Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

La strategia industriale europea tra intervento pubblico finalistico e dinamiche di mercato (di Eugenio Bruti Liberati, Professore ordinario di diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche Economiche e Sociali dell'Università del Piemonte Orientale)


SOMMARIO:

1. Una politica industriale europea - 2. Due tratti caratterizzanti della strategia industriale europea - 3. Le critiche dal versante liberista - 4. Un intervento pubblico pių ambizioso e pių pervasivo? - 5. Conclusioni - NOTE


1. Una politica industriale europea

È ormai un dato pacifico che in Europa e in larga parte del mondo è oggi in atto una forte ripresa della politica industriale [1].

Dopo oltre trent’anni di prevalenza delle visioni liberiste che assegnavano agli Stati un ruolo circoscritto nella disciplina dell’economia, si torna ad ammettere e talora a sostenere con forza che gli Stati possono e devono intervenire per indirizzare le imprese e le dinamiche di mercato verso esiti socialmente apprezzabili.

Un po’ paradossalmente, se si ricordano i contenuti del dibattito svoltosi al riguardo negli anni ’90 del ’900 e in particolare le tesi sull’implicita abrogazione dell’art. 41, terzo comma, della Costituzione per effetto delle norme sui Trattati, nel nostro contesto europeo è proprio l’Unione, e in particolare la sua Com­missione, ad essersi fatta promotrice di questa svolta – l’ennesima svolta nella lunga e complessa storia delle teorie e delle prassi dell’intervento pubblico nell’economia.

Tra gli atti della Commissione europea, quello che più e meglio di altri simboleggia questo fondamentale cambiamento di prospettiva è notoriamente la Comunicazione sul Green Deal europeo del dicembre 2019: nella quale la Commissione si è inequivocabilmente attribuita un ruolo non più solo di regolazione e di promozione dello sviluppo economico europeo, ma anche di governo e di guida dello stesso per indirizzarlo verso gli obiettivi strategici definiti in sede istituzionale [2].

Tale scelta fondamentale – almeno in potenza fondante un diverso ordine giuridico dei mercati – ha poi trovato conferma e sviluppo in molti atti successivi, recanti ulteriori Comunicazioni della Commissione oppure proposte di nuovi regolamenti e direttive, che, riferendosi ad un ambito amplissimo di settori e di temi, hanno più chiaramente definito fini e strumenti della nuova strategia industriale europea [3].

Dato che larga parte di quelle puntuali proposte normative è ancora oggetto di complessi negoziati con il Parlamento e il Consiglio europei [4], e gli esiti degli stessi appaiono oggi solo in parte prevedibili, non sembra utile in questa sede prendere specificamente in esame i contenuti delle stesse.

Appare invece più opportuno, per contribuire al dibattito in corso e in particolare per segnare i confini entro cui tali trattative dovrebbero ragionevolmente muoversi per non compromettere il senso complessivo e gli equilibri di fondo di quella nuova strategia, tornare a considerare le linee essenziali della stessa e i suoi tratti caratterizzanti, evidenziarne i profili maggiormente problematici e valutare le critiche che ad essa sono state rivolte da diversi e anzi opposti punti di vista [5].


2. Due tratti caratterizzanti della strategia industriale europea

Dei molti tratti che connotano il nuovo modello di disciplina dei mercati risultante dalle proposte dalla Commissione due sembrano particolarmente meritevoli di essere qui richiamati.

Il primo è il carattere fortemente finalizzato della politica industriale che si sta delineando, con la quale non s’intende più solo promuovere la competitività delle imprese e nemmeno solo sostenere le aree territoriali meno sviluppate – come nei fatti si è sempre continuato a fare anche negli anni in cui a Bruxelles parlare di politica industriale era un tabù –, ma anche indirizzare le imprese verso scelte produttive e commerciali coerenti con le finalità strategiche definite prima dalla Commissione e poi dal legislatore europeo: decarbonizzazione, digitalizzazione e autonomia strategica dell’industria europea [6].

