A partire dalla disposizione in tema di aggregazioni, introdotta con la riforma della disciplina dei servizi pubblici locali, lo scritto si interroga su tre diversi questioni ovvero la condivisibilità della scelta di individuare la città metropolitana come dimensione territoriale ottimale per la fornitura del servizio pubblico locale; la reale capacità degli incentivi previsti di stimolare l’istituzione di nuove unioni tra i Comuni e quindi permettere in concreto l’attuazione delle aggregazioni; infine, i possibili riflessi delle aggregazioni e unioni tra Comuni in relazione alle conseguenti fusioni o diverse operazioni straordinarie tra società a partecipazione pubblica, che erano, in precedenza, incaricate della prestazione del servizio distintamente nei medesimi singoli Comuni.
Moving from the new provision on aggregations, introduced with the reform of the regulation of local public services, the paper questions three different issues: first of all, the choice of identifying the metropolitan city as the optimal territorial dimension for the provision of local public service; secondary, the real capability of the provided incentives to stimulate the establishment of new unions among municipalities and thus concretely allow the implementation of aggregations; and, finally, the possible connections between aggregations and unions among municipalities, on one side, and mergers or different extraordinary operations between companies with public shareholdings, on the other side.
1. La centralità delle aggregazioni nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica - 2. Le aggregazioni e gli ambiti territoriali ottimali - 3. Le incentivazioni alle aggregazioni nel recente D.M. - 4. Le aggregazioni e le possibili implicazioni nell’industrializzazione della fornitura dei servizi pubblici locali - NOTE
Il tema delle aggregazioni riveste un’assoluta centralità rispetto agli obiettivi della nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica [1]. Non solo la riforma di settore deriva, come noto, da precise richieste formulate in sede di approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ma, in particolare, nei documenti collegati si trova espressa menzione e indicazione in merito alla necessità di rimodulare l’offerta su ambiti territoriali più estesi così da ridurre le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti a cui fa capo l’erogazione del servizio e, di conseguenza, anche contenerne i costi. Nella decisione di esecuzione del Consiglio (meglio nota come CID dall’acronimo dell’inglese Council Implementation Decision) allegata all’approvazione del PNRR dell’Italia, infatti, si indica che “la legge sulla concorrenza sarà adottata con cadenza annuale, aumenterà le procedure competitive di aggiudicazione degli appalti per i servizi pubblici locali (in particolare rifiuti e trasporti pubblici) ed eviterà l’ingiustificata proroga delle concessioni (…), prevedendo una corretta regolamentazione dei contratti di servizio pubblico, rivedendo le regole sull’aggregazione e applicando un principio generale di proporzionalità della durata dei contratti di servizio pubblico e della loro adeguata compensazione”. In particolare, tra gli impegni specifici si prevede la necessità di “individuare norme e meccanismi di aggregazione che incentivino le unioni tra Comuni volte a ridurre il numero di enti e di amministrazioni aggiudicatrici, collegandoli ad ambiti territoriali ottimali e a bacini e livelli adeguati di servizi di trasporto pubblico locale e regionale di almeno 350.000 abitanti”.
Ecco perché l’art. 5 del d.lgs. n. 201 del 23 dicembre 2022, rubricato Meccanismi di incentivazione delle aggregazioni [2], contiene previsioni che hanno l’intento di promuovere unioni tra enti locali, considerando di regola l’estensione territoriale della maggior parte dei Comuni italiani non idonea all’erogazione efficiente del servizio e rinviando ad un decreto ministeriale, adottato nell’aprile 2023, per la predisposizione di specifiche misure di incentivazione senza nuovi o maggiori oneri di bilancio. A tale disposizione si somma la previsione dell’art. 9 [3] che sottolinea la necessità del coinvolgimento e della collaborazione e sinergia tra i diversi enti territoriali e i diversi livelli di competenze per la più efficiente erogazione delle prestazioni. Si attribuiscono, perciò, alle Province, le funzioni di raccolta ed elaborazione dei dati e quelle di assistenza tecnica ed amministrativa agli enti locali e, alle Regioni, si riconosce il ruolo di promotori dell’industrializzazione e della riduzione dei costi dei servizi pubblici, anche attraverso la stipula di accordi e convenzioni con gli enti locali e il coinvolgimento di soggetti privati.
