altro si vuole interrogare sull’opportunità del coinvolgimento, o dell’esclusione, delle autonomie territoriali sul terreno della regolazione.

Occorre qui, necessariamente, riprendere gli approdi ormai ampiamente consolidati della letteratura in tema di liberalizzazioni, di regolazione, di libertà economica e di tutela della concorrenza: questo è infatti il contesto di riferimento, sia che si parli di commercio sia che si parli di professioni, sia che si parli di altri ulteriori ambiti che, benché distinti dalla materia-funzione della tutela della concorrenza, finiscono per essere da questa attraversati e condizionati. Cosicché il ragionamento, se si muove nella prospettiva della creazione di mercati aperti e senza vincoli, è di natura unitaria e discende dall’art. 41 Cost., tanto con riguardo alla finalità delle liberalizzazioni, che attestano il manifestarsi della libertà di iniziativa economica; quanto con riferimento alla regolazione, che interviene laddove si voglia salvaguardare l’utilità sociale ed altri beni costituzionalmente rilevanti.

È chiaramente impossibile dare conto, in questa sede, della consistente produzione scientifica che si è occupata della libertà di iniziativa economica, della sua valorizzazione attraverso le politiche europee e nazionali di liberalizzazione, della funzione pubblica della regolazione associata strettamente al processo delle liberalizzazioni, e infine dei fini sociali che impongono l’eser­cizio di tale funzione. Si procede a ricostruire i punti irrinunciabili di tale quadro concettuale, perché a partire da quelli pare possibile riflettere poi sulla categoria della ‘ri-regolazione’ e sulla possibilità che la funzione regolativa – o ri-regolativa – venga condivisa dallo Stato con le autonomie regionali.

Partendo dalla nozione delle liberalizzazioni, di cui si è affermato che è “riassuntiva di fenomeni eterogenei” [42], essa si riferisce a quel complesso di azioni di ripristino nel settore economico della libera iniziativa privata: e ciò attraverso l’eliminazione o la riduzione dei condizionamenti pubblici su essa incidenti quali le regole derogatorie alla disciplina comune a cui sono sottoposte determinate attività e le normative che pongono regole speciali e attribuiscono poteri di intervento e controllo preventivo ad un’autorità pubblica [43]. Il fenomeno così descritto è quanto si definisce correntemente liberalizzazione amministrativa, che presenterebbe natura diversa rispetto alla c.d. liberalizzazione economica, perché mentre la prima si fonda sul superamento e la soppressione di vincoli propriamente pubblici, la seconda implica più ampiamente l’eli­minazione di barriere all’entrata in settori economici [44]. L’approccio scientifico alle liberalizzazioni sconta infatti, come altre questioni del sistema economico e produttivo italiano, la tendenza delle diverse discipline a ignorarsi reciprocamente, cosicché lo studio dei vincoli amministrativi alle attività economiche viene effettuato dalla scienza giuridica come se si trattasse di questione a se stante da quella delle più generali barriere all’entrata, di cui pare che si occupi più specificamente la scienza economica. In attesa che si adotti un approccio più multidisciplinare [45], si può aggiungere che la liberalizzazione è considerata quindi una manifestazione di politica economica [46], tesa a creare un contesto di rapporti di produzione e scambio di beni e di servizi dove da un lato la libertà economica privata possa liberamente dispiegarsi, e dall’altro i destinatari dei beni e dei servizi – i consumatori/utenti – siano adeguatamente tutelati da molteplici punti di vista [47].

È dunque la libertà riconosciuta e tutelata dall’art. 41 Cost. che è oggetto di perseguimento ad opera del processo di liberalizzazione delle attività economiche: disposizione e fattispecie rispetto alla quale la riflessione della letteratura è stata ampia e sostanziosa, evidenziando l’ambiguità della norma dalla sua genesi in Assemblea costituente alla sua applicazione assai dibattuta nel corso dei decenni. Tale riflessione scientifica, a cui si rinvia, è giunta a qualificare il nostro sistema economico come un modello misto ed a valorizzare il primato ed il riconoscimento della libertà di impresa come fondamentale diritto individuale di livello costituzionale, rafforzato dal dato giuridico e dall’influsso culturale del diritto europeo [48].

Se il processo di liberalizzazione delle attività economiche è volto a dare piena attuazione all’art. 41 Cost., tale applicazione è però da modulare rispetto alla portata complessiva di questa disposizione, che impone di salvaguardare alcuni beni nel valorizzare appieno la libertà individuale. Questi beni sono quelli che si riconducono complessivamente alla clausola dell’utilità sociale, con la quale indiscutibilmente la politica delle liberalizzazioni deve fare i conti: clausola quanto mai difficile da specificare e da ricondurre a interessi concreti che, di volta in volta, possano portare a discipline legislative che in qualche misura vincolano la libertà dei singoli [49]. Infatti ampio è ormai il ricorso a motivi di utilità sociale da parte della giurisprudenza costituzionale, accertati in occasione di decisioni che vanno oltre l’ambito della concorrenza: valori come la salute, l’ambiente, il lavoro si prestano a dare consistenza a quell’utilità sociale che può legittimamente comprimere situazioni quali l’autonomia contrattuale e la proprietà privata, oltre che la libertà ex art. 41 Cost. Ma in questa sede il limite dell’utilità sociale interessa, evidentemente, nella misura in cui si riverbera sulla concorrenza e costituisce un limite per quella politica che aspira a trasformare il sistema dei rapporti economici in un contesto competitivo, in altri termini un contesto di mercato: è l’incidenza sulla politica delle liberalizzazioni che risulta qui rilevante, e appunto di questo difficile rapporto tra liberalizzazioni e utilità sociale [50] si è occupata la giurisprudenza costituzionale recente – con particolare enfasi nella sent. n. 200/2012 – e, tra le varie decisioni, anche le due sentenze che forniscono lo spunto per queste riflessioni.

Ed è in relazione a questo passaggio logico che si impone la riflessione sulla regolazione: non prima però di avere segnalato una significativa evoluzione che ha caratterizzato la nozione di concorrenza, e che si riflette sullo strumento della regolazione. Il sistema della concorrenza compare oggi nel quadro costituzionale, e di conseguenza nella giurisprudenza della Corte, con una valenza dualistica: da un lato è il risultato dell’esercizio e del pieno manifestarsi della libertà economica dei privati, in conformità alla disciplina ex art. 41; dall’altro esso è il modello di rapporti economici che l’art. 117, comma 2, lett. e) include tra le materie che lo Stato deve, in via legislativa, disciplinare. La dimensione soggettivistica è stata affiancata da una concezione oggettiva [51], con la conseguenza rilevante che il ragionamento del legislatore e anche della Corte costituzionale si muove sempre più in un ambito vasto, nel quale non solo si tutela la libertà dei singoli ma si considera come bene costituzionale a se stante un particolare assetto di rapporti economici, dotati di oggettivo valore, indipendente dalle situazioni soggettive dei privati. Come si è avuto modo di osservare, cresce nelle istituzioni politiche – l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ma anche la Corte costituzionale – la consapevolezza del valore, al contempo strutturale-costituzio­nale e strategico, del bene concorrenza, riguardato sia sotto il profilo economico che sotto un profilo ordinamentale. La concorrenza è sempre più avvertita come elemento costitutivo di una retta organizzazione sociale, come se le teorie economiche più accreditate avessero ormai fatto breccia nel sistema dei principi costituzionali [52].

