Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

La strategia industriale europea tra intervento pubblico finalistico e dinamiche di mercato (di Eugenio Bruti Liberati, Professore ordinario di diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche Economiche e Sociali dell'Università del Piemonte Orientale)


SOMMARIO:

1. Una politica industriale europea - 2. Due tratti caratterizzanti della strategia industriale europea - 3. Le critiche dal versante liberista - 4. Un intervento pubblico pių ambizioso e pių pervasivo? - 5. Conclusioni - NOTE


1. Una politica industriale europea

È ormai un dato pacifico che in Europa e in larga parte del mondo è oggi in atto una forte ripresa della politica industriale [1]. Dopo oltre trent’anni di prevalenza delle visioni liberiste che assegnavano agli Stati un ruolo circoscritto nella disciplina dell’economia, si torna ad ammettere e talora a sostenere con forza che gli Stati possono e devono intervenire per indirizzare le imprese e le dinamiche di mercato verso esiti socialmente apprezzabili. Un po’ paradossalmente, se si ricordano i contenuti del dibattito svoltosi al riguardo negli anni ’90 del ’900 e in particolare le tesi sull’implicita abrogazione dell’art. 41, terzo comma, della Costituzione per effetto delle norme sui Trattati, nel nostro contesto europeo è proprio l’Unione, e in particolare la sua Com­missione, ad essersi fatta promotrice di questa svolta – l’ennesima svolta nella lunga e complessa storia delle teorie e delle prassi dell’intervento pubblico nell’economia. Tra gli atti della Commissione europea, quello che più e meglio di altri simboleggia questo fondamentale cambiamento di prospettiva è notoriamente la Comunicazione sul Green Deal europeo del dicembre 2019: nella quale la Commissione si è inequivocabilmente attribuita un ruolo non più solo di regolazione e di promozione dello sviluppo economico europeo, ma anche di governo e di guida dello stesso per indirizzarlo verso gli obiettivi strategici definiti in sede istituzionale [2]. Tale scelta fondamentale – almeno in potenza fondante un diverso ordine giuridico dei mercati – ha poi trovato conferma e sviluppo in molti atti successivi, recanti ulteriori Comunicazioni della Commissione oppure proposte di nuovi regolamenti e direttive, che, riferendosi ad un ambito amplissimo di settori e di temi, hanno più chiaramente definito fini e strumenti della nuova strategia industriale europea [3]. Dato che larga parte di quelle puntuali proposte normative è ancora oggetto di complessi negoziati con il Parlamento e il Consiglio europei [4], e gli esiti degli stessi appaiono oggi solo in parte prevedibili, non sembra utile in questa sede prendere specificamente in esame i contenuti delle stesse. Appare invece più opportuno, per contribuire al dibattito in corso e in particolare per segnare i confini entro cui tali trattative dovrebbero ragionevolmente [continua ..]