Le riflessioni seguenti, concentrandosi sulle disposizioni appena menzionate, mirano ad illustrarne adeguatezza e criticità rispetto all’obiettivo prefissato della promozione delle aggregazioni per l’erogazione di servizi pubblici a carattere imprenditoriale. In particolare, s’intende interrogarsi su tre diverse questioni derivanti dal testo formulato dal legislatore: la prima si riferisce alla condivisibilità o meno della scelta di individuare la città metropolitana come dimensione territoriale ottimale per la fornitura del servizio pubblico locale; la seconda riguarda la reale capacità degli incentivi previsti nel D.M. di recente adozione di stimolare l’istituzione di nuove unioni tra i Comuni e quindi permettere in concreto l’attuazione delle aggregazioni; infine, l’ultima si riferisce ai possibili riflessi delle aggregazioni e unioni tra Comuni in relazione alle conseguenti fusioni o diverse operazioni straordinarie tra società a partecipazione pubblica, che erano, in precedenza, incaricate della prestazione del servizio distintamente nei medesimi singoli Comuni.
Il tema delle aggregazioni nella fornitura dei pubblici servizi non è certo nuovo; anzi, anche il d.lgs. n. 201/2022 dà conto dell’esistenza di precedenti esperienze laddove indica che la disciplina introdotta non incide in quei settori in cui già esistano aggregazioni che possono qualificarsi come obbligatorie, in quanto previste come tali dal legislatore. Ciò si ricava dalla clausola di salvezza delle discipline settoriali contenuta al comma 5 dell’art. 5 del decreto, ma anche dalla lettera degli artt. 32, per il trasporto pubblico locale, e 33, per il servizio idrico e la gestione dei rifiuti urbani. In questi campi la scelta del legislatore delegato è stata, infatti, nel senso del rinvio alle discipline speciali, anziché del riordino, forse anche tenuto conto delle note ed estreme difficoltà incontrate in passato proprio nel tentativo di definire gli ambiti territoriali.
Come è stato ben ricordato [4], la letteratura di economia industriale inizia a ragionare in termini di local government e di optimal size per i capital-intensive services all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando si rende evidente che la dimensione dell’ente territoriale non necessariamente coincide con l’ottimale organizzazione dei servizi e non sempre tiene conto delle caratteristiche fisiche e geografiche idonee ad un efficiente gestione. Di qui si ricava l’indicazione dell’opportunità di rimuovere ogni vincolo di corrispondenza per ricorrere, talvolta, a forme di aggregazione, anche volontaria, tra enti locali per la gestione associata (quando la optimal size è più ampia della ripartizione territoriale dell’ente), talaltra, al contrario, a meccanismi di affidamento in lotti distinti (nel caso in cui la optimal size sia più ridotta). La letteratura precisa, tuttavia, che oltre una certa dimensione le economie di scala possono presentare difetti e criticità quanto, ad esempio, all’offerta di una manutenzione efficiente dell’infrastruttura e alla risoluzione di eventuali disservizi nella fornitura agli utenti [5]. Anche la Corte costituzionale [6] nel dichiarare l’illegittimità dell’obbligo di gestione associata di tutte le funzioni fondamentali per i comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti ha sottolineato come la convenzione o l’unione di comuni non siano sempre “…idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina”. La mancanza di comuni confinanti parimenti obbligati, la collocazione geografica e i particolari fattori antropici o ancora l’isolamento possono ostacolare il realizzarsi di economie di scala e il miglioramento dell’efficienza, sicché è necessario introdurre inevitabili distinguo in base alla realtà di fatto.