Rispetto a questo quadro diventa rilevante la regolazione, della quale tanta letteratura ha offerto la definizione, che pare di potere sintetizzare così: essa è rappresentata da un insieme di disposizioni di diritto pubblico, che insieme concorrono a perseguire gli obiettivi ultimi della liberalizzazione. Tra questi rientrano primariamente quello di tutelare i soggetti nell’esercizio della loro libertà economica e quello di garantire il benessere dei consumatori-utenti [53], e più in generale di assicurare l’intangibilità del nucleo essenziale dei diritti fondamentali [54]. La regulation rappresenta un controllo duraturo sullo svolgimento di attività economicamente e/o socialmente rilevanti, affidato normativamente ad uno specifico organismo amministrativo tecnicamente competente [55]. Essa è solo uno degli strumenti del cosiddetto Stato regolatore del mercato ed è una componente irrinunciabile del processo di liberalizzazione, che non può in alcun modo intendersi come mera eliminazione di regole o assenza di regole, pretendendo invece che se ne verifichi la loro utilità: occorre infatti trovare il giusto equilibrio tra la libertà di iniziativa economica e la tutela degli interessi che possono essere minacciati dalle attività d’impresa; e mantenere le restrizioni alla concorrenza funzionali all’interesse generale e non a quelli di specifiche categorie [56]. La liberalizzazione è così accompagnata dalla codificazione di principi e di direttive liberali che disegnano i confini entro i quali le libertà individuali possono esercitarsi: confini rappresentati dall’accesso al mercato, dalla qualità dei prodotti e dei servizi, dalla formazione di un giusto prezzo, dalla tutela del consumatore e della sua libera scelta [57].

Per tali complesse e articolate ragioni si è affermato che il mercato concorrenziale è pur sempre “un’istituzione ‘regolata’, che non esclude, ma semmai implica, l’intervento degli apparati a garanzia della complessiva efficacia delle politiche pubbliche” [58]. È partendo da tale presupposto che occorre interrogarsi sul significato della nozione di ‘ri-regolazione’ che la giurisprudenza costituzionale ha coniato, e che richiede una collocazione nel quadro finora tratteggiato.

Si è visto che la Corte costituzionale in varie delle ultime decisioni – le due che qui si commentano, che riprendono soprattutto le pronunce del 2012 – qualifica la liberalizzazione come «razionalizzazione della regolazione» e riconduce tale modalità di intervento dei pubblici poteri alla dimensione promozionale della concorrenza: specificando che le misure di liberalizzazione così intese sono idonee a «produrre effetti virtuosi per il circuito economico». La liberalizzazione così intesa viene ribattezzata in termini di ‘ri-regolazione’, la quale avrebbe la capacità di «aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati» e di permettere «ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze». Tale ‘ri-regolazione’ apparirebbe quasi come un ritorno dello Stato regolatore sulla scena delle attività economiche, per rivedere quelle misure di regolazione che condizionano l’a­gire degli operatori sul mercato; che si presentano «ingiustificatamente intrusive» in quanto incoerenti rispetto al principio di proporzione; che generano «inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori». Una regolazione di questo tipo potrebbe addirittura recare danno a quel valore che, si è detto, legittima e giustifica la regolazione stessa: il valore dell’utilità sociale. Parrebbe allora che per ‘ri-regolazione’ vada inteso un processo di valutazione e revisione degli oneri regolamentari, che miri ad individuare quelli inutili per mantenere invece «quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali».

L’operazione logica compiuta dalla Corte dal 2012 ad oggi potrebbe apparire contraddittoria e poco lineare, stando alla lettera delle statuizioni: ma al contrario del tutto comprensibile, e in realtà ampiamente sottoscrivibile, se collocata all’interno del quadro finora fornito. Se si ragiona in termini di liberalizzazione come mera deregolamentazione o, meglio, come “affrancamento o al­leggerimento del potere amministrativo di conformazione e di controllo”, a cui si associa l’eliminazione o la riduzione di regole pubblicistiche [59], è evidente che le argomentazioni del giudice costituzionale appaiono quasi senza senso: laddove egli fa coincidere ‘liberalizzazione’ e ‘razionalizzazione della regolazione’, sembrerebbe quasi poco consapevole della lettura più tradizionale e semplicistica del primo dei due termini. Ma, come ormai soprattutto in sede giurisprudenziale risulta avvertito [60], i veri processi di liberalizzazione si compiono all’insegna di un’oculata regolazione. Se è vero, come è stato osservato, che l’eccesso di regolazione e di controlli amministrativi intralcia l’iniziativa economica e scoraggia gli investimenti, tuttavia non tutto può essere liberalizzato e completamente deregolato, perché da ciò derivano ricadute per la sicurezza e l’incolumità degli individui, per i diritti fondamentali dei cittadini, per gli interessi generali del Paese, per la stessa crescita economica e per la libera concorrenza stessa [61]. E allora il binomio liberalizzazione/regolazione non appare più in alcun modo passibile di disgiunzione, benché poi il problema rilevante sia quello di dosare le opportune e appunto ‘utili’ – per stare al linguaggio della Corte costituzionale – misure di regolazione. Ma un approccio che veda le due nozioni contrapposte pare ormai del tutto superato, perché la prospettiva per i sistemi di mercato moderni – sia che si parli di servizi a reti piuttosto che di servizi pubblici locali, di attività commerciali piuttosto che produttive, di servizi immateriali piuttosto che di beni tangibili – vuole essere quella di una valorizzazione della libertà economica che si sottometta a meccanismi regolatori funzionali alla promozione di beni collettivi irrinunciabili; e che imposti questi meccanismi regolatori in una dimensione dinamica di costante aggiustamento delle regole stesse, in un processo di ‘ri-regolazione’ inteso come manutenzione razionalizzatrice funzionale ad un affinamento del modello concorrenziale sfrondato dalle regole che inutilmente lo impacciano, ma al tempo stesso ligio a quelle che preservano valori che il mercato comprimerebbe [62].

D’altra parte è stato osservato come i processi di liberalizzazione abbiano contribuito al significativo aumento delle regolazioni, e come ormai in questo scenario abbia un ruolo rilevante un insieme di strumenti complementari – soprattutto la semplificazione e l’analisi di impatto della regolazione – che si intrecciano e si integrano con l’obiettivo di formulare regolazioni di qualità, che siano necessarie ed adeguate alle esigenze di interesse generale [63]. Anche perché la regolazione è stata a lungo confusa e fraintesa con la nozione di pianificazione [64]: la regolazione va vista come un processo, in cui rileva non solo il momento della formulazione delle regole, ma anche quello della loro concreta applicazione, e quindi per valutare la regolazione occorre esaminare non l’astratta ma la concreta modificazione dei contesti d’azione dei destinatari [65].

Ecco perché se il presupposto del mercato come istituzione regolata può essere ormai acquisito, problema diverso è capire quanto effettivamente le regole siano funzionali alle finalità appena delineate, e quanto vada migliorata la loro qualità. La questione è evidentemente decisiva, posto che non qualsiasi regolazione raggiunge gli obiettivi desiderati: in questa sede non è possibile farsi carico della tematica, sulla quale del resto la letteratura abbondantemente si interroga [66], ma il passaggio che sicuramente rileva è quello di un processo di ridefinizione continua delle regole destinato a rivedere costantemente la regolazione stessa, depurandola da quei vincoli che si sono dimostrati inadeguati. Questa è la ‘ri-regolazione’ a cui fa riferimento ormai ripetuto il giudice delle leggi, consapevole del fatto che le liberalizzazioni – o meglio, il principio della liberalizzazione, come suona la formula a cui la Corte ricorre – nulla hanno a che fare con l’automatica e generalizzata eliminazione delle molteplici regole: ma che esse coincidono piuttosto con un appropriato apparato regolatorio, che si giustifica in funzione della promozione di un bene assai complesso e variegato, quello dell’utilità sociale, che – si potrebbe dire – finisce ormai per rendere inscindibile il legame tra liberalizzazioni e regolazione, conducendo il custode della Costituzione ad affermare che la liberalizzazione è la razionalizzazione della regolazione; e conducendolo altresì ad assegnare a tale nuovo concetto, frutto evidentemente di equilibri delicati, mutevoli e necessitanti di valutazioni ascrivibili a diverse discipline [67], la denominazione di ‘ri-regolazione’.

