Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

La prassi regolatoria e giurisprudenziale italiana in materia di self-cleaning è compatibile con il diritto dell´Unione Europea? (di Daniele Gallo, Professore ordinario di diritto dell’Unione europea e Jean Monnet Chair, Dipartimento di Giurisprudenza, Luiss Lorenzo Cecchetti, Assegnista di ricerca in diritto dell’Unione europea, Dipartimento di Giurisprudenza, Luiss)


Il contributo ha ad oggetto la compatibilità con il diritto UE dell’attuazione nell’or­dinamento italiano della direttiva 2014/24/UE, con specifico riferimento all’istituto del ravvedimento operoso o self-cleaning. Tale istituto, com’è noto, è stato introdotto nella disciplina UE in materia di appalti e concessioni dalla novella del 2014 ed è stato recentemente oggetto di alcune importanti pronunce della Corte di Giustizia UE che ne hanno chiarito il valore prescrittivo e l’efficacia interna. Più in particolare, l’indagine verte sul disposto dell’art. 80 del codice dei contratti pubblici – e segnatamente sul motivo di esclusione facoltativo consistente nell’iscrizione nel casellario informatico ANAC – e sulla consolidata prassi regolatoria e giurisprudenziale sviluppatasi a tale riguardo. Quanto precede viene messo a raffronto con la normativa UE rilevante nel settore degli appalti e delle concessioni, per come interpretata dalla Corte di Giustizia. Vengono in rilievo, più nel dettaglio: il principio di tassatività dei motivi di esclusione; il divieto di sovra-regolamentazione (o gold plating); il diritto al/l’obbligo di self-cleaning; le norme sul diritto di stabilimento, sulla libera prestazione dei servizi, sulla libera concorrenza; i diritti fondamentali; i principi generali del diritto UE. Particolare attenzione è dedicata ai rimedi esperibili per ricomporre l’an­tinomia tra ordinamento UE e ordinamento italiano. Viene sostenuto, infatti, che l’at­tuazione dell’art. 57 della direttiva 2014/24/UE in Italia, per come si declina nel codice dei contratti pubblici, solleva molteplici criticità, dal punto di vista della sua legittimità “comunitaria”, esacerbate dalla già menzionata prassi regolatoria e giurisprudenziale. A quest’ultimo riguardo, sviluppi degni di nota sembrano delinearsi in alcune recentissime pronunce del Consiglio di Stato e del TAR Bologna.

Is Italy’s regulatory and case-law practice on self-cleaning compatible with EU law?

The article analyses the compatibility with EU law of the implementation of Directive 2014/24/EU in the Italian legal system, with specific regard to self-cleaning. Introduced into the EU public procurement law by the 2014 directives, its prescriptive character and legal effects in the national legal system have been recently clarified by the Court of Justice of the EU. More specifically, the study focuses on Article 80 of the so-called Codice dei contratti pubblici – in relation to which significant attention is devoted to the discretionary ground of exclusion consisting in the registration in the electronic register kept by ANAC – and the well-established regulatory and case law practice developed in this respect. The foregoing is assessed in light of the EU primary and secondary law relevant to this enquiry, as interpreted by the Court of Justice: namely, the numerus clausus of the exclusion grounds, the prohibition of gold plating, the right to/obligation to self-cleaning, the right of establishment, the freedom to provide services, free competition and some fundamental rights and general principles of EU law. Special attention is devoted to the remedies that can be used to bridge the gap between EU law and its implementation in the Italian legal system. Indeed, it is argued that the implementation of Article 57 of Directive 2014/24/EU in Italy, as it is declined in the Codice dei contratti pubblici, raises several issues exacerbated by the already mentioned regulatory and case law practice. In this latter respect, significant developments seem to emerge from rulings recently rendered by the Consiglio di Stato and the TAR Bologna.