2. Due tratti caratterizzanti della strategia industriale europea

Dei molti tratti che connotano il nuovo modello di disciplina dei mercati risultante dalle proposte dalla Commissione due sembrano particolarmente meritevoli di essere qui richiamati. Il primo è il carattere fortemente finalizzato della politica industriale che si sta delineando, con la quale non s’intende più solo promuovere la competitività delle imprese e nemmeno solo sostenere le aree territoriali meno sviluppate – come nei fatti si è sempre continuato a fare anche negli anni in cui a Bruxelles parlare di politica industriale era un tabù –, ma anche indirizzare le imprese verso scelte produttive e commerciali coerenti con le finalità strategiche definite prima dalla Commissione e poi dal legislatore europeo: decarbonizzazione, digitalizzazione e autonomia strategica dell’industria europea [6]. Non si tratta soltanto di sostenere e facilitare lo sviluppo economico, ma di tornare ad orientarlo verso direzioni non necessariamente coincidenti con quelle che sarebbero determinate dalle dinamiche spontanee di mercato. Riappare l’intervento finalistico dei pubblici poteri, che si affianca, in una relazione ancora largamente da chiarire, a quello condizionale prevalente negli ultimi decenni e in particolare agli interventi di tutela della concorrenza e di regolazione pro-competitiva: il che assume ovviamente rilievo da molteplici punti di vista, ivi incluso quello del disegno concreto degli strumenti nuovi o tradizionali della politica industriale. Evidente è ad esempio la rilevanza di tale connotazione finalistica rispetto al tema – mai risolto in passato – dell’indirizzo strategico delle imprese pubbliche e a quello del carattere automatico o (parzialmente) discrezionale degli incentivi pubblici alle imprese [7]. Nel caso dell’obiettivo della decarbonizzazione, la finalizzazione è talmente forte e pregnante da avere indotto a coniare l’espressione Green Industrial Policy [8], anche per sottolineare che, nella nuova strategia di contrasto al cambiamento climatico, quell’obiettivo ha cessato di essere un mero limite esterno delle politiche di sviluppo per divenire un criterio guida – determinante e sostanziale – delle stesse [9] (e in realtà di molte altre politiche pubbliche) [10]. Ma anche le finalità di promuovere la transizione digitale del sistema produttivo europeo e la sua [continua ..]


3. Le critiche dal versante liberista

Come chiaramente emerge da quanto si è sopra rilevato, la strategia delineata dalla Commissione europea costituisce un tentativo di conciliare le dinamiche di mercato e il mantenimento di spazi significativi per l’iniziativa delle imprese e per gli investimenti privati con un intervento pubblico assai più marcatamente finalistico rispetto al recente passato. Decarbonizzazione, digitalizzazione e autonomia strategica dell’industria europea sono perseguite dal­l’Unione con regole e limiti più stringenti e con incentivi e disincentivi più consistenti, oltre che con qualche aggiustamento – in realtà, tutt’altro che privo di problemi – delle regole di concorrenza [13], ma senza approdare ad un assetto imperniato su programmazioni e pianificazioni pubbliche e senza quindi una drastica compressione della libertà di scelta degli operatori economici. Tale soluzione non poteva non essere criticata, ed è stata in effetti fortemente criticata, sia da chi continua a guardare con sospetto ad un ruolo di governo – e non solo di regolazione e di “facilitazione” – dei pubblici poteri nel­l’economia, sia da chi, in una prospettiva opposta, auspica un più netto abbandono della originaria matrice ordo-liberale dell’ordinamento europeo. Dal primo punto di vista, la volontà della Commissione di interferire, direttamente o per il tramite degli Stati, con le dinamiche di mercato – di interferire più incisivamente rispetto a quanto è avvenuto in un recente passato – viene contestata richiamando in servizio, con qualche aggiornamento, larga parte degli argomenti di taglio economico e politologico che avevano determinato il successo del paradigma liberista a partire dalla fine degli anni ’80 del ‘900. È chiaro che la crisi finanziaria e poi economica del 2008 e più recentemente l’emergenza pandemica e quella climatica hanno per più ragioni indebolito quegli argomenti, a cominciare da quello imperniato sulla presunta capacità del mercato di autoregolarsi. Tuttavia, essi continuano ad avere una forte presa su una parte non marginale dell’opinione pubblica e delle forze politiche, sia per il fascino che sempre esercita il loro richiamarsi all’idea della libertà individuale e del merito [14], sia, più prosaicamente, per le enormi [continua ..]