In tale prospettiva, rimane da affrontare l’ultima questione problematica: quella del riconoscimento di spazi di legittimo intervento in materia di regolazione a favore delle autonomie territoriali.


7. La regolazione tra Stato e autonomie

Le riflessioni finora svolte consentono di fissare un primo punto fermo del quadro interpretativo dal quale è possibile valutare la legittimità della regolazione di derivazione regionale [68]: se la competenza trasversale o materia-fun­zione della tutela della concorrenza, un tempo desunta dalla libertà di iniziativa economica [69] ma ora direttamente protetta dall’art. 117, comma 2, lett. e), incontra nei concetti generali dell’“utilità sociale” e dei “fini sociali” i presupposti legittimanti un intervento di regolazione da parte dei pubblici poteri, la funzione regolativa non è più in alcun modo contrapponibile all’obiettivo del perseguimento di quel contesto dove liberamente possono accedere e confrontarsi una pluralità di operatori economici, che si qualifica come ‘mercato’. La revisione costituzionale del 2001, che ha assegnato allo Stato la potestà esclusiva non in materia di concorrenza bensì di “tutela della concorrenza”, e­sige da esso interventi destinati a “una situazione di fatto da conservare (se c’è), o una situazione da promuovere o da instaurare (quando non c’è)” [70]. La regolazione amministrativa rappresenta una prerogativa che non può più essere intesa in senso conformativo, ma di tutela rivolta tanto alle imprese quanto ai consumatori [71] e destinata ad assicurare la complessiva efficienza del sistema e la corretta allocazione delle risorse, secondo il valore costituzionale dell’utilità sociale. Tutela della concorrenza e regolazione costituiscono pertanto un binomio non più scindibile, e quindi a seconda dell’assegnazione della competenza in tema di concorrenza, risulterà definita anche l’assegnazione dell’attribuzione in tema di regolazione.

Ed esattamente questo della spettanza della competenza è un secondo punto da chiarire.

La portata della tutela della concorrenza come clausola trasversale è quella di investire tutte le materie, anche quelle affidate alla potestà residuale delle Regioni: tenendo in considerazione la necessità di utilizzare regole non schematiche, tecniche e percorsi flessibili [72], la promozione della concorrenza va reputata un bene pubblico, dal cui perseguimento non è possibile escludere le molteplici autorità che nel nostro ordinamento operano, e che tra l’altro per e­spressa previsione costituzionale incontrano i medesimi limiti nell’esercizio della loro potestà legislativa. La presenza di norme comunitarie rappresenta un elemento unificante [73] che da un lato toglie problematicità ad un coinvolgimento delle istituzioni regionali, e dall’altro rappresenta un argine laddove la tendenza delle Regioni fosse quella di applicare un’eccessiva differenziazione, che diventerebbe poco auspicabile qualora determinasse crescita dei costi sociali e dei costi per gli operatori, nonché difficoltà per i cittadini ad adottare comportamenti uniformi [74].

Il contesto europeo è un riferimento anche sotto un altro profilo. È stato osservato che la tutela multilivello della concorrenza è un fatto, essendo già incardinata su più livelli: quello comunitario e quello nazionale. E che così come misure concorrenziali possono essere differenziate nelle diverse parti del mercato unico europeo, così le medesime misure possono differenziarsi, senza ledere la concorrenza, in diverse parti dello stesso territorio nazionale [75].

Partendo da queste due prospettive, indubbiamente va riconosciuto che l’orientamento della Corte è stato prevalentemente quello di una lettura estensiva di competenze statali in vari ambiti, e tra questi anche in quello della concorrenza [76]. Se si vogliono individuare le materie che si possono considerare ‘regionali’ di rilevanza economica, non basta infatti andare a rintracciare le effettive competenze, ma occorre valutare come le tecniche di riparto utilizzate dalla Corte (trasversalità, prevalenza e sussidiarietà) ne hanno attenuato la decisività [77]. Quindi complessivamente le operazioni di interpretazione a cui è ricorso il giudice delle leggi sembrano veramente chiudere gli spazi alla capacità regolativa delle Regioni, ad eccezione di alcune saltuarie aperture, come quella contenuta nella sent. n. 200/2012 o nella sent. n. 8/2013, già richiamate, per il fatto che si prevede «l’intervento del legislatore, statale e regionale, di attuazione del principio della liberalizzazione» [78].

Ma proprio a partire dai passaggi logici qui evidenziati, si può contestare tale indirizzo giurisprudenziale.

Anzitutto l’argomento del diritto europeo ci riporta proprio alle sentenze qui commentate ed all’interrogativo sollevato in apertura di queste riflessioni, allorché ci si è chiesti se la matrice sovranazionale del diritto pro-concorrenziale debba necessariamente condurre ad una sistemazione univoca dei rapporti tra Stato e Regioni: proprio su un terreno come quello della tutela della concorrenza il giudice costituzionale continua a ritenere di trovare nelle norme dei Trattati un parametro che appare quanto mai congeniale a ricondurre interamente allo Stato le competenze, ma a chi scrive non pare quello l’argomento dirimente. Il vincolo ex art. 117, comma 1, Cost. non serve ad escludere le Re­gioni da politiche ed interventi che proprio il diritto europeo non può in alcun modo assegnare all’uno o all’altro livello di governo [79]: serve piuttosto a pretendere un corale rispetto dei principi e delle regole sovranazionali, a prescindere dall’istituzione che nell’ordinamento interno è titolare delle varie funzioni.

Soprattutto la trasversalità della materia in questione non pare rappresentare argomento sufficiente a precludere alle Regioni – ma in misura considerevole anche ai Comuni, per effetto dell’art. 118 Cost. – significativi interventi in ambiti materiali che l’art. 117, commi 3 e 4, Cost. chiaramente ad esse assegna: gran parte dell’industria ma anche il commercio interno sono settori di tale rilevanza in campo economico che risulta veramente difficile ritenere ammissibile una concezione della concorrenza come sistema dei rapporti economici su cui il livello regionale non sia in grado di incidere. La “regolazione economica decentrata” [80] non può non riguardare la realtà del commercio, delle professioni, dell’industria, dell’agricoltura, dei servizi, compiendo interventi di regolazione che devono essere attenti al contesto territoriale, alle specificità dell’ambiente da molteplici punti di vista, senza tuttavia introdurre gravami che, benché giustificabili sul piano della differenziazione, finiscono però per diventare impacci per le attività economiche stesse. E allora occorre distinguere tra quell’intervento unitario che solo lo Stato può realizzare, e che si esplica in materia antitrust e nella fissazione di soglie di garanzia della concorrenza nei diversi settori economici, e quell’intervento differenziatore delle Regioni, che tali standard del mercato libero deve inderogabilmente rispettare laddove, però, provvede a regolamentare specifici mercati e attività economiche locali [81].

La garanzia della concorrenza e del mercato diventa così un elemento unificante [82] del nostro sistema giuridico che presuppone la realtà da unificare, che altro non è se non la “declinazione territoriale del principio inclusivo applicata alla decisione politica della struttura economica”: questo argomento fornisce la base teorica per sostenere il concorso della dimensione locale a costruire la nuova unità politico-economica della Repubblica e per interpretare il testo costituzionale nel rispetto degli spazi materiali che «l’art. 117 riconosce, nelle regolazioni economiche, all’autonomia politica regionale» [83].