Non si tratta soltanto di sostenere e facilitare lo sviluppo economico, ma di tornare ad orientarlo verso direzioni non necessariamente coincidenti con quelle che sarebbero determinate dalle dinamiche spontanee di mercato.

Riappare l’intervento finalistico dei pubblici poteri, che si affianca, in una relazione ancora largamente da chiarire, a quello condizionale prevalente negli ultimi decenni e in particolare agli interventi di tutela della concorrenza e di regolazione pro-competitiva: il che assume ovviamente rilievo da molteplici punti di vista, ivi incluso quello del disegno concreto degli strumenti nuovi o tradizionali della politica industriale. Evidente è ad esempio la rilevanza di tale connotazione finalistica rispetto al tema – mai risolto in passato – dell’indirizzo strategico delle imprese pubbliche e a quello del carattere automatico o (parzialmente) discrezionale degli incentivi pubblici alle imprese [7].

Nel caso dell’obiettivo della decarbonizzazione, la finalizzazione è talmente forte e pregnante da avere indotto a coniare l’espressione Green Industrial Policy [8], anche per sottolineare che, nella nuova strategia di contrasto al cambiamento climatico, quell’obiettivo ha cessato di essere un mero limite esterno delle politiche di sviluppo per divenire un criterio guida – determinante e sostanziale – delle stesse [9] (e in realtà di molte altre politiche pubbliche) [10].

Ma anche le finalità di promuovere la transizione digitale del sistema produttivo europeo e la sua (almeno tendenziale) indipendenza strategica sono in grado di incidere fortemente sulle scelte delle imprese e dei loro finanziatori, e richiedono di essere adeguatamente considerate nelle politiche di concorrenza e nella regolazione economica.

Il secondo aspetto essenziale del modello che sta emergendo attiene agli strumenti che almeno allo stato le istituzioni europee sembrerebbero voler utilizzare o far utilizzare dagli Stati membri per conseguire gli obiettivi sopra richiamati.

Appare al riguardo evidente che la Commissione europea non vuole ripercorrere la strada – largamente battuta negli anni ’60 e ’70 del ’900 da molti Paesi europei – della pianificazione autoritativa delle attività d’impresa; e intende invece ricorrere ad una combinazione di misure di command and control e di incentivazione – una combinazione complessa e significativamente diversa a seconda dei settori –, destinate comunque lasciare uno spazio significativo alla libertà d’impresa e alle dinamiche di mercato.

È bene essere molto chiari sul punto: le comunicazioni della Commissione e le sue proposte di direttive e di regolamenti, come anche alcuni provvedimenti legislativi già approvati in sede europea, sono ricchi di riferimenti ad atti di tipo programmatorio. Ma tali atti, nella loro attuale configurazione, riguardano tempi, modi ed obiettivi puntuali dell’azione pubblica di incentivazione e di regolazione e non direttamente l’attività delle imprese. Si tratta quindi, come ha sottolineato ad esempio Marco D’Alberti, di una pianificazione indicativa e non vincolante per gli operatori economici, che, sia pure con molti limiti e condizionamenti, restano liberi di decidere come, dove, cosa e quanto produrre.

Non è dunque un modello di organizzazione economica accentrata quello che la Commissione europea sta apparentemente cercando di introdurre. L’in­dirizzamento delle imprese verso gli obiettivi della decarbonizzazione, della digitalizzazione e della rilocalizzazione in Europa delle attività industriali e commerciali considerate strategiche dovrebbe invece realizzarsi sia rafforzando taluni limiti imperativi allo svolgimento delle attività produttive sia attraverso una pluralità di misure di mercato, promozionali o al contrario disincentivanti, dirette ad incidere sul calcolo di convenienza delle imprese.

