Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Mercati selvaggi e palingenesi 'benecomuniste'. Quale spazio per un liberalismo sociale? (di Ermanno Vitale)


The aim of the article is to explore a possible common ground between the theoretical perspective of the commons and that of the market regulation. The radical discrepancy between the two perspectives would lead to exclude any possible common element. Nevertheless, the attempt to compare the two approaches on a broader perspective – especially moving by the political theory debate on the alternative between State and market – shades light on some compatibility elements, that could lead to a new form of “social liberalism”. This outcome requires that the theory of the commons gives up revolutionary claims, and replace the aim of destructing the market with the purpose of limiting it; at the same time, the regulation theory should not be limited to protect the market competition, but it should be integrate by a responsible reflection on the possible negative effects of juridical and economical “perfect competition”, especially on the social level. In other words, the conciliation of these two perspectives could point the way of a possible “civilisation” of the current form of capitalism, that the Luciano Gallino called finance-capitalism (finanzcapitalismo).

  

SOMMARIO:

1. Il mercato si autoregola? - 2. Una robusta mano pubblica? - 3. Beni comuni, il gran taumaturgo di tutti i mali? - 4. Dov'erano le regole e i regolatori? - NOTE


1. Il mercato si autoregola?

A fronte delle numerose evidenze empiriche, si potrebbe ritenere inutile impegnarsi ancora a confutare la tesi per cui il mercato si autoregola ed esprime sempre la più efficiente e giusta allocazione dei beni e delle risorse socialmente prodotti, cui fa da corollario la convinzione che tale allocazione “ottimale” verrebbe pregiudicata da qualsiasi forma di intervento esterno, soprattutto se di tipo politico o pubblico. I molti fallimenti di una società (nazionale e globale) che si identifica con il mercato, fallimenti che naturalmente i fautori dell’orto­dossia neoliberista (o neoliberale) attribuiscono al fatto che non c’è ancora abbastanza mercato, sono palesi. Se ne possono ricordare due, i più macroscopici. La catastrofe ecologica cui andiamo incontro con scarsa consapevolezza, nonostante gli scienziati siano pressoché concordi nell’affermare che ormai da qualche decennio abbiamo superato (e ogni anno va peggio) i limiti delle risorse rinnovabili del pianeta, è frutto dell’ideologia dello sviluppo e del consumo infinito senza i quali i mercati non possono espandersi e i profitti tendono a ridursi fino ad azzerarsi [1]. Fenomeno cui in larga misura abbiamo già assistito: la centralità della finanza rispetto alla cosiddetta economia reale dipende dal calo dei profitti che quest’ultima può assicurare a proprietari e investitori. In ogni caso, nella prospettiva del mercato che si autoregola la questione dei limiti ecologici non è trattata se non come componente della formazione del prezzo di una merce. Vale a dire, non è presa sul serio dall’eco­nomia cosiddetta mainstream [2]. Se poi si pensa ai dati sulla povertà e sulla diseguaglianza economico-sociale sia globale sia all’interno dei singoli paesi, allora è difficile sostenere che il mercato sia la via maestra per una giusta e efficiente allocazione dei beni. Anche lasciando da parte ogni scrupolo morale e guardando il problema stando dalla parte dei privilegiati, non ci si può non chiedere se sia razionale – se sia un successo – una società che getta le basi del risentimento e dell’odio, magari mascherati da motivi etnico-culturali o religiosi ma in ultima analisi fondati sull’abissale differenza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza [3]. Se som­miamo questi due fallimenti, non [continua ..]


2. Una robusta mano pubblica?

Com’è noto, l’alternativa storica al libero mercato e alle logiche del capitale – per usare espressioni oggi forse fuori moda ma ancora sinteticamente efficaci – è consistita nell’attribuire il potere di allocare beni e risorse sociali allo Stato, o comunque a istituzioni, a forme di gestione e controllo politico dei mezzi di produzione della ricchezza collettiva. Già Babeuf, il promotore della fallita Congiura degli Eguali del 1796, riteneva che di fronte alla scandalosa diseguaglianza generata dal mercato – «il commercio, dicono i suoi fautori, deve tutto vivificare […] Mi chiedo chi siano quei novantanove uomini mal vestiti su cento che incontro sia nelle nostre campagne sia nelle nostre città» [8] – fosse necessaria una distribuzione la più egualitaria possibile dei beni, sulla base del principio del bisogno e non del merito. Era ben consapevole che per ottenere questo risultato le istituzioni politiche avrebbero dovuto sacrificare la libertà– soprattutto la libertà “liberale” come libertà negativa, come assenza di impedimenti – sull’altare del­l’eguaglianza di tutti in tutto. Un primo periodo di repressione e di “rieducazione” dei recalcitranti era da mettere in conto: e comunque anche in seguito l’unico modo per fortificare la dedizione alle pubbliche istituzioni dell’eguaglian­za non poteva che essere una rigida educazione pubblica, un’educazione “repubblicana” che ha molto a che fare con lo Stato etico, o addirittura con una forma di imperium paternale che Kant riteneva la cifra dei governi dispotici. A maggior ragione questa obiezione si può rivolgere al cosiddetto “socialismo scientifico”, il cui programma economico e politico si può riassumere con la frase forse più nota della marxiana Critica al programma di Gotha: «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!» [9]. Aristotele, molti secoli prima, discutendo della cause del mutamento politico e delle guerre civili, aveva osservato come l’instabile rapporto tra eguaglianza e diseguaglianza ne fosse la ragione principale. Infatti desiderano l’eguaglian­za quegli uomini che nella diseguaglianza presente sono soccombenti: ma, una volta ottenuta maggiore eguaglianza, gli [continua ..]