Conclusioni

Le considerazioni di chiusura vogliono ricomporre il quadro da cui si è partiti, rispetto al quale ci si è interrogati circa l’opportunità, da parte della giurisprudenza costituzionale, a insistere su una accentuata preclusione alle Regioni ad occuparsi di regolazione delle attività economiche dei rispettivi territori; e circa la collocazione della categoria della ‘ri-regolazione’ accanto a quelle già utilizzate della concorrenza e della regolazione.

A prescindere dalle decisioni da cui sono scaturite queste osservazioni, che verosimilmente hanno riguardato situazioni nelle quali il legislatore regionale aveva effettivamente introdotto vincoli [84] che male si prestavano a promuovere logiche efficienti di mercato in alcuni particolari settori del commercio e dei servizi professionali, la ricomposizione dei vari interrogativi può essere così realizzata: nessuna liberalizzazione può oggi essere impostata in assenza di regole o anche solo con una logica volta a vedere nelle regole dei gravami, che quindi vanno minimizzati. La nozione di ‘ri-regolazione’ sembra aprire ormai a una fase matura del processo di liberalizzazione, in cui lo sforzo è quello di valutare efficienza ed efficacia delle regole, perché esse possano produrre al meglio gli effetti a cui sono preposte: effetti che nella maggior parte dei casi riguardano valori che il mercato non salvaguarderebbe adeguatamente, e che invece devono essere garantiti proprio allorché si vuole che il sistema economico si ispiri alla logica della libera concorrenza. La nozione di ‘ri-regolazione’ appare volta a coniugare in maniera collaborativa il versante della liberalizzazione con quello della formulazione delle regole, affinché la promozione del mercato avvenga all’unisono con la promozione di molteplici e diversi valori costituzionali, siano essi di natura sociale o economica.

Tale ‘ri-regolazione’ rende però ancora più arduo lo sforzo di concepire in maniera coordinata l’intervento dei vari livelli istituzionali nel settore ampio ed articolato della concorrenza. Se il primo approccio regolatore si è avviato all’insegna della centralizzazione delle competenze, la sfida affinché l’approc­cio ‘ri-regolatore’, volto ad individuare ed eliminare regole poco efficienti, non spodesti ulteriormente le Regioni delle loro competenze appare quanto mai difficile. Occorre che veramente le Regioni accolgano la prospettiva compatibile col riparto costituzionale vigente, e quindi effettuino interventi regolatori che non abbassino l’intento, espresso dalla regolazione dello Stato, di realizzare un’equilibrata apertura dei settori economici alla logica del mercato. E qui non può mancare un accenno alla revisione costituzionale in corso, che porterà alla soppressione della competenza di natura concorrente e circoscriverà in maniera rilevante la competenza residuale delle Regioni: a fronte di una tale evoluzione nei rapporti tra istituzioni centrali e autonomie, è francamente poco probabile che avanzi una concezione della materia della concorrenza più aperta alle regolazioni regionali. È facile, ma non del tutto auspicabile, la previsione che la ‘ri-regolazione’ finisca per essere un potere di sola spettanza statale, che determinerà l’estensione dell’uniformità a tutte le situazioni nelle quali il mercato va coniugato con altri valori, lasciando veramente ai margini le opzioni di differenziazione, anche quelle non in dissonanza con gli standard definiti a livello statale.


NOTE

1 La portata di questa decisione è stata veramente decisiva per definire sul piano dei principi costituzionali il sistema di rapporti economici su cui si fonda l’ordinamento italiano: quello dell’economia di mercato. Ciò è confermato dalla molteplicità di commenti che l’hanno accompagnata e che qui si richiamano: M. BARBERO, Materie trasversali e federalismo fiscale: il caso della tutela della concorrenza, brevi considerazioni critiche a margine di Corte cost. 14/2204, in www.amministrazioneincammino.it, 2004; C. BUZZACCHI, Principio della concorrenza e aiuti di Stato tra diritto interno e diritto comunitario, in Giur. cost., 1/2004; R. CARANTA, La tutela della concorrenza, le competenze legislative e la difficile applicazione del Titolo V della Costituzione, in Regioni, 4/2004; L. CASSETTI, La Corte e le scelte di politica economica: la discutibile dilatazione dell’intervento statale a tutela della concorrenza, in www.federalismi.it, 5/2004; G.P. DOLSO, Tutela dell’interesse nazionale sub specie di tutela della concorrenza?, e A. PACE, Gli aiuti di Stato sono forme di «tutela» della concorrenza?, in Giur. cost., 1/2004; F. PIZZETTI, Guardare a Bruxelles per ritrovarsi a Roma?, in Le Regioni, 4/2004; F. SACCO, Competenze statali trasversali e potestà legislativa regionale: un tentativo di razionalizzazione (a proposito della «tutela della concorrenza») della Corte costituzionale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2004; V. TALIENTI, Nota sulle politiche statali di sostegno del mercato alla luce del diritto comunitario e delle competenze legislative regionali nel nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, con particolare riferimento alla «tutela della concorrenza», in Giur. it., 2/2004; P. GIARDA, Concorrenza, competenze regionali e politica economica nella sentenza n. 14/2004 della Corte costituzionale, in Riv. it. economisti, 1/2005.

Il n. 4-5/2008 della Rivista Regioni è stato interamente dedicato a questa e all’altra sentenza di cui è stato redattore il giudice Carlo Mezzanotte, Corte cost., 1 ottobre 2003, n. 303: si richiamano i contributi di V. ONIDA-A. ANZON-R. BIFULCO-R. BIN-P. CARETTI-A. D’ATENA-G. FALCON-S. MANGIAMELI-E. ROSSI-I. RUGGIU-R. TOSI-L. VANDELLI.

2 In relazione a questa pronuncia si vedano le riflessioni di M. SALERNO-P. SANTONE, Liberalizzazioni nella distribuzione dei carburanti e mercato unico: la Corte annulla ... le distanze, in Dir. pubbl. comp. eur., 3/2010. Gli AA. riportano un’interessante analisi comparativa del mercato del carburante in Europa.

3 V. GUGLIELMI, Il giudice “liberalizzatore”: l’abolizione delle distanze minime nella distribuzione dei carburanti, in Giorn. dir. amm., 12/2012, p. 1219. L’A. segnala, p. 1222, come l’a­bolizione delle distanze minime, quale barriera all’ingresso del mercato ora trova conferma nella previsione del decreto ‘‘cresci Italia’’ n. 179/2012, che all’art. 1 abroga le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, divieti e restrizioni alle attività economiche in generale. Tale disciplina ha inoltre consentito agli impianti di distribuzione carburanti l’esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande, di vendita non esclusiva di quotidiani e periodici e di rivendita di tabacchi, nonché la vendita di ogni bene e servizio, nel rispetto delle condizioni di sicurezza stradale (art. 17, comma 4). “Pertanto, la liberalizzazione compiuta dal legislatore è totale nel settore c.d. non oil (vendita di giornali, generi alimentari). Rimane invece parziale per il rifornimento non in esclusiva che resta limitato agli impianti dei quali i gestori siano anche proprietari (art. 17, comma 1)”.

4 A. CASSATELLA, La liberalizzazione del commercio e i suoi attuali limitiin Giur. it., 4/2014, p. 933. L’A. riporta in nota 5 il complesso di interventi normativi adottati tra il 2010 e il 2012, osservando come il progressivo rafforzamento della libertà di iniziativa economica abbia condotto ad una marcata restrizione delle limitazioni che si possono apporre al processo di liberalizzazione: quest’ultimo culminato con le previsioni del noto art. 3 del d.l. n. 138/2011, poi richiamato dal d.l. n. 1/2012.

La ricostruzione degli ‘schizofrenici’ interventi legislativi dello Stato è anche compiuta da V. ONIDA, Quando la Corte smentisce se stessa, in Rivista AIC, 1/2013, p. 3.