Il nostro legislatore ha scelto di introdurre l’obbligatorietà della gestione ottimale per ambiti diversi dall’ente territoriale, in quanto qualificati per le peculiari condizioni che li caratterizzano, anzitutto nel settore idrico con la legge Galli (5 gennaio 1994, n.36), poi estendendola anche ai rifiuti nel 1997. La disciplina, come noto, è stata trasposta ed è ancor oggi contenuta nel c.d. Codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006) ove, all’art.147 ss. per il settore idrico [7], e all’art. 200 ss. per la gestione dei rifiuti urbani, si prevede appunto l’organizzazione per ATO e l’unicità della gestione per ciascuno degli stessi. E tuttavia, come noto, tale disciplina, sin dalle sue origini, ha trovato non poche difficoltà applicative e, nonostante l’indubbio arco temporale trascorso, è ancora solo parzialmente attuata. Gli enti territoriali, infatti, hanno spesso osteggiato la cessione delle proprie funzioni ai nuovi soggetti istituiti, tanto che lo stesso Codice dell’ambiente ha previsto e prevede poteri sostitutivi in capo alle Regioni, preordinati proprio al completamento nella istituzione e piena operatività degli enti preposti alle ATO. Non solo: ARERA, oggi competente per le funzioni di programmazione e tariffarie nel settore rifiuti, indicava, proprio nel parere sullo schema di d.lgs. recante riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, del novembre 2022, l’opportunità che le fosse attribuita la competenza a sollecitare l’esercizio di tali poteri sostitutivi nel settore dei rifiuti, stante la situazione ancora inattuata su molta parte del territorio. L’indicazione è rimasta inascoltata e l’ultimo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 201 prevede solamente una relazione periodica semestrale sul rispetto delle disposizioni relative agli ATO, probabilmente intesa quale strumento, certamente meno incisivo, per vigilare sull’attuazione di disposizioni che ancora incontrano l’ostilità degli enti.
Anche nel trasporto locale, l’art. 3-bis del d.l. n.138/2011 ha introdotto, nella più generale previsione relativa ai servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, l’organizzazione e fornitura sulla base del perimetro degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, di regola di dimensione non inferiore a quella provinciale, tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio [8].
Si noti che il favore per le aggregazioni, ad esempio in tema di gestione dei rifiuti, non è solo del legislatore italiano: è stato ricordato [9], ad esempio, che la maggior parte dei Comuni francesi opera in forma associata attraverso ètablissement publics de coopération intercomunale (EPCI).
Del resto, la direzione nel senso di superare la dimensione territoriale al fine di sfruttare economie di scala o di scopo, ma anche di superare le carenze organizzative e di corpi tecnici specializzati all’interno di amministrazioni di ridotte dimensioni o che già abbiano dato prova di incapacità e inadeguatezza dei risultati raggiunti, si avverte anche in altri settori dell’ordinamento, ugualmente influenzati dalla prospettiva pro-concorrenziale e dalla necessità di contenimento di spesa.
Ci si riferisce alla disciplina dei contratti pubblici, in cui si riconosce la medesima spinta verso l’aggregazione attraverso la promozione delle centrali di committenza, finalizzate appunto a raggruppare le procedure di appalto [10] in capo a soggetti distinti e diversi dagli enti titolari della capacità contrattuale. In merito si è precisato che “l’affermazione costituzionale dell’autonomia degli enti territoriali, intesa come funzionale alla realizzazione del buon andamento, mentre non può giustificare le inefficienze, al contrario legittima, fino a renderlo doveroso, l’esercizio di attività rivolte all’ente al livello organizzativamente e professionalmente più adeguato, poiché funzionali alla qualità delle prestazioni ai cittadini”. Si individua così il fondamento, anche costituzionale, per il trasferimento in capo al livello superiore delle competenze contrattuali per una maggior efficienza, intesa fondamentalmente come riduzione della spesa contrattuale.