Key Words: Public procurement – Directive 2014/24/EU – Exclusion grounds – Gold plating – Self-cleaning – Direct effect – Consistent interpretation – Disapplication

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SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. I punti fermi circa l’art. 57 della direttiva 2014/24/UE, alla luce della giurisprudenza UE: il suo carattere self-executing e la natura tassativa dei motivi di esclusione (parr. 1 e 4) - 3. Segue: il valore prescrittivo e l’efficacia interna del diritto al self-cleaning (par. 6) - 4. I punti relativamente fermi circa l’art. 80, commi 1, 5, 7-8, 12 del d.lgs. n. 50/2016 (codice dei contratti pubblici): incompatibilità con il diritto UE e conseguente disapplicazione? - 5. La prassi regolatoria e giurisprudenziale italiana in merito all’interdizione delle imprese dalla partecipazione alle procedure di gara, oggi - 6. Segue: l’incompatibilità con il diritto UE, tra interpretazione conforme e rinvio pregiudiziale - 7. Considerazioni conclusive sul recepimento della direttiva 2014/ 24/UE e sui possibili rimedi di ricomposizione del conflitto offerti dal diritto UE: la violazione palese e reiterata dell’ordi­namento dell’Unione da parte delle autorità amministrative e giurisdizionali italiane e la necessità di un radicale mutamento di prospettiva - Addendum. Le ordinanze della sezione V del Consiglio di Stato del 23 aprile e del 28 maggio 2021 e le sentenze n. 446, n. 447 e n. 452 del 2021 del TAR Bologna: quid novi circa l’attuazione della direttiva 2014/24/UE in Italia? - NOTE


1. Introduzione

Una delle novità più significative delle direttive UE adottate nel 2014 nel settore degli appalti e delle concessioni [1] rispetto al precedente quadro regolamentare [2] consiste nell’introduzione di un meccanismo di ravvedimento operoso, c.d. self-cleaning [3], disciplinato nell’art. 38, par. 9, della direttiva 2014/23/UE e nell’art. 57, par. 6, della direttiva 2014/24/UE (e, benché solo per relationem, dall’art. 80, par. 1, della direttiva 2014/25/UE). Per «misure di self-cleaning» ci riferiamo, in via di prima approssimazione, a quell’insieme di misure correttive poste in essere da un operatore economico, successivamente alla commissione di un illecito professionale, al fine di ristabilire la sua integrità e affidabilità. In altre parole, grazie a questo strumento di auto-disciplina (previsto nella stragrande maggioranza dei Paesi membri dell’Unione, a iniziare da Germania e Austria, nei quali si è per la prima volta affermato [4]), l’operatore economico sanzionato dall’autorità nazionale competente, in Italia l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), dimostra alle singole stazioni appaltanti di aver adottato misure riparatorie tali da ripristinare la propria moralità professionale. La ratio che informa sia le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sia il d.lgs. n. 50/2016 che ne dà loro attuazione in Italia è rappresentata dal­l’esigenza di consentire ad un operatore economico, incorso in una delle cause di esclusione da una procedura di appalto stabilite, rispettivamente, dagli artt. 38, 57 e 78-80 delle predette direttive e nell’art. 80, commi 1 e 5 del d.lgs. n. 50/2016 (codice dei contratti pubblici), di partecipare ad altre gare, previa valutazione da parte della stazione appaltante [5]. Gli operatori economici che si trovano in una di dette situazioni di esclusione devono, pertanto, poter richiedere che venga esaminato, dall’autorità competente, l’insieme delle misure prese per garantire l’osservanza degli obblighi loro imposti e impedire che tali comportamenti si verifichino di nuovo. Diversamente, questi soggetti non potrebbero partecipare a una procedura di gara, anche qualora avessero rimediato a eventuali errori ed eventuali mancanze, con l’ovvia, ulteriore conseguenza che sarebbero costretti a chiudere le rispettive [continua ..]