5 Per l’analitica ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, ma anche amministrativa, si rinvia all’ampio saggio di S. SILEONI, La liberalizzazione del commercio tra concorrenza statale e reazioni regionali, in Regioni, 5-6/2012.

Ivi, p. 956. Ampia è letteratura che, a tale riguardo, si può richiamare. Si rinvia a M. CLARICH-A. PISANESCHI, La legge costituzionale n. 3/2001, la competenza esclusiva delle regioni in materia di commercio e il limite «delle grandi riforme economico-sociali», in Disciplina comm., 2/2002; P. BILANCIA, La disciplina del commercio tra legislazione e attività pianificatoria, in Regioni, 5/2005; C. CARDONI, I profili della recente legislazione regionale in materia di commercio, in Giornale dir. amm., 4/2008; L. CASSETTI, La Corte Costituzionale “salva” le liberalizzazioni del 2006: dalla trasversalità alla “prevalenza” della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, in www.federalismi.it, 9/2008; M. DEODATI-O. ZAPPI, Attuazione delle liberalizzazioni nelle Regioni: a che punto siamo?, in Disciplina comm., 2/2009; O. ROSELLI, Commercio (profili amministrativi), in Enc. dir., Annali III, 2010; P. LOTITO-O. ROSELLI, Il commercio tra regolazione giuridica e rilancio economico, Giappichelli, Torino, 2012, ed in particolare i capitoli di C. CARDONI, Il ruolo delle Regioni in materia di commercio; F. CINTIOLI, Commercio e liberalizzazione; L. DEGRASSI, Attività commerciali e tutela dei centri storici. Le scelte strategiche negli ordinamenti regionali, e di D.M. TRAINA, Disciplina del commercio, programmazione e urbanistica; S. LA PORTA, Il commercio: una materia al vaglio del “custode della tutela della concorrenza”, in Rivista AIC, 2/2012.

7 Si vedano le riflessioni di A. CESCHI, Le liberalizzazioni a confronto con le normative regionali: abolizione dei limiti all’insediamento di attività commerciali. Commento a sentenza n. 1987 del 3 agosto 2012, TAR Sicilia Catania, sezione II, in Riv. giur. Mezzogiorno, 4/2012, p. 1059, che arriva ad auspicare che l’intervento regolamentare governativo intervenga al più presto al fine di dare chiarezza agli operatori.

8 Corte cost., 18 giugno 2014, n. 178, p.to 4.1 del Considerato in diritto.

Ivi, p.to 5 del Considerato in diritto.

10 Si richiama qua la letteratura che più in generale si è occupata della materia delle professioni dopo la revisione costituzionale del 2001, perché evidentemente i tanti profili problematici della tematica hanno stimolato una dottrina ben più ampia. Si rinvia a M. LUCIANI, Leggi regionali e professioni, in Prev. forense, 2/2002; G. DELLA CANANEA, L’ordinamento delle professioni dopo la riforma costituzionale, in Giornale dir. amm., 1/2003; ID. (a cura di), Professioni e concorrenza, Ipsoa, Milano, 2003; ID., L’ordinamento delle professioni, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, tomo II, Giuffrè, Milano, 2003; A. GENTILINI, La materia concorrente delle "professioni" e il rebus dell’indivi­duazione delle singole figure professionali, Giur. cost., 6/2003; A. GIANNOTTI, Le «professioni» tra legislazione statale e regionale dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Regioni, 1/2004; G. COLAVITTI, Gli interessi pubblici connessi all’ordinamento delle professioni libere: la Corte conferma l’assetto consolidato dei principi fondamentali in materia di professioni, in Giur. cost., 6/2005; L. CUOCOLO, Le professioni tra materia e antimateria, in Giur. cost., 6/2005; G. D’ALESSANDRO, Competenza legislativa statale e istituzione di nuovi albi professionali, in Rivista AIC, 2005; A. MARI, I principi fondamentali in materia di professioni, in Giornale dir. amm., 8/2006; E. BINDI, M. MANCINI, La Corte alla ricerca di una precisa delineazione dei confini della materia ‘professioni’ (nota a margine delle sentt. nn. 319, 355, 405 e 424 del 2005 della Corte costituzionale), in www.federalismi.it, 2006; A. POGGI, Disciplina "necessariamente unitaria" per le professioni: ma l’interesse nazionale è davvero scomparso?, in Regioni, 2-3/2006; A. POGGI, La riforma delle professioni in Italia: sollecitazioni europee e resistenze interne, in Regioni, 2/2009; M. CONSITO, L’immigrazione intellettuale. Verso un mercato unico dei servizi professionali, Jovene, Napoli, 2012; F. DI PORTO, Le «professioni non regolamentate»: un modello per la riforma di quelle ordinistiche?, e N. RANGONE, Riforma delle professioni intellettuali: contenuti, limiti e prospettive, in B.G. MATTARELLA-A. NATALINI (a cura di), La regolazione intelligente. Un bilancio critico delle liberalizzazioni italiane, Passigli Editori, Bagno a Ripoli, 2013; A. CANDIDO, I servizi professionali tra esigenze di liberalizzazione ed effetti distorsivi del mercato, in C. BUZZACCHI (a cura di), Il mercato dei servizi in Europa. Tra misure pro-competitive e vincoli interni, Giuffrè, Milano, 2014.

11 Si rinvia all’ampia opera di ricognizione di tale giurisprudenza di M. BELLOCCI, La giurisprudenza costituzionale in tema di tutela della concorrenza nel Titolo V della CostituzioneAstrid, Roma, 2015. Si rinvia inoltre a M. LIBERTINI, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Riv. it. economisti, Supplemento a 1/2005, p. 112, per una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale volta a inquadrare il significato della nozione elaborata dalla Corte rispetto al dettato costituzionale.

12 Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 14, p.to 4 del Considerato in diritto.

13 Su questa lettura della tutela della concorrenza si veda principalmente P. GIARDA, Concorrenza, competenze regionali e politica economica, cit.

14 I passaggi più significativi della giurisprudenza costituzionale in tal senso sono rappresentati dalle sentenze 26 giugno 2002, n. 282 e 26 luglio 2002, n. 407; in dottrina, oltre a A. D’ATENA, Materie legislative e tipologie delle competenze, in Quad. cost., 1/2003; G. FALCON, Il nuovo Titolo V della Parte seconda della CostituzioneEditoriale, in Regioni, 5/2001; L. BUFFONI, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del Titolo V: il fondamento costituzionale ed il riparto di competenze legislative”, in Istituzioni Fed., 2/2003; e soprattutto G. CORSO, La tutela della concorrenza come limite della potestà legislativa (delle Regioni e dello Stato), in Dir. pubbl., 3/2002. Questo ultimo A. osserva, p. 982, come la competenza esclusiva dello Stato, quando viene definita in relazione a certi fini da promuovere (o valori da tutelare) “tenderà a debordare dai confini statali per invadere ambiti che sono assegnati alle Regioni a titolo di competenza legislativa concorrente o anche esclusiva”. Tale è proprio il caso della “tutela della concorrenza” che è “una relazione tra una pluralità di soggetti” e dunque, “essenzialmente, un fine pubblico, il fine di conservare e promuovere tale relazione”, esattamente come fini evidentemente ritenuti di pertinenza statale, quali la sicurezza, la difesa, l’ordine pubblico.

15 In tale decisione il giudice costituzionale si esprime in termini di «protezione dell’inte­resse collettivo» e di tutela del «mercato nelle sue oggettive strutture», e afferma che «la libertà di concorrenza tra imprese ha, com’è noto, una duplice finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi»: cfr. Corte cost. n. 223/1982, p.to 2 del Considerato in diritto.