La volontà della Commissione e del legislatore europeo di preservare uno spazio adeguato per la libertà di iniziativa degli operatori economici e per le dinamiche di mercato appare evidente, ed emerge anche dalla esplicita salvaguardia delle politiche di concorrenza: che sono ora ovviamente destinate ad essere affiancate dalle politiche industriali e anche a venire in parte aggiornate per tenere conto delle stesse [11], ma che continueranno ad avere un ruolo rilevante nel quadro della complessiva strategia economica europea e all’interno dell’ordine giuridico che dovrebbe derivarne [12].


3. Le critiche dal versante liberista

Come chiaramente emerge da quanto si è sopra rilevato, la strategia delineata dalla Commissione europea costituisce un tentativo di conciliare le dinamiche di mercato e il mantenimento di spazi significativi per l’iniziativa delle imprese e per gli investimenti privati con un intervento pubblico assai più marcatamente finalistico rispetto al recente passato. Decarbonizzazione, digitalizzazione e autonomia strategica dell’industria europea sono perseguite dal­l’Unione con regole e limiti più stringenti e con incentivi e disincentivi più consistenti, oltre che con qualche aggiustamento – in realtà, tutt’altro che privo di problemi – delle regole di concorrenza [13], ma senza approdare ad un assetto imperniato su programmazioni e pianificazioni pubbliche e senza quindi una drastica compressione della libertà di scelta degli operatori economici.

Tale soluzione non poteva non essere criticata, ed è stata in effetti fortemente criticata, sia da chi continua a guardare con sospetto ad un ruolo di governo – e non solo di regolazione e di “facilitazione” – dei pubblici poteri nel­l’economia, sia da chi, in una prospettiva opposta, auspica un più netto abbandono della originaria matrice ordo-liberale dell’ordinamento europeo.

Dal primo punto di vista, la volontà della Commissione di interferire, direttamente o per il tramite degli Stati, con le dinamiche di mercato – di interferire più incisivamente rispetto a quanto è avvenuto in un recente passato – viene contestata richiamando in servizio, con qualche aggiornamento, larga parte degli argomenti di taglio economico e politologico che avevano determinato il successo del paradigma liberista a partire dalla fine degli anni ’80 del ‘900.

È chiaro che la crisi finanziaria e poi economica del 2008 e più recentemente l’emergenza pandemica e quella climatica hanno per più ragioni indebolito quegli argomenti, a cominciare da quello imperniato sulla presunta capacità del mercato di autoregolarsi. Tuttavia, essi continuano ad avere una forte presa su una parte non marginale dell’opinione pubblica e delle forze politiche, sia per il fascino che sempre esercita il loro richiamarsi all’idea della libertà individuale e del merito [14], sia, più prosaicamente, per le enormi risorse finanziarie che i grandi poteri economici privati che di quegli argomenti si sono nutriti in questi ultimi decenni possono riversare nel circuito mediatico e politico [15].

Gli ostacoli che questi grandi poteri privati – oggi, in primis, finanziari e digitali – possono frapporre al tentativo delle istituzioni europei e di alcuni Stati di riassumere la guida dello sviluppo sono ovviamente molto consistenti [16] ed essi sono chiaramente visibili anche nelle negoziazioni in corso, nelle sedi istituzionali e al di fuori delle stesse, sulle proposte normative della Commissione attuative della Green Industrial Policy [17].

Non possono esserci dubbi, al riguardo, sul fatto che solo la dimensione europea, e non certo quella dei singoli Stati membri, potrà forse consentire ai poteri pubblici di fronteggiare e superare tali resistenze. È quindi chiaro che l’effettivo prevalere del modello di disciplina dei mercati di cui si sta qui discutendo dipende anche, in larga misura, dalla crescita dell’integrazione europea [18].