4. Un intervento pubblico pių ambizioso e pių pervasivo?

Il secondo, opposto, punto di vista da cui la nuova strategia industriale europea viene contestata è quello di chi la reputa troppo poco ambiziosa negli obiettivi e troppo poco incisiva negli strumenti: quella di chi vorrebbe che l’Unione europea abbandonasse del tutto la sua matrice ordo-liberale e indirizzasse con decisione (anche) la sua politica industriale verso obiettivi di uguaglianza sostanziale e di coesione sociale; e vorrebbe altresì che a tale scopo essa riducesse drasticamente il ricorso a meccanismi di mercato in favore di pianificazioni e programmazioni autoritative e di un più largo utilizzo delle imprese pubbliche. Al riguardo, è difficile, almeno per chi scrive, non simpatizzare con chi richiama i pubblici poteri a prendere nuovamente sul serio quel progetto di trasformazione e crescita civile, volto appunto a promuovere una più effettiva eguaglianza sostanziale e una maggiore coesione sociale, che nel nostro Paese è riassunto dall’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Ed è anzi senz’altro opportuno sottolineare con forza la necessità che l’Unione Europea decida e promuova attivamente un cambiamento profondo delle sue politiche nella direzione della sostenibilità sociale, con uno sforzo analogo a quello che si sta cercando di realizzare rispetto alla sostenibilità ambientale e climatica. Ma non sembra che a tale scopo sia opportuno utilizzare gli strumenti della politica industriale, e tanto meno quelli della politica di concorrenza o della regolazione economica. Come ha scritto ad esempio L. Khan riferendosi alla disciplina antitrust ma con considerazioni che sembrano valere anche per gli altri strumenti istituzionalmente volti a promuovere l’efficienza del sistema economico, piegare i medesimi a fini diversi da quelli che gli sono propri implica un rischio elevato di alterarne il funzionamento e di non ottenere risultati apprezzabili né dal punto di vista della produzione della ricchezza né da quello della sua redistribuzione [19]. D’altra parte, l’esperienza concretamente svoltasi in Italia e in molti altri Paesi europei negli anni ’70 e ’80 del ’900 mostra con chiarezza gli esiti negativi di un’impropria commistione tra interventi di politica industriale e di politica sociale. Il bilancio di tale stagione, come ha rilevato anche Giuliano Amato [20], non è stato [continua ..]


5. Conclusioni

Il tentativo della Commissione europea di costruire un modello di politica industriale significativamente finalistico – in cui l’obiettivo della decarbonizzazione risulta particolarmente pregnante, ma anche quelli della trasformazione digitale e della difesa dell’autonomia strategica dell’industria europea appaiono esplicitamente perseguiti – ma compatibile con le dinamiche concorrenziali e con lo stimolo alle iniziative d’impresa e gli investimenti privati sembra in definitiva meritevole di essere sostenuto. È un tentativo che non poteva non incontrare opposizioni e resistenze molto forti, anche per la sfiducia di molti nella capacità degli Stati e dell’Unione Europea di accompagnare la grande trasformazione socio-economica che quegli obiettivi comportano con misure di sostegno e protezione sociale idonee a socializzare in misura significativa i costi e i sacrifici che non poche aree territoriali dovranno sostenere [23]. Si torna così al tema – sopra richiamato – del governo e della regia complessiva dello sviluppo, che la Commissione ha finalmente rivendicato per sé e per gli Stati e che occorre ora difendere e valorizzare. Tenendo ben presente che, come si è sopra sottolineato, le finalità di promozione dell’eguaglianza sostanziale e della coesione sociale devono essere perseguiti principalmente con strumenti diversi da quelli della politica industriale e della concorrenza: in primis, con politiche fiscali e del lavoro e ovviamente con interventi di politica sociale. Questo non esclude, naturalmente, che le misure preordinate allo sviluppo e all’efficienza del sistema economico debbano essere definite in modo tale da garantirne pienamente la compatibilità con le esigenze di sostenibilità sociale. Ma, da un lato, questo non può in nessun modo esaurire l’ambito degli interventi diretti a garantire coesione e giustizia sociale – che richiedono ora ben altro impegno e mobilitazione anche da parte delle istituzioni europee [24] –, dall’altro, non può tradursi in un’alterazione dei caratteri sostanziali di quelle misure. Confondere i piani di riflessione e di intervento è sempre insidioso: quando nei primi anni ’40 del ’900, Beveridge chiese aiuto a Keynes per realizzare il suo piano straordinario di riforma ed estensione del Welfare, non gli domandò di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2023