16 Corte cost.15 maggio 1990, n. 241, p.to 4 del Considerato in diritto.

17 Si veda il commento di L. CASSETTI, Appalti e concorrenza: quante sono le «anime» della competenza esclusiva statale in materia di «tutela della concorrenza?», in Giur. cost., 6/2007: l’A. ha commentato anche la successiva sent. n. 430/2007 ancora in tema di liberalizzazione, ID., La Corte costituzionale “salva” le liberalizzazioni del 2006: dalla trasversalità alla “prevalenza” della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, in www.federalismi.it, 9/2008.

18 La decisione è stata commentata da M. LIBERTINI, I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza: il caso del decreto Alitalia, in Giur. cost., 4/2010; e da R. NANIA, Ulteriori sviluppi nell’assetto della costituzione economica (aggiornamenti sulle libertà economiche), in ID. (a cura di), L’evoluzione delle libertà e dei diritti fondamentali. Saggi e casi di studio, Giappichelli, Torino, 2011.

19 Corte cost., 22 luglio 2010, n. 270, p.to 8.2 del Considerato in diritto.

20 Corte cost., 29 maggio 2009, n. 167, p.to 2 del Considerato in diritto.

21 A commento della decisione cfr. F. SAITTO, La Corte costituzionale, la tutela della concorrenza e il «principio generale della liberalizzazione» tra Stato e Regioni, in Rivista AIC, 4/2012. L’A., p. 2, osserva come la pronuncia sia intervenuta in relazione ad una legge che aveva considerato opportuno dare avvio a un processo di de-regolazione delle discipline dei Comuni, delle Province, delle Regioni e dello Stato, confidando in un effetto di maggiore concorrenza: “la Corte, però, sembra stigmatizzare questo approccio, sottolineando piuttosto la necessità di una «razionalizzazione della regolazione» e di una «ri-regolazione» (…). La Corte appare voler proteggere e valorizzare la regolazione come strumento capace di portare maggiore concorrenza, dimostrando sfiducia verso un’impostazione che ritiene sufficiente de-regolare” e dimostrando altresì che “il mercato non è un ordinamento a sé, neutrale e naturale”.

22 Corte cost., 20 luglio 2012, n. 200, p.to 7.4 del Considerato in diritto.

23 Ivi, p.to 7.3 del Considerato in diritto.

24 Cfr. F. SAITTO, La Corte costituzionale, cit., p. 8.

25 V. ONIDA, Quando la Corte smentisce se stessa, cit., p. 2. L’A. osserva piuttosto che la decisione risponde “all’unico interesse, simboleggiato significativamente, lo scorso giorno di Natale, dall’apertura di alcuni grandi magazzini, della grande distribuzione ad essere sciolta da ogni vincolo di orari o di chiusura”.

26 Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 299, p.to 6.1 del Considerato in diritto.

27 Corte cost., 23 gennaio 2013, n. 8, p.to 4.1 del Considerato in diritto.

28 Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 14, p.to 2 del Considerato in diritto.

29 Ivi, p.to 5.1 del Considerato in diritto.

30 Ivi, p.to 4 del Considerato in diritto.

31 Per la parte che segue sia consentito il rinvio a C. BUZZACCHI, Principio della concorrenza e aiuti di Stato, cit., p. 286 ss.

32 Afferma infatti il giudice che «quando venga in considerazione il titolo di competenza funzionale» della tutela della concorrenza «è la stessa conformità dell’intervento statale al riparto costituzionale delle competenze a dipendere strettamente dalla ragionevolezza della previsione legislativa», Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 14, p.to 4.1 del Considerato in diritto.

33 Proprio in relazione alla libertà di iniziativa economica e ai “concetti generali” suscettibili di limitarla cfr. il commento alla sent. n. 190/2001 ad opera di A. MORRONE, Libertà di impresa nell’ottica del controllo sull’utilità sociale, in Giur. cost., 3/2001, p. 1477.

34 Cfr. le considerazioni di L. CASSETTI, La Corte e le scelte di politica economica, cit., e F. SACCO, Competenze statali trasversali e potestà legislativa regionale: un tentativo di razionalizzazione (a proposito della “tutela della concorrenza”) della Corte costituzionale, in www.
associazionedeicostituzionalisti.it
, 2004.

35 Corte cost., n. 27 luglio 2004, n. 272, p.to 2 del Considerato in diritto.

36 Corte cost., 3 marzo 2006, n. 80, p.to 10 del Considerato in diritto. Si aggiunge, in tema di modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, che «ciò non avviene a caso, poiché vi si prevede che le Regioni siano eccezionalmente legittimate, rispetto alla nuova legislazione di liberalizzazione del settore, a ritardarne in parte l’immediata applicazione a certe condizioni ed entro un periodo massimo». Sia consentito rinviare al commento di questa e della sent. n. 29/2006 di C. BUZZACCHI, Il concorso del legislatore statale e di quelli regionali alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali nelle recente giurisprudenza costituzionale, in Regioni, 3/2006, p. 805, laddove si constata che la risposta del giudice costituzionale, a fronte delle obiezioni delle Regioni in merito al fatto che le rispettive normative possano essere considerate come incidenti in vari altri ambiti materiali, riconducibili a competenze di natura residuale, sia assai netta: essa utilizza in maniera perentoria il titolo della competenza statale di tutela della concorrenza, che è capace di operare su vari e differenti ambiti materiali, e di imporre un unico criterio di carattere finalistico, quello del superamento di assetti monopolistici e dell’introduzione di regole di concorrenzialità nella gestione dei servizi di trasporto regionale e locale.

37 Corte cost., 21 dicembre 2007, n. 443, p.to 6.3 del Considerato in diritto.

38 Corte cost., 20 luglio 2012, n. 200, p.to 7.5 del Considerato in diritto.

39 Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 299, p.to 8.1 del Considerato in diritto.

40 Corte cost., 23 gennaio 2013, n. 8, p.to 4.2 del Considerato in diritto. La Corte specifica che il sistema delle autonomie «risponde ad una logica che esige il concorso di tutti gli enti territoriali all’attuazione dei principi di simili riforme. A titolo esemplificativo, si può rammentare che persino gli statuti di autonomia speciale prevedono che le norme fondamentali delle riforme economico-sociali costituiscono vincoli ai rispettivi legislatori regionali e provinciali, che sono tenuti ad osservarle nell’esercizio di ogni tipo di competenza ad essi attribuita».

41 Ivi, p.to 4.3 del Considerato in diritto. Il corsivo è di chi scrive.

42 W. GIULIETTI, Crisi economica e liberalizzazioni, in Giust. amm., 2012.

43 Ibidem.

44 Si rinvia alla distinzione introdotta da S. CASSESE, Quattro paradossi sui rapporti tra poteri pubblici e autonomie private, in Riv. trim. dir. pubbl., 2/2000, p. 389 ss.

Si veda inoltre la definizione di G. CORSO, Liberalizzazione amministrativa ed economica, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006, e di A. TRAVI, La liberalizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998.

45 Si vedano le riflessioni di G. BELLANTUONO, Liberalizzazioni e regolazione: appunti per un approccio interdisciplinare, in Pol. dir., 4/2007. In particolare l’A. osserva, p. 570, che la convergenza di interessi sul tema delle liberalizzazioni da parte di discipline diverse ha prodotto finora un limitato scambio di conoscenze, con effetti non ottimali nel modo in cui si procede a realizzare concretamente il processo di liberalizzazione: “se ciascuna disciplina è portatrice di visioni diverse, non consapevoli di quanto accade in discipline contigue, la costruzione dei nuovi mercati sarà influenzata solo dalla cultura di coloro che, all’interno di una particolare istituzione, sono investiti di potere decisionale”.

46 M. RAMAJOLI, Liberalizzazioni: una lettura giuridica, in Dir. econ., 3/2012, p. 507. L’A. rinvia poi alla nota voce di M. LIBERTINI, Concorrenza, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 2010, a cui non si può fare a meno di riferirsi.