4. Un intervento pubblico pių ambizioso e pių pervasivo?

Il secondo, opposto, punto di vista da cui la nuova strategia industriale europea viene contestata è quello di chi la reputa troppo poco ambiziosa negli obiettivi e troppo poco incisiva negli strumenti: quella di chi vorrebbe che l’Unione europea abbandonasse del tutto la sua matrice ordo-liberale e indirizzasse con decisione (anche) la sua politica industriale verso obiettivi di uguaglianza sostanziale e di coesione sociale; e vorrebbe altresì che a tale scopo essa riducesse drasticamente il ricorso a meccanismi di mercato in favore di pianificazioni e programmazioni autoritative e di un più largo utilizzo delle imprese pubbliche.

Al riguardo, è difficile, almeno per chi scrive, non simpatizzare con chi richiama i pubblici poteri a prendere nuovamente sul serio quel progetto di trasformazione e crescita civile, volto appunto a promuovere una più effettiva eguaglianza sostanziale e una maggiore coesione sociale, che nel nostro Paese è riassunto dall’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Ed è anzi senz’altro opportuno sottolineare con forza la necessità che l’Unione Europea decida e promuova attivamente un cambiamento profondo delle sue politiche nella direzione della sostenibilità sociale, con uno sforzo analogo a quello che si sta cercando di realizzare rispetto alla sostenibilità ambientale e climatica.

Ma non sembra che a tale scopo sia opportuno utilizzare gli strumenti della politica industriale, e tanto meno quelli della politica di concorrenza o della regolazione economica. Come ha scritto ad esempio L. Khan riferendosi alla disciplina antitrust ma con considerazioni che sembrano valere anche per gli altri strumenti istituzionalmente volti a promuovere l’efficienza del sistema economico, piegare i medesimi a fini diversi da quelli che gli sono propri implica un rischio elevato di alterarne il funzionamento e di non ottenere risultati apprezzabili né dal punto di vista della produzione della ricchezza né da quello della sua redistribuzione [19].

D’altra parte, l’esperienza concretamente svoltasi in Italia e in molti altri Paesi europei negli anni ’70 e ’80 del ’900 mostra con chiarezza gli esiti negativi di un’impropria commistione tra interventi di politica industriale e di politica sociale.

Il bilancio di tale stagione, come ha rilevato anche Giuliano Amato [20], non è stato positivo, non solo perché l’intervento pubblico sui mercati aveva assunto dimensioni molto estese con una corrispondente, spesso eccessiva compressione della libertà d’impresa, ma anche e soprattutto perché esso, pur se mosso almeno in origine da apprezzabili finalità politico-sociali, aveva finito per assumere tratti di arbitrarietà, discriminatorietà e inadeguatezza tecnica in­compatibili con basilari esigenze di efficienza economica nel funzionamento dei mercati.

Ha certo ragione W. Streeck quando scrive che in quegli anni il grande capitale si è ritratto dagli investimenti produttivi perché non accettava la limitazione dei suoi profitti derivante dal forte controllo pubblico dell’economia [21], e così ha fatto sino a quando non è riuscito – con un lavoro di decenni presso le università e le opinioni pubbliche di tutto il mondo [22] – a far prevalere il paradigma liberista, che ha riconosciuto pienamente, fino a trasformarlo in dogma, il suo obiettivo di massimizzazione del profitto.

Ma è anche giusto ammettere che un contesto di politica industriale che prevede e comunque ammette interventi dei pubblici poteri arbitrari, non imparziali e largamente sganciati da criteri di razionalità economica è oggettivamente poco attrattivo per gli investimenti privati e per lo sviluppo delle iniziative imprenditoriali.


5. Conclusioni

Il tentativo della Commissione europea di costruire un modello di politica industriale significativamente finalistico – in cui l’obiettivo della decarbonizzazione risulta particolarmente pregnante, ma anche quelli della trasformazione digitale e della difesa dell’autonomia strategica dell’industria europea appaiono esplicitamente perseguiti – ma compatibile con le dinamiche concorrenziali e con lo stimolo alle iniziative d’impresa e gli investimenti privati sembra in definitiva meritevole di essere sostenuto.