2. I punti fermi circa l’art. 57 della direttiva 2014/24/UE, alla luce della giurisprudenza UE: il suo carattere self-executing e la natura tassativa dei motivi di esclusione (parr. 1 e 4)

L’art. 57 della direttiva 2014/24/UE, com’è noto, disciplina innanzitutto i motivi di esclusione dalla partecipazione ad una determinata gara che le amministrazioni aggiudicatrici, a seconda dei casi, devono (par. 1) o possono (par. 4) opporre agli operatori economici al ricorrere di determinate circostanze. In sintesi, mentre l’obbligo di esclusione si riscontra in relazione a situazioni in cui l’operatore economico è stato condannato con sentenza definitiva per una serie di reati individuati nel par. 1 [7], i motivi di esclusione facoltativi, indicati nel par. 4, comportano una valutazione ad opera dell’amministrazione aggiudicatrice in relazione a una varietà di situazioni, tra le quali, la commissione di gravi illeciti professionali tali da rendere dubbia l’integrità dell’operatore economico (lett. c), la conclusione di accordi intesi a falsare la concorrenza (lett. d), la dimostrazione di significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un requisito sostanziale nel quadro di un precedente contratto di appalto o concessione tali da inverarne la cessazione anticipata e/o obblighi risarcitori o sanzionatori (lett. g), e l’essersi reso gravemente colpevole di false dichiarazioni in relazione alle informazioni richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione o il rispetto dei criteri di selezione, o, ancora, non aver trasmesso tali informazioni o presentato i documenti complementari di cui all’art. 59 della direttiva (lett. h) [8]. Al fine di vagliare la compatibilità dell’attuazione, nell’ordinamento italiano, delle previsioni di cui sopra, è necessario svolgere alcune considerazioni preliminari sulla natura e l’efficacia dell’art. 57, così come sul carattere tassativo dei motivi di esclusione ivi previsti, considerato che le direttive, in base a quanto riconosciuto nell’art. 288 TFUE, generalmente, devono essere recepite in relazione agli scopi che si prefiggono, mentre lo Stato è libero di scegliere la forma e le modalità che ritiene maggiormente adeguate perché quegli scopi possano essere efficacemente perseguiti [9]. Di per sé, dunque, l’assenza di una completa coincidenza tra direttiva e ordinamento interno è ammissibile, a condizione, evidentemente, che non sia determinata una violazione della logica che definisce l’atto e che [continua ..]


3. Segue: il valore prescrittivo e l’efficacia interna del diritto al self-cleaning (par. 6)

Concentriamoci, ora, sul meccanismo del self-cleaning [40], per com’è disciplinato nell’art. 57, par. 6, della direttiva 2014/24/UE, al cuore del dibattito giuridico in Italia e non solo. L’articolo in discorso consta di quattro commi, dei quali, ai fini della presente analisi, il primo risulta essere il più rilevante. Quest’ultimo prevede: «Un operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui ai paragrafi 1 e 4 può fornire prove del fatto che le misure da lui adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità nonostante l’esistenza di un pertinente motivo di esclusione. Se tali prove sono ritenute sufficienti, l’o­peratore economico in questione non è escluso dalla procedura d’appal­to» [41]. In primo luogo, la Corte di Giustizia è netta nell’individuare nella norma la previsione di un obbligo di carattere generale in capo alle autorità degli Stati membri: in altri termini, il meccanismo in discorso non può che essere applicabile a tutti gli operatori economici [42]. In secondo luogo, i giudici UE ravvisano l’esistenza di una posizione giuridica soggettiva connaturata all’obbligo, imposto alle autorità nazionali, di garantire che un tale meccanismo sia espletato. È precisamente a questo riguardo che è recentemente intervenuta la sentenza RTS, nella quale la Corte di Giustizia ha inequivocabilmente e per la prima volta chiarito quale sia l’efficacia interna del diritto/dell’obbligo connesso al self-cleaning: l’art. 57, par. 6, affermano i giudici UE, è dotato di effetto diretto [43]. L’art. 57, par. 6, quindi, è una disposizione capace di conferire, direttamente, un diritto in capo al singolo. Diritto invocabile e azionabile dinanzi alle autorità, amministrative e giudiziarie, nazionali, onde ottenere la disapplicazione del diritto interno e/o della prassi che lo interpreta e attua. La sentenza marca un punto fermo nella giurisprudenza UE, con importanti risvolti sul duplice piano teorico e pratico, anche e soprattutto per l’esperienza italiana. A quest’ultimo riguardo, peraltro, è anche recentissimamente intervenuta – con la sentenza Rad Service – una conferma di RTS e una precisazione di cui è necessario dare atto in conclusione di questo §. A mo’ di premessa [continua ..]