Forse proprio l’esigenza di salvaguardare la competenza dei comuni ha, invece, frenato lo slancio dell’estensore del d.lgs. n. 201, dopo che la Corte costituzionale [11] ha sottolineato la stretta connessione e al contempo il distinguo, tra previsioni strettamente finalizzate alla concorrenza, di competenza statale, e previsioni inerenti la gestione e organizzazione dei servizi, di competenza regionale, e ricordato l’inevitabile rispetto del principio di leale collaborazione in base al quale la mancata concertazione con gli enti locali dà vita ad una lesione dell’autonomia riconosciuta e garantita dagli artt. 5 e 114 Cost.
Di conseguenza con il recente decreto si sposa, in generale per il settore dei servizi pubblici locali, la concezione per cui gli ambiti, derivanti da aggregazione di Comuni, rappresentino la corretta dimensione di territorializzazione per una buona prestazione del servizio, in grado di realizzarsi secondo modalità utili a promuovere la concorrenzialità nell’offerta e quindi ridurne il costo finale; tuttavia, la concezione favorevole alla concentrazione è accolta assai timidamente e le disposizioni contengono meri inviti gentili affinché gli enti locali si muovano in quella direzione, rinviando ad un sistema di incentivazione da definirsi con un decreto ministeriale, sui contenuti del quale si ragionerà nel prossimo paragrafo.
L’art. 5, rubricato Meccanismi di incentivazione delle aggregazioni, si limita, infatti, a fornire indicazioni generali non cogenti, prevedendo la mera possibilità che il comune capoluogo sia delegato dai comuni ricompresi nella città metropolitana all’esercizio delle funzioni in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica. La norma si concentra, dunque, solo sui territori in cui insistano le quattordici città metropolitane, mentre lascia completamente scoperte le aree, comunque significative nel nostro territorio, escluse da tale perimetro.
L’ambito ottimale non pare in ogni caso identificato in base ad un’indagine che tenga conto delle economie di scala e dei vantaggi derivanti in base a numeri di utenze o all’infrastruttura in uso e agli interventi per la manutenzione; nemmeno si rinvia ad analisi delle condizioni fisiche e geomorfologiche del territorio, della distribuzione della popolazione e degli altri fattori che incidono nella fornitura e nei costi dei servizi. Solo l’ultimo comma della disposizione fa salve le diverse scelte allocative proprie degli ATO e bacini nei servizi pubblici a rete già contenute nelle discipline di settore, scelte compiute istituendo nuovi soggetti, gli EGATO appunto, competenti per ambiti di dimensioni individuate sulla base delle esigenze funzionali alla prestazione del servizio. Così per l’idrico si considerano i bacini idrografici superficiali e sotterranei; per il traporto locale [12], oltre a specificarci che ATO e lotti di affidamento non sono necessariamente coincidenti, si indicano distinti criteri tra cui l’efficienza e l’unitarietà della rete, la domanda attuale e potenziale, aspetti di carattere socio-economico, le relazioni fra dimensioni dei bacini e costi amministrativi; anche per i rifiuti [13] sono stati precisati criteri che tengono conto del principio di prossimità dei centri di raccolta rispetto agli impianti di recupero e smaltimento, di autosufficienza, necessario per la riduzione della movimentazione dei rifiuti urbani ed assimilati e anche del trattamento delle gestioni preesistenti.
Per i servizi locali di rilevanza economica non compresi nei settori speciali, invece, forse anche per evitare l’inevitabile spesa pubblica legata all’istituzione di nuovi soggetti, in una riforma che deve essere a costo zero e semmai produttiva di risparmi, il decreto individua tra gli enti già esistenti la città metropolitana e il comune capoluogo come quelli con dimensioni più confacenti al bisogno aggregato. Si noti che già in passato attenta dottrina [14] precisava che “la connessione città metropolitana-servizio pubblico meriti di essere colta sotto l’aspetto del rapporto tra due materie normativamente instabili…” e certo non pare che da allora vi sia stata una evoluzione nell’esercizio delle competenze e delle funzioni delle città metropolitane tale da assicurare che l’area su cui insistono rappresenti la giusta dimensione, né il legislatore fornisce giustificazioni in merito.