È un tentativo che non poteva non incontrare opposizioni e resistenze molto forti, anche per la sfiducia di molti nella capacità degli Stati e dell’Unione Europea di accompagnare la grande trasformazione socio-economica che quegli obiettivi comportano con misure di sostegno e protezione sociale idonee a socializzare in misura significativa i costi e i sacrifici che non poche aree territoriali dovranno sostenere [23].

Si torna così al tema – sopra richiamato – del governo e della regia complessiva dello sviluppo, che la Commissione ha finalmente rivendicato per sé e per gli Stati e che occorre ora difendere e valorizzare. Tenendo ben presente che, come si è sopra sottolineato, le finalità di promozione dell’eguaglianza sostanziale e della coesione sociale devono essere perseguiti principalmente con strumenti diversi da quelli della politica industriale e della concorrenza: in primis, con politiche fiscali e del lavoro e ovviamente con interventi di politica sociale.

Questo non esclude, naturalmente, che le misure preordinate allo sviluppo e all’efficienza del sistema economico debbano essere definite in modo tale da garantirne pienamente la compatibilità con le esigenze di sostenibilità sociale. Ma, da un lato, questo non può in nessun modo esaurire l’ambito degli interventi diretti a garantire coesione e giustizia sociale – che richiedono ora ben altro impegno e mobilitazione anche da parte delle istituzioni europee [24] –, dall’altro, non può tradursi in un’alterazione dei caratteri sostanziali di quelle misure.

Confondere i piani di riflessione e di intervento è sempre insidioso: quando nei primi anni ’40 del ’900, Beveridge chiese aiuto a Keynes per realizzare il suo piano straordinario di riforma ed estensione del Welfare, non gli domandò di progettare interventi di politica industriale, ma (solo) di aiutarlo a garantire la sostenibilità finanziaria del progetto [25].

Un esempio di collaborazione tra scienze umane e tra accademia ed azione politica che sarebbe bene seguire più largamente anche oggi.


NOTE

[1] V. al riguardo, tra i moltissimi contributi sul tema, G. Amato, Bentornato Stato, ma, Il Mulino, 2022; F. Bassanini-G. Napolitano-L. Torchia, Lo Stato promotore. Come cambia l’inter­vento pubblico nell’economia, Bologna, Il Mulino, 2021; K. Aiginger-D. Rodrik, Rebirth of Industrial Policy and an Agenda for the XXI Century, in Journal of Industry, Competition and Trade, 2020, 20, 189 ss.; A. Wigger, The new EU industrial policy: authoritarian neoliberal structural adjustment and the case for alternatives, in Globalizations, 2018, 16(3), 353 ss. V. anche il n. 2/2023 della rivista Il Mulino, Serve più Stato?, nonché E. Bruti Liberati, Industria, ad vocem, in Enc. dir., I tematici, III, Funzioni amministrative, 2022, 654 ss.

[2] Comunicazione 11 dicembre 2019, COM(2019) 640 final, Il Green Deal europeo. Su di essa v. E. CHITI, Managing the Ecological Transition of EU: the European Green Deal as a Regulatory Process, in Common Market Lax Review, 2022, 59, 19 ss.; E. Bruti Liberati, Le politiche di decarbonizzazione e i loro riflessi sulla costituzione economica e sulla governance europea e nazionale, in Diritto Pubblico, 2021, 2, 415 ss.; A. Moliterni, La sfida ambientale e il ruolo dei pubblici poteri in campo economico, in RQDA, 2020, 32 ss.; Editorial comments, The European Climate Law: Making the Social Market economy fit for 55?, in Common Market Law Review, 2021, 58, 1321 ss..