4. I punti relativamente fermi circa l’art. 80, commi 1, 5, 7-8, 12 del d.lgs. n. 50/2016 (codice dei contratti pubblici): incompatibilità con il diritto UE e conseguente disapplicazione?

Le considerazioni fin qui svolte consentono di interrogarsi, in profondità, sulla questione della compatibilità dell’ordinamento interno con il diritto dell’U­nione [86]. Al centro dell’indagine si situa il codice dei contratti pubblici, adottato per dare seguito all’attuazione della direttiva 2014/24/UE, per poi concentrare l’analisi, nei due §§ che seguono, sulla prassi posta in essere dall’ANAC e sulla giurisprudenza amministrativa, con particolare riferimento al self-cleaning. Prassi e giurisprudenza che, come sarà dimostrato, presentano una fondamentale caratteristica: l’esclusione dell’impresa generata dal provvedimento interdittivo, disposto dall’ANAC e annotato nel casellario informatico [87], è automatica e generalizzata, cioè con effetti immediatamente conseguenti all’in­terdizione per tutte le gare in corso e future, diverse cioè dalla procedura nel­l’ambito della quale il comportamento dell’imprenditore si è concretizzato. Il nostro esame verte, in questa sede, sui motivi di esclusione disciplinati all’art. 80 del codice dei contratti pubblici. Più in particolare, nel comma 1 di tale norma sono stati trasposti i motivi di esclusione qualificati come obbligatori dal legislatore UE, connessi a provvedimenti definitivi del giudice penale, mentre nel comma 5 sono confluiti i motivi di esclusione facoltativi [88]. Innanzitutto, da un raffronto tra le norme nazionali e la direttiva 2014/24/UE risulta che il numero delle cause di esclusione previste dall’art. 80 del codice dei contratti pubblici è superiore a quello delle cause di esclusione elencate nell’art. 57 della direttiva [89], come preciseremo, mediante esempi, qui di seguito. Per quanto riguarda i motivi di esclusione di cui al comma 1, la lett. b-bis), introdotta dal d.lgs. n. 56/2017, e la lett. g) operano un riferimento a due categorie di reati non espressamente previste all’art. 57, par. 1 della direttiva 2014/24/UE: si tratta, rispettivamente, dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 del c.c., in tema di false comunicazioni sociali, e di «ogni altro delitto da cui derivi, quale pena accessoria, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione». Sulla base di quanto scritto sopra nel § 2, nella misura in cui questi motivi non attengono alle [continua ..]


5. La prassi regolatoria e giurisprudenziale italiana in merito all’interdizione delle imprese dalla partecipazione alle procedure di gara, oggi

Occorre ora soffermarci sulla prassi amministrativa/regolatoria posta in essere dall’ANAC e sulla giurisprudenza amministrativa, alle quali abbiamo già fatto riferimento nei §§ precedenti. Viene, innanzitutto, in rilievo la questione della natura e della funzione del provvedimento interdittivo dell’ANAC che, secondo la giurisprudenza amministrativa in discorso, costituisce una misura restrittiva che riguarda non solo la singola gara in relazione alla quale la segnalazione è intervenuta ma, più in generale, tutte le gare per contratti pubblici, in atto o future e per il tempo in cui opera l’effetto impeditivo [116]. Il provvedimento interdittivo ANAC, secondo questa giurisprudenza, «incide sulla capacità settoriale di agire dell’impresa perché comunque presunta sospettabile di inaffidabilità morale in tema di gare pubbliche», risolvendosi in «una seria misura di prevenzione settoriale e generale de futuro», priva, tuttavia, della natura e della funzione sanzionatoria [117]. In relazione a quest’ultimo carattere, possono tuttavia annoverarsi, in senso contrario, sia alcune pronunce dei giudici amministrativi [118] sia alcune prese di posizione da parte della stessa ANAC [119] sia, infine, i principi elaborati dalla Corte europea dei diritti umani nella sua giurisprudenza [120]. Per quanto riguarda l’ambito di applicazione del provvedimento ANAC, pertanto, sulla base del principio di continuità del possesso dei requisiti di partecipazione alle procedure di gara [121], è stato affermato che «la sanzione non produce un mero effetto preclusivo, ma altresì espulsivo» [122]. Il Consiglio di Stato ha precisato presupposti e conseguenze dell’in­terdittiva ANAC. Da un lato, è stata ritenuta coerente e proporzionata la prassi ANAC secondo cui essa «valut[a] in concreto i ponderati termini per cui, in forza dei fatti accertati correlati all’omissione e in genere alle finalità proprie degli appalti pubblici, l’impresa va collocata in condizione presuntiva di indegnità a competere» [123]. Per quanto riguarda le conseguenze di tale atto, dall’altro lato, il Consiglio di Stato ha precisato che il provvedimento interdittivo ha sia “effetti preventivi diretti” [124], già menzionati, sia “effetti [continua ..]