In ogni caso l’eventuale delega dei comuni insistenti nell’area metropolitana viene fatta al comune capoluogo, e non alla città metropolitana, e tale scelta è utile a risolvere i contrasti e le controversie precedenti sulle forme e i modelli aggregativi da utilizzare per dar forma all’aggregazione [15]. La formulazione della norma, tuttavia, sembra ammettere che possano crearsi all’interno della medesima area di una città metropolitana più unioni di comuni e che quindi il comune capoluogo possa essere titolare di più di una delega o anche eventualmente di tante deleghe quanti sono i comuni. In quest’ultimo caso, senza necessità di accordi o convenzioni tra comuni, semplicemente i singoli comuni finirebbero di fatto per rinunciare alle proprie funzioni per delegarle al comune capoluogo che, sulla base delle deleghe ricevute, avrebbe il compito e l’onere di individuare le migliori soluzioni per la fornitura del servizio o, più verosimilmente, di diversi servizi integrati.
Si aggiunge poi, al comma 5, che restano salve le disposizioni in tema di forme associative tra enti locali per il governo dei servizi pubblici locali: saranno le regioni nella loro attività di riorganizzazione degli ambiti a individuare eventuali ulteriori modalità per superare anche attraverso aggregazioni volontarie l’assetto esistente. L’art. 9, come si accennava, prevede, codificando strumenti già diffusi [16], che le regioni possano avvalersi di agenzie e protocolli per la regolamentazione dei servizi pubblici locali, utili a sviluppare modelli di gestione che garantiscano l’efficienza.
Questo tipo di organizzazione del servizio stride, in parte, con la disciplina generale, introdotta agli artt. 12 e 14, che richiede agli enti locali nell’individuazione delle modalità di gestione del servizio la predisposizione di una relazione motivata, tanto più nel caso si tratti di servizi c.d. facoltativi, in quanto istituiti per scelta politica dell’ente locale e non già individuati dal legislatore come di sua competenza. Sembrerebbe, infatti, che la relazione implichi che la modalità di gestione individuata sia confacente in base a valutazioni concrete, anche tendendo conto di esperienze precedenti paragonabili, alle esigenze dei cittadini utenti. Dunque, se così è, l’aggregazione, ovvero la delega al comune capoluogo in un momento successivo, parrebbe ingiustificata o tale da rendere incongrua e non adeguatamente motivata la relazione precedente, con cui in via autonoma il singolo comune gestiva il servizio. Insomma, pare a chi scrive, che non ci sia alcun coordinamento tra le modalità indicate per il funzionamento ordinario nella gestione dei servizi e la disciplina di promozione delle aggregazioni e che proprio dalla scelta in favore dell’aggregazione sorgano nuovi oneri in capo al comune capoluogo delegato, anche in relazione alla redazione della relazione e alle relative scelte di gestione e affidamento.
Occorre, infine, sottolineare che l’art. 5 attribuisce un ruolo anche all’attività delle regioni, al comma 2, e delle province, al comma 4, pur nello specifico ambito dei soli servizi a rete, derogando in questo modo da quell’aspirazione a introdurre una disciplina generalizzata a tutti i servizi di interesse economico generale prestati a livello locale [17]. Sono le regioni, infatti, che incentivano, con il coinvolgimento degli enti locali, la riorganizzazione degli ambiti o bacini di riferimento dei servizi a rete, orientandola prevalentemente su scala regionale appunto. Tuttavia, se il legislatore al comma 1 considera ottimale area di riferimento quella della città metropolitana, non è chiaro perché poi il comma 2 orienti l’organizzazione “preferibilmente su scala regionale”. Questo tanto più ove si consideri che, si permette di ricordare ancora, trasporto locale, servizio idrico e gestione rifiuti sono esclusi.