[3] Tra i molti v. in particolare la Comunicazione A new Industrial Strategy for Europe, COM(2020) 102 final del 10 marzo 2020; la Comunicazione Updating the 2020 New Industrial Strategy: Building a Stronger Single Market, COM(2021) 350 final del 5 maggio 2021; la Comunicazione 2030 Digital Compass: the European Way for the Digital Decade, COM(2021) 118 final del 9 marzo 2021; la Comunicazione A Green Deal Industrial Plan for the Net Zero Age, COM(2023) 62 final dell’1 febbraio 2023. Per quanto attiene alle proposte di nuovi regolamenti e direttive, deve innanzitutto citarsi il Pacchetto Fit for 55, recante 13 proposte di regolamenti o direttive, presentato dalla Commissione in data 14 luglio 2021 e diretto a dare attuazione al Green Deal (su cui vedi il Paper “Il “Fit for 55” unpacked: un’analisi multi-disciplinare degli strumenti e degli obiettivi delle proposte settoriali per la decarbonizzazione dell’economia europea”, a cura di B. Celata-G. Cavalieri-S. Franca-M. Gandiglio-A. Germani-A. Giorgi-G. Scarano, in questa Rivista, 1/2022), a cui ha fatto poi seguito una molteplicità di proposte inerenti ancora al Green Deal, alla transizione digitale e alla promozione dell’autonomia strategica dell’Unione Europea.

[4] È bene peraltro ricordare che alcuni segmenti fondamentali della strategia industriale europea sono già stati approvati da Parlamento e Consiglio e sono divenuti quindi norme vincolanti dell’Unione: tra di essi si devono quanto meno ricordare il Regolamento (UE) 12 febbraio 2021, n. 2021/241, recante il Dispositivo per la ripresa e la resilienza; il Regolamento (UE) 30 giugno 2021, n. 2021/1119 recante la Normativa europea sul Clima; i due Regolamenti sul digitale del 14 settembre n. 2022/1925, relativo a “mercati equi e contendibili nel settore digital” (c.d. DMA), e n. 2022/2065, relativo a “un mercato unico dei servizi digitali” (c.d. DSA); il Regolamento (UE) 2023/851, del 19 aprile 2023, relativo ai limiti emissivi di autovetture e veicoli commerciali “leggeri”.

[5] V. già al riguardo, ma in uno stadio meno avanzato di definizione della nuova politica industriale europea, E. Bruti Liberati, Industria, ad vocem, cit.

[6] V. molto chiaramente, al riguardo, la già citata Comunicazione Updating the 2020 New Industrial Strategy: Building a Stronger Single Market, del 5 maggio 2021.

[7] Su tali temi v., in tempi recenti, A. Averardi, Potere pubblico e politiche industriali, Napoli, Jovene, 2018; G. Napolitano, Il “governo” delle società a partecipazione pubblica: regole o istituzioni?, in R. Garofoli-A. Zoppini (a cura di), Manuale delle società a partecipazione pubblica, Molfetta, Nel diritto, 2018, 24 ss.; V. Minervini, Il ritorno dello Stato salvatore. Nuovi paradigmi (post Covid) nel rapporto tra Stato e mercato, in Merc. Conc. 2020, 471 ss.; Bruti Liberati, Industria, ad vocem, cit., 674 ss.

[8] Su cui v., in termini generali, D. Rodrik, Green industrial policy, in Oxford Review of Economic Policy, 2014, 469 ss.; J.J. Monast, The ends and means of decarbonization: the Green New Deal in context, in Environmental Law, 2020, 21 ss.

[9] V. al riguardo MoliternI, La sfida ambientale e il ruolo dei pubblici poteri in campo economico, cit., 32 ss.; Chiti, Managing the Ecological Transition of EU: the European Green Deal as a Regulatory Process, cit., 19 ss.; Bruti Liberati, Le politiche di decarbonizzazione e i loro riflessi sulla costituzione economica e sulla governance europea e nazionale, cit., 415 ss.