6. Segue: l’incompatibilità con il diritto UE, tra interpretazione conforme e rinvio pregiudiziale

In attesa di quanto il Consiglio di Stato deciderà nel merito del ricorso per la riforma della suddetta sentenza del TAR Lazio, la prassi descritta fin qui, con l’eccezione delle richiamate sentenze del TAR Bologna, appare foriera di plurime censure in punto di compatibilità con il diritto dell’Unione, tanto con il diritto primario quanto con il diritto derivato. Ciò detto, nel prosieguo della trattazione ci concentreremo in particolare sulla legittimità della prassi regolatoria/amministrativa e giurisprudenziale dal duplice punto di vista del self-cleaning e del rispetto delle principali norme di diritto primario che rilevano, ivi compresi i principi generali del diritto UE, con particolare attenzione al principio di proporzionalità, alla luce del quadro tracciato nei §§ precedenti. Occorre, in primo luogo, verificare se e come sia possibile assicurare un’in­terpretazione del diritto nazionale tale da risultare conforme all’ordinamento dell’Unione, considerato il ruolo che il self-cleaning riveste nell’ordinamento italiano. L’obbligo/diritto al self-cleaning significa necessariamente, quanto al­l’Italia, in primo luogo, che l’esclusione dell’operatore economico destinatario di una sanzione irrogata ai sensi dell’art. 80, commi 1 e 5 del codice dei contratti pubblici deve essere preceduta da un contraddittorio tra operatore economico e stazione appaltante e, in secondo luogo, che essa dipende dalla valutazione di quest’ultima sulle misure di self-cleaning adottate dalla società. Nessun automatismo, pertanto, è ammissibile, come confermato dalla recente sentenza Rad Service, ove si legge che, in virtù del principio di proporzionalità, l’amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad «effettuare una valutazione specifica e concreta dell’atteggiamento del soggetto interessato, sulla base di tutti gli elementi pertinenti» [153]. L’esclusione, dunque, è certamente possibile, ma altrettanto certamente non può essere automatica: il giudizio sulla possibile rilevanza delle misure riparatorie rientra nella discrezionalità della stazione appaltante, la quale deve compiere la verifica, caso per caso, in merito al tipo di interventi di carattere risarcitorio oppure di natura tecnica, organizzativa e relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o [continua ..]


7. Considerazioni conclusive sul recepimento della direttiva 2014/ 24/UE e sui possibili rimedi di ricomposizione del conflitto offerti dal diritto UE: la violazione palese e reiterata dell’ordi­namento dell’Unione da parte delle autorità amministrative e giurisdizionali italiane e la necessità di un radicale mutamento di prospettiva