47 Ancora M. RAMAJOLI, Liberalizzazioni, cit., p. 510, sottolinea come questo doppio fine sia il vero obiettivo delle politiche di liberalizzazione, la cui realizzazione di mercati in libera concorrenza è solo un obiettivo intermedio e strumentale.

48 Cfr. F. CINTIOLI, L’art. 41 della Costituzione tra il paradosso della libertà di concorrenza e il “diritto della crisi”, in Dir. soc., 3-4/2009, p. 376. Nella nota 3, p. 375, l’A. ricostruisce buona parte della letteratura che più recentemente si è occupata della portata dell’art. 41 Cost.

In merito all’influsso del diritto europeo si rinvia anche a A. NEGRELLI, Economia di mercato e liberalizzazioni: le (principali) ricadute sul sistema amministrativo italiano, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 3-4/2013, che osserva, p. 680, come il sistema europeo basato sul principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza sia permeato dallo schema regola-libertà/eccezione-limite.

49 L. DELLI PRISCOLIIl limite dell’utilità sociale nelle liberalizzazioni, in Giur. comm., 2/2014, p. 356 ss. Si veda la rassegna giurisprudenziale ivi proposta.

50 M. RAMAJOLI, Liberalizzazioni, cit., p. 527, esprime tale inscindibile rapporto affermando che le liberalizzazioni non avanzano se non superando concretamente il confronto con l’utilità sociale.

51 Cfr. le riflessioni di F. CINTIOLI, L’art. 41 della Costituzione, cit., p. 382 ss.

52 In questi termini sia consentito rinviare a C. BUZZACCHI-F. PIZZOLATO, L’oggettivazione della concorrenza nella giurisprudenza 2013 della Corte costituzionale, in Dir. econ., 3/2013, p. 811. Già in C. BUZZACCHI-F. PIZZOLATO, Liberalizzazione e semplificazione: la giurisprudenza costituzionale 2012 in tema di concorrenza, in Dir. econ., 3/2012, p. 720, si era osservato come “il linguaggio stesso della Corte è sottoposto a una sorta di torsione, nella direzione dell’acqui­sizione di categorie d’analisi e perfino talora del piglio predittivo propri dell’economista”.

53 M. RAMAJOLI, Liberalizzazioni, cit., p. 510.

54 L. DELLI PRISCOLIIl limite dell’utilità sociale, cit., p. 381.

55 S. AMOROSINO, Regolamentazione e deregolamentazione, in Enc. scienze sociali, www.treccani.it, 1997. Inevitabile, parlando di Stato regolatore, il riferimento a A. LA SPINA-G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Il Mulino, Bologna, 2000, nonché ai saggi Lo Stato regolatore, in Riv. trim. sc. amm., 3/1991, e «Deregulation» e privatizzazione: differenze e convergenze, in Stato mer., 2/1992.

56 Si veda M. CLARICH, B. MATTARELLA, Un nuovo sistema regolatorio per lo sviluppo economico, in Analisi giur. econ., 2/2013, p. 365. Gli AA. aggiungono che tale equilibrio va calcolato in base al principio di proporzionalità di derivazione europea: alla luce dello stesso la libertà dei privati si presume e i regimi di controllo amministrativo che incidono su di essa devono trovare una giustificazione in ragioni stringenti di interesse pubblico.

57 F. MACIOCE, Le liberalizzazioni tra libertà e responsabilità, in Contr. impr., 4-5/2012, p. 995. V. anche G. DE VERGOTTINI, Liberalizzazione dei servizi nell’Unione europea, in Enc. Giur. Treccaniwww.treccani.it, 2009.

58 A. CASSATELLA, La liberalizzazione del commercio, cit., p. 936.

59 Così M. RAMAJOLI, Liberalizzazioni, cit., p. 518, raffigura la portata corrente e più comune del concetto di liberalizzazione.

60 M. RAMAJOLI, Potere di regolazione e sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., n. 1, 2006, p. 82, evidenzia come il ruolo fondamentale svolto in materia di regolazione sia da assegnare più all’autorità giudiziaria che al legislatore.

61 F. BASSANINI, Introduzione, in B.G. MATTARELLA-A. NATALINI (a cura di), La regolazione intelligente. Un bilancio critico, Passigli Editori, Bagno a Ripoli, 2013, p. 13.

62 Per comprendere questa opera di manutenzione, valgono le osservazioni di M. DE BENEDETTO, Le liberalizzazioni e la Costituzione, in B.G. MATTARELLA-A. NATALINI (a cura di), La regolazione intelligente, cit., p. 46: “spesso le politiche di liberalizzazione hanno avuto aggiustamenti e ripensamenti, sono state avversate, non sono state comprese e neanche spiegate, molto spesso sono state considerate come liberalizzazioni delle semplici ridefinizioni della regolazione in senso pro-competitivo (come nel caso dei taxi o delle farmacie)”.

63 N. RANGONE, Regolazione, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, cit., p. 5061. Nella medesima direzione si vedano pertanto, della medesima A., Un nuovo modo di regolare: l’Air – Analisi di impatto della regolazione, in P.G. TORRANI-S. MARIOTTI (a cura di), Le Autorità indipendenti a 10 anni dalla loro istituzione, Giuffrè, Milano, 2006; La valutazione successiva delle regole, in Giornale dir. amm., 9/2010; L’Osservatorio sull’analisi di impatto della regolazione nelle autorità indipendenti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2010; La qualità delle regole: molti strumenti, pochi risultati, in Studi parl. pol. cost., 4/2010; La semplificazione delle regole e delle procedure amministrative, in Enc. giur. Treccaniwww.treccani.it, 2010.

64 M. RAMAJOLILa regolazione amministrativa dell’economia e la pianificazione economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione, in Dir. amm., 1/2008, p. 156. Alla regolazione amministrativa è riconducibile ogni misura che presupponga la spontaneità dei processi economici e si proponga di orientarne solo indirettamente e dall’esterno il corso in vista di finalità di interesse generale, mentre si riporta al tipo della pianificazione ogni misura che presupponga un fine di interesse generale da realizzare, prestabilisca le condizioni necessarie affinché quel fine possa dirsi realizzato e si proponga di conformare direttamente i processi economici alle condizioni ipotizzate”.

È a S. CASSESE, Dalle regole del gioco al gioco con le regole, in Merc. conc. reg., 2/2002, p. 266, che si deve uno dei primi tentativi di distinzione, espresso come segue: “I poteri pubblici disciplinano l’economia in molti modi: determinano programmi, erogano finanziamenti, controllano prezzi, stabiliscono caratteristiche qualitative di beni e servizi, ecc. Ma non ogni volta che sono presenti queste forme di ingerenza pubblica nell’economia si può parlare di regolazione”.

65 Cfr. A. LA SPINA-G. MAJONE, Lo Stato regolatore, cit., p. 28. Gli AA. osservano ancora, p. 36, come talvolta la regulation possa dimostrarsi insoddisfacente perché lo Stato appare invadente, perché gli enti ad essa preposti costituiscono un alto costo, perché in fondo economicamente inefficiente anche dal punto di vista delle attività regolate, compromettendo la dinamica della concorrenza e dell’efficienza produttiva.

66 Si rinvia ancora a M. CLARICH-B. MATTARELLA, Un nuovo sistema regolatorio, cit.; a U. MORERA-N. RANGONE, Sistema regolatorio e crisi economica, in Analisi giur. econ., 2/2013; a B. G. MATTARELLA-A. NATALINI (a cura di), La regolazione intelligente, cit., in particolare i saggi di M. DI BENEDETTO, Le liberalizzazioni e la Costituzione, cit.; L. FIORENTINO, La politica di liberalizzazione in Italia; F. SILVA, Liberalizzare è un processo politico e sociale, prim’ancora che economico.