[10] Emblematica in tal senso è la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167, in cui, nel statuire l’illegittimità di un provvedimento del Ministero della Cultura che avrebbe impedito la realizzazione di un impianto che utilizzava una fonte rinnovabile di energia, si è condivisibilmente affermato che “Gli atti impugnati risultano violativi anche del principio di integrazione delle tutele ‒ riconosciuto, sia a livello europeo (art. 11 TFUE)  sia nazionale (art. 3-quater del D.Lgs. n. 152 del 2006) sia pure con una formulazione ellittica che lo sottintende) ‒ in virtù del quale le esigenze di tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre pertinenti politiche pubbliche, in particolare al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile. Il principio si impone non solo nei rapporti tra ambiente e attività produttive ‒ rispetto al quale la recente legge di riforma costituzionale 11 febbraio 2022 n. 1, nell’accostare dialetticamente la tutela dell’ambiente con il valore dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), segna il superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva ‒ ma anche al fine di individuare un adeguato equilibrio tra ambiente e patrimonio culturale, nel senso che l’esigenza di tutelare il secondo deve integrarsi con la necessità di preservare il primo” (sottolineatura aggiunta).

[11] V. al riguardo F. Rossi Dal Pozzo (a cura di), Politiche di concorrenza e politica industriale: sinergia o conflitto?, in Eurojus, aprile 2023 (con contributi di S. Bastianon-G. Bruzzone-D. Diverio-G. Muscolo-B. Nascimbene-M. Tavassi-E.A. Raffaelli-B. Smulders)-C. Muraca, Tutela della concorrenza e sostenibilità ambientale: un dialogo difficile ma necessario, in questa Rivista 1/2021; e, per una riflessione di carattere più generale, M. Ramajoli, Concorrenza (tutela della), ad vocem, in Enc. dir., I tematici, III, Funzioni amministrative, 2022, 292 ss.).

[12] Tale volontà della Commissione è emersa chiaramente anche dalle misure adottate nel corso del 2022 per fronteggiare l’emergenza energetica indotta dalla guerra in Ucraina e in particolare l’eccezionale aumento dei prezzi di gas naturale ed elettricità: di fronte alla propensione di molti Stati membri ad intervenire con misure di controllo dei prezzi all’ingrosso e al dettaglio e con forme di prelievi straordinari sui profitti degli operatori dell’energia, la Commissione e poi il legislatore europeo hanno chiarito che tali tipologie di interventi erano ammissibili in via transitoria ma hanno anche posto agli stessi limiti precisi, per garantirne la coerenza con la il modello di regolazione pro-concorrenziale che continua ad essere accolto a livello europeo (v. in particolare la Comunicazione “RepowerEU: azione europea comune per un’energia più sicura, più sostenibile e a prezzi più accessibili”, COM(2022) 108 final dell’8 marzo 2022; la successiva Comunicazione “RepowerEU Plan”, COM(2022) 230 final dell’8 maggio 2022; e infine il Regolamento UE n. 2022/1854 del 6 ottobre 2022, recante “Un intervento di emergenza per far fronte ai prezzi elevati dell’energia”). Appare anche estremamente significativo che la giurisprudenza italiana, chiamata a verificare la legittimità delle misure adottate dal legislatore italiano nel corso dell’emergenza, abbia a sua volta operato con rigore per assicurare la coerenza di quelle misure con il suddetto modello europeo, oltre che il rispetto del principio di legalità (v. in particolare Cons. Stato, VI, ordinanza 22 dicembre 2022, n. 5986; Tar Lazio, Roma, I, sentenza 23 giugno 2023, n. 10695; Tar Lombardia, Milano, I, ordinanza 7 luglio 2023, n. 1744).

[13] V. ancora, al riguardo, gli A. citati sopra alla nota 11.

[14] Per una riflessione critica sull’estremizzazione dell’idea di libertà individuale nel modello neo-liberista (e per una sua riformulazione in una prospettiva più attenta alle esigenze di coesione sociale) v. C. Giaccardi-M. Magatti, Super società. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?, Il Mulino, Bologna, 2023.

[15] È sempre utile al riguardo l’analisi svolta da S. George, L’America in pugno, Feltrinelli, Milano, 2008.