Quanto ai rimedi percorribili al fine di sciogliere l’antinomia tra diritto UE e ordinamento italiano causata da un’erronea interpretazione e applicazione del diritto UE e del diritto interno, sono ipotizzabili quattro principali vie a disposizione, a seconda dei casi, dell’amministrazione e/o degli organi giurisdizionali coinvolti nei vari procedimenti aventi per oggetto la partecipazione di un operatore economico alle procedure di gara, o di tale operatore: l’(obbligo di) interpretazione conforme; la rimessione alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, di una questione pregiudiziale interpretativa; la disapplicazione; l’a­zione per risarcimento danni nei confronti Stato italiano. Queste vie possono essere percorse e/o prospettate dall’operatore economico interdetto nei diversi procedimenti, e, alcune di esse, operano in sinergia tra loro. Alle quattro ipotesi illustrate brevemente qui di seguito è possibile altresì affiancare la presentazione di una denuncia alla Commissione europea. Per quanto riguarda l’interpretazione conforme del diritto nazionale al diritto UE, da intendersi come comprensivo anche della giurisprudenza della Corte di Giustizia, è noto, innanzitutto, che essa costituisce un obbligo imposto a tutte le autorità, appartenenti al potere centrale, regionale e locale, a qualsiasi livello (legislativo, esecutivo, giudiziario), di tutti gli Stati membri [216]. Detto obbligo, per quanto qui interessa, potrebbe determinare l’accantonamento della prassi amministrativa/regolatoria e giudiziaria – ancora prevalente e qui sopra descritta [217] – incompatibile con l’ordinamento dell’Unione, sulla scorta del principio del primato [218]. Più in particolare, innanzitutto, lo strumento dell’interpre­tazione conforme evita che una non compiuta aderenza del sistema normativo di uno Stato membro al diritto UE dia luogo, nella pratica, a un effettivo contrasto tra i due ordinamenti (i.e., a un’antinomia sanabile solamente attraverso la disapplicazione delle norme interne contrastanti), fatto salvo il limite del divieto di interpretazione contra legem [219]. In altri termini, l’obiettivo ultimo consiste nel ricondurre i disaccordi inter-ordinamentali alla fisiologia, piuttosto che alla patologia, dei rapporti tra norme, anche quando questi rapporti si declinano, de facto, in termini non [continua ..]


Addendum. Le ordinanze della sezione V del Consiglio di Stato del 23 aprile e del 28 maggio 2021 e le sentenze n. 446, n. 447 e n. 452 del 2021 del TAR Bologna: quid novi circa l’attuazione della direttiva 2014/24/UE in Italia?

Come anticipato nei §§ che precedono [233] e in aggiunta a quanto rilevato in relazione alla sentenza Rad Service [234], si sono recentemente registrate alcune importanti novità in merito alla compatibilità, con il sistema normativo delineato dalla direttiva 2014/24/UE, dell’esclusione automatica dell’operatore economico basata sul disposto dell’art. 80, comma 5, lett. f-ter) del codice dei contratti pubblici e sulla prassi regolatoria e giurisprudenziale ancora prevalente. Un primo sviluppo ha ad oggetto la (il)legittimità dell’equiparazione – invalsa nella prassi giurisprudenziale italiana [235] – tra “omissione dichiarativa” e presentazione di una «falsa dichiarazione» ex art. 80, comma 5, lett. f-ter). A questo riguardo viene in rilievo l’ordinanza n. 2163 della Sezione V del Consiglio di Stato, pubblicata il 23 aprile u.s., con la quale è stata accolta un’istanza cautelare volta a sospendere l’esecutività di una sentenza del TAR Lazio [236]. L’iter logico-argomentativo dell’ordinanza può essere ricostruito nei termini seguenti, senza che appaia necessario illustrare i fatti da cui origina la – articolata – vicenda processuale [237]. In primo luogo, viene affermato che, sulla scorta «[de]gli orientamenti emergenti nella giurisprudenza europea e costituzionale» [238], all’iscrizione nel casellario informatico ANAC dovrebbe riconoscersi natura sostanzialmente penale. In secondo luogo, la Sezione V rileva che «l’omissione dichiarativa non coincide con la falsa dichiarazione» [239]. Da queste due statuizioni ne consegue poi una terza: «ad un sommario avviso […] appare vulnerato il principio di stretta tipicità legale della fattispecie sanzionatoria» [240]. Sebbene tutte e tre queste affermazioni rivestano interesse ai fini della presente analisi, è possibile dedicare particolare attenzione al secondo passaggio del ragionamento: l’impossibilità di equiparare sic et simpliciter l’omissione dichiarativa all’elemento materiale della falsa dichiarazione. Principio, questo, sancito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella nota sentenza n. 26/2020 [241], poi riaffermato nell’ordinanza n. 923/2021 resa dal Consiglio di Stato, anche in tale occasione [continua ..]


NOTE