Interessante anche la valutazione del presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, G. PITRUZZELLA, Concorrenza e mercati: Regno Unito e Italia nel contesto europeoThe Annual Report of the Italian Competition Authority: major reform challenges, in www.agcm.it, 2014.

67 Si fa ancora riferimento alle riflessioni di G. BELLANTUONO, Liberalizzazioni e regolazione, cit. L’A. osserva, p. 570 ss., come la transizione alla concorrenza richieda di rendere compatibili con i vincoli tecnologici i comportamenti di un numero elevato di soggetti, e come dunque sia inevitabile il coinvolgimento delle discipline ingegneristiche e informatiche, con tutte le difficoltà dei tecnicismi di questi linguaggi settoriali. La strada da seguire “per diffondere la consapevolezza sul reale impatto delle liberalizzazioni, nonché per scegliere in modo trasparente le modalità con le quali realizzarle” deve essere quello della interdisciplinarietà, tanto più in un Paese come l’Italia “storicamente non favorevole all’affermazione della concorrenza. L’influenza comunitaria è stato il principale fattore che ha messo in moto un processo di cambiamento in numerosi settori”. L’A. conclude osservando che “non è chiaro se nel prossimo futuro sarà ancora possibile sfruttare la pressione delle istituzioni comunitarie per superare le resistenze alle riforme”.

68 Sia consentito, per le riflessioni che seguono, rinviare ancora a C. BUZZACCHI, Il concorso del legislatore statale, cit.

69 Per un quadro complessivo e ricostruttivo di tale dibattito prima della revisione del 2001 si rinvia a M. ANTONIOLI, Appunti per un nuovo studio sul diritto pubblico della concorrenza, in Dir. econ., 2/2000, p. 376 ss., e a L. BUFFONI, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del Titolo V, cit., p. 347 ss.

70 In tal senso si veda, autorevolmente, G. CORSO, La tutela della concorrenza, cit., p. 985.

71 M. LIBERTINI, La tutela della concorrenza, cit., p. 115 ss., enuclea nella giurisprudenza costituzionale i casi, non del tutto frequenti, in cui essa interpreta correttamente la tutela della concorrenza in senso promozionale: è vera promozione quando “s’intende ciò che tale espressione ha significato, nel diritto europeo, in ordine alle politiche di liberalizzazione di settori prima regolati con assetti monopolistici (telecomunicazioni, elettricità ecc.); e cioè se per promozione della concorrenza s’intende la politica di superamento di barriere legali all’entrata di nuovi soggetti in certi mercati”. L’A. osserva che non è invece promozione quella delle misure statali che attengono, piuttosto, a politiche di sostegno settoriali o territoriali: “la Corte sembra identificare (arbitrariamente) «promozione della concorrenza» e «promozione (sostegno) di imprese o settori economici»”.

72 Cfr. in questi termini L. AMMANNATI, Tutela della concorrenza e regolazione pro-concor­renziale (tra Stato e Regioni), in L. AMMANNATI-T. GROPPI (a cura di), La potestà legislativa tra Stato e Regioni, Giuffrè, Milano, 2003, p. 128.

Di segno opposto l’interpretazione di M. LIBERTINI, La tutela della concorrenza, cit., p. 111 ss., che ritiene che la formulazione costituzionale ex art. 117, comma 2, lett. e) abbia un triplice rilievo normativo:

a) la doverosità dell’esercizio della funzione (normativa ed amministrativa) di tutela della concorrenza da parte dello Stato;

  1. b) la sottrazione alle Regioni e agli enti locali di qualsiasi potere (normativo od amministrativo) di intervento positivo in materia, ancorché con finalità integrative o rafforzative degli standard di intervento determinati dalla normativa statale (non sarebbe costituzionalmente legittima, dunque, l’ipotetica istituzione di un’autoritàantitrustregionale da parte di una Regione);
  2. c) il divieto, in capo alle Regioni e agli enti locali, di contrastare o frustrare le regole e gli obiettivi del diritto generale della concorrenza, stabiliti dalle leggi dello Stato, con misure di regolazione amministrativa incompatibili con i principi sostanziali della materia”.

L’A. conclude stigmatizzando “leggi regionali o regolamenti comunali che regolano il funzionamento di mercati locali con norme volte a creare artificiali barriere all’entrata di nuovi operatori, o a limitare la concorrenza di prezzo o il ricorso a determinate modalità di offerta, o a favorire accordi cooperativi fra gli operatori già presenti nel mercato, ovvero ancora a fornire aiuti a determinate imprese, con possibili distorsioni del processo competitivo”.

73 L. AMMANNATI, Tutela della concorrenza, cit., p. 135, sottolinea che l’estensione dei vincoli comunitari anche alle Regioni “raggiunge una rilevante ampiezza quando siano implicati obiettivi di tutela della concorrenza o di liberalizzazione e regolamentazione di alcuni mercati”.

74 Ivi, p. 136.

75 L’argomento è suggerito da L. BUFFONI, Riparto di competenze legislative ed ordine giuridico del mercato, in Regioni, 2/2013, p. 329.

76 V. ONIDA, Il giudice costituzionale e i conflitti tra legislatori locali e centrali, in Regioni, 1/2007, p. 21.

Del medesimo avviso v. A. ANZON, I poteri delle regioni. Lo sviluppo attuale del secondo regionalismo, Giappichelli, Torino, 2008, con particolare riferimento alla tutela della concorrenza, p. 115 ss.

77 L. BUFFONI, Riparto di competenze legislative, cit., p. 341. Nel ricostruire la giurisprudenza costituzionale, L’A. osserva, p. 331, come “l’ipostatizzazione a valore dell’uniformità statale della disciplina della concorrenza, senza la concreta valutazione della ragionevole funzionalità della legge uniforme all’assetto concorrenziale del mercato, abbia già condotto il giudice costituzionale ad esiti paradossali”; e aggiunge che nessuna delle materie economiche che si possono dire regionali è effettivamente riservata alle Regioni: “si staglia sempre dinnanzi il contro-interesse, concorrente o prevalente, della tutela della concorrenza e la possibile attrazione in sussidiarietà”.

78 F. SAITTO, La Corte costituzionale, cit., p. 5, osserva come “in definitiva, la Corte sembra sostenere che il principio di liberalizzazione si applica per forza propria anche alle Regioni. La legge statale si è infatti limitata a esplicitarlo nell’ambito della sua competenza trasversale, ma tale principio si applica direttamente alle Regioni nelle materie di loro competenza concorrente e residuale in forza dell’art. 41 Cost. e non in virtù della legge statale. Lo Stato, in sintesi, è così – salvo, probabilmente, che non ricorrano i presupposti per un suo intervento in sussidiarietà – autorizzato a porre solo il principio ma non necessariamente tutte le regole che saranno decise in applicazione del principio stesso”.

79 Tale prospettiva è approfondita da M. D’ALBERTI, La tutela della concorrenza in un sistema a più livelli, in Dir. amm., 4/2004, p. 705.

80 Ivi, p. 711.

81 Ivi, p. 716 ss.

82 Di elementi unificanti parla A. PAJNO, Gli “elementi unificanti” nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Astridonline, 2004, indicando come presupposto dell’operazione di unificazione il fatto che importanti responsabilità siano affidate anche ai livelli diversi dallo Stato.

83 L. BUFFONI, Riparto di competenze legislative, cit., p. 358.

84 Si rinvia alle attente analisi della rivista Disciplina del commercio e dei servizi per ottenere un quadro più realistico delle problematiche che spesso la legislazione regionale crea in settori che andrebbero invece più coraggiosamente liberalizzati, e al tempo stesso per cogliere la conflittualità frequentemente pretestuosa tra Stato e Regioni, che non aiuta lo sviluppo delle attività economiche.

Fascicolo 1 - 2015