[16] Sul tema dei grandi poteri economici privati – dell’influenza che essi sono in grado di esercitare non solo sul funzionamento dell’economia ma anche su quello delle istituzioni democratiche e dei modi per contenerla e ridurla – v. i contributi pubblicati su Diritto Pubblico n. 3/2021. V. anche al riguardo L. Ammannati, I “signori” nell’era dell’algoritmo, ivi, 2/2021, 381 ss.; E. Bruti Liberati, Poteri privati e nuova regolazione pubblica, ivi, 1/2023, 285 ss.; M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Il Mulino, 2022.

[17] Le cronache provenienti in questi mesi da Bruxelles forniscono molti esempi di tali resistenze: ad esempio, rispetto alla normativa diretta ad imporre l’abbandono entro una data determinata (2035) dei combustibili fossili nel trasporto automobilistico (riguardo al quale si è comunque riusciti a pervenire all’emanazione del già citato Regolamento (UE) 2023/851, del 19 aprile 2023), o rispetto a quelle finalizzate a porre limiti imperativi al consumo del suolo per fini di produzione agricola e ad obbligare al recupero degli ecosistemi. Il che non significa, naturalmente, che tutte le opposizioni all’attuazione – o all’attuazione sollecita – del Green Deal siano riconducibili a grandi poteri economici e finanziari, perché è evidente che la resistenza al cambiamento deriva anche da paure e preoccupazioni relative ai costi sociali dei processi di riconversione produttiva che esso comporta (v. al riguardo E. Bruti Liberati, Lotta al cambiamento climatico e sostenibilità ecologica e sociale, in Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2022, 4, 546 ss.).

[18] Sul tema v. le recenti riflessioni di G. Amato-F. Bassanini-C. De Vincenti-P. Guerrieri-M. Messori-P.C. Padoan-R. Perissich-G.L. Tosato, La governance economica dell’Unione europea nel nuovo scenario geopolitico: un’agenda di policy, Astrid Paper, marzo 2023.

[19] V. L. Khan, The new Brandeis Movement: America’s Antimonopoly debate, in Journal of European Competition Law & Practice, 9, 3, 2018, p. 131 ss. V. anche, nello stesso senso, G. Bruzzone, I rapporti tra politiche di concorrenza e politica industriale nella strategia europea per la crescita, in F. Rossi Dal Pozzo (a cura di), Politiche di concorrenza e politica industriale: sinergia o conflitto?, cit., 16 ss.

[20] V. ancora Amato, Bentornato Stato, ma, cit.

[21] W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 2013.

[22] V. ancora sul tema S. George, L’America in pugno, cit.

[23] In realtà, l’Unione Europea ha già istituito o rafforzato diversi fondi diretti a sostenere le aree territoriali (e i settori produttivi) interessati, tra cui innanzitutto il Just Transition Fund, istituito con il Regolamento (UE) 2021/1056, che ha una dotazione complessiva di 17,5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 (in parte finanziati nell’ambito di NewtGenerationEU) ed è diretto a sostenere anche il recupero dei siti industriali, la riqualificazione dei lavoratori e l’assistenza tecnica (oltre che investimenti finalizzati alla riduzione delle emissioni e all’adozione di tecnologie per l’energia pulita).

[24] È significativo, al riguardo, il dibattito che si è avviato sul tema della produzione ed erogazione di beni pubblici europei, anzitutto nel campo del welfare, dell’educazione e della cultura (su cui v. ad esempio M. Buti, Jean Monnet aveva ragione? Costruire l’Europa in tempo di crisi, Bocconi University Press, 2023). Ma la consapevolezza che è urgente intervenire attivamente sulle aree di disagio sociale ed economico, anche per ridurre il consenso di cui godono in molti Paesi europei i movimenti populisti e illiberali, non sembra ancora sufficientemente diffusa.

[25] V. R. Skidelsky, John Maynard Keynes, vol. III, Fighting for Freedom, Viking, New York, 2001, 267.

Fascicolo 2 - 2023