3. Beni comuni, il gran taumaturgo di tutti i mali?

Per cercare di capire perché, secondo la dottrina dei beni comuni, occorra superare non solo il privato ma anche il pubblico, che in fondo nel linguaggio corrente si tende a considerare un altro modo per indicare la sfera che dovrebbe occuparsi dell’interesse generale, o pubblico o comune, credo sia preliminarmente necessario distinguere le diverse prospettive a vario titolo accomunate sotto la formula del “benecomunismo”. Per procedere in maniera analiticamente adeguata occorrerebbe un altro saggio, ma ai fini di questa riflessione è forse sufficiente distinguere tra dottrine riformistiche e dottrine rivoluzionarie dei beni comuni. Le prime intendono definire un insieme, sia pure storicamente variabile, di beni sottratti al mercato e capaci, mediante regolazione politica, di ridurre lo human divide, per usare l’espressione di Stefano Rodotà, implementando e garantendo concretamente i diritti fondamentali delle persone (per es., accesso al cibo e ai farmaci salvavita, accesso all’informazione e alla conoscenza di base, ecc.). Le istituzioni cui si fa riferimento, in ultima istanza, per la realizzazione di questo progetto di riduzione delle diseguaglian­ze sono, ai diversi livelli, istituzioni pubbliche. Ciò che si chiede è potenziare e riqualificare in senso democratico, cioè favorendo (dove è praticabile) la partecipazione attiva e la vigilanza dei cittadini, l’intervento del pubblico in quelle azioni intese direttamente a garantire i diritti fondamentali della persona [12]. Così declinata, la dottrina dei beni comuni ritiene necessario andare oltre questo pubblico, considerato ormai deteriorato e indebolito nella sua fondamentale funzione di redistribuzione delle risorse collettive e di riequilibrio delle allocazioni via mercato, ma non oltre il pubblico in sé e per sé. Si tratterebbe al contrario di definire, nella dimensione più larga di quanto è di pubblica competenza, un nucleo ristretto di, per così dire, super-pubblico costruito mediante norme di rango costituzionale, volto a proteggere e garantire in maniera intransigente la cittadella dei diritti fondamentali. Uno spazio non poroso dove il mercato sia realmente off limits: un’esclusione di alcuni beni dalla allocazione via mercato, la cui regolazione è comunque auspicata per ciò che è di sua pertinenza ma [continua ..]


4. Dov'erano le regole e i regolatori?

Far sparire il mercato con un colpo di bacchetta magica o ridurlo a mera residualità, come vorrebbe il “benecomunismo rivoluzionario”, appare oggi una prospettiva assai difficilmente praticabile e forse neppure desiderabile, perlomeno guardando agli esiti delle società che si sono ispirate alle dottrine egualitarie. Non facile ma più percorribile appare la via dell’incivilimento del capitalismo finanziario, mediante una ponderata mixis di beni fondamentali sottratti al mercato e di beni scambiati su mercati efficacemente ed effettivamente regolati, dove “efficacemente ed effettivamente regolati” significa, come si è già detto, non solo regolare efficacemente la concorrenza tra le imprese ma anche fissare limiti effettivi che configurino una reale responsabilità sociale delle imprese medesime. A proposito di incivilimento del capitalismo finanziario, è opportuno soffermarsi, in breve, sulla domanda di Gallino che dà il titolo a questo paragrafo conclusivo: di fronte alla grande crisi iniziata nell’estate 2007 – crisi i cui effetti sono tuttora in corso –, dov’erano le regole e i regolatori, le istituzioni di controllo nazionali e sovrannazionali, che avrebbero dovuto intervenire tempestivamente per impedirla, o perlomeno per contenerne la portata? Molto semplicemente, quelle regole non c’erano più: non solo non erano state adeguate alla regolazione di una realtà economica e finanziaria globale che dagli anni Ottanta era vertiginosamente mutata, ma erano state scientemente smantellate sia in Europa sia negli USA dai fautori della deregolazione dei mercati. Tra costoro si possono contare i leader di quelle che furono le sinistre europee, affascinati, secondo Gallino, dalla «mitologia neoliberale o liberista» [18]. Dal punto di vista politico, sia detto qui di passaggio, si potrebbe muovere nei loro confronti l’accusa di alto tradimento nei confronti dei loro rappresentati. Guardando le cose da questo punto di vista, dall’(auto)affonda­mento di fine secolo della socialdemocrazia presa sul serio, occorre ammettere che, sotto il profilo critico, si sono dati buoni argomenti ai fautori del superamento sia del pubblico sia del privato, e a maggior ragione della loro “collusione”. L’altra grande crisi, quella del ’29, aveva prodotto come reazione una [continua ..]


NOTE