Come già si è precisato, le incentivazioni alle aggregazioni vengono promosse con uno specifico decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, adottato lo scorso 28 aprile 2023, che, in base al dettato di legge, prevede misure senza nuovi o maggiori oneri bilancio.
Si ricordi che anche in passato il legislatore è intervenuto con incentivi, anche economici a carico del bilancio, al fine di promuovere la gestione associata dei servizi soprattutto tra gli enti locali di piccole dimensioni [18].
Anzitutto il decreto prevede che gli incentivi siano destinati agli enti locali che rispettino i livelli minimi nell’erogazione dei servizi obbligatori e che aderiscano o abbiano aderito alla riorganizzazione. Anche il comma 2 dell’art. 1 ribadisce che gli incentivi si applichino anche laddove già esistessero aggregazioni in ambiti territoriali, ma le stesse risultino potenziate “in misure superiore ai livelli minimi previsti per legge”. Condizione preliminare di accesso all’incentivo sembra essere, dunque, la precedente erogazione del servizio in aderenza agli standard minimi.
Il primo comma contiene l’elenco delle misure predisposte.
Si tratta anzitutto della destinazione di maggiori fondi ai soli comuni che scelgano di aggregarsi: non muta, tuttavia, la somma complessiva dei finanziamenti a carico del bilancio statale relativi al servizio oggetto di aggregazione, ma una parte delle risorse viene distribuita con questo criterio premiale. In realtà il D.M. si riferisce solo ad “un incremento percentuale” senza specificarne l’entità.
Si prevede inoltre la riserva fino al 10% nelle procedure di assegnazione delle risorse per attività di assistenza tecnica negli interventi relativi al PNRR, nel rispetto del principio di coesione sociale. Non si comprende se il principio comporti che la riserva non possa applicarsi laddove vi sia una concentrazione degli enti locali in alcune regioni del territorio, in quanto ciò contraddirebbe l’equità, ma anche in questo caso non sembra facile contabilizzare gli effetti concreti dell’incentivo. Allo stesso modo non pare poi così attrattivo e in grado di influire sulle scelte in favore delle aggregazioni il riconoscimento dell’accesso prioritario alle iniziative di supporto tecnico specialistico per il rafforzamento della capacità amministrativa degli enti locali, riconosciuto alla lett. d) del decreto, o la predisposizione di linee progettuali espressamente dedicate nell’ambito di iniziative di rafforzamento della capacità amministrativa, di cui alla lett. c).
Gli incentivi non sembrano rappresentare per il decisore politico, cioè il Sindaco e la Giunta del Comune chiamato a pronunciarsi in favore dell’aggregazione, argomenti da spendere con gli elettori perché toccano piuttosto l’organizzazione e il funzionamento della macchina amministrativa che, pur rappresentando un fattore importante nelle scelte dell’ente non è certo percepito, né può essere speso con la cittadinanza per giustificare di fatto la rinuncia alla funzione e la delega al comune capoluogo.
Forse più rilevante [19] la previsione di un incremento sino al 25% per un periodo non superiore a 36 mesi del limite di spesa per assunzione del personale e della possibilità di applicare disposizioni, diversamente non previste, su personale e assunzioni con contratto a termine e co.co.co.
Infine, al fine di promuovere le aggregazioni soprattutto in quelle realtà che avevano mostrato malfunzionamenti e inefficienze, supponendo ciò sia dovuto allo scorretto dimensionamento dell’area di erogazione del servizio, si prevede la possibilità del completo ripiano delle perdite di società preesistenti nel caso in cui il piano industriale del nuovo soggetto, derivante appunto dalla nuova aggregazione, evidenzi il recupero e sia in equilibrio nei tre anni successivi.
Non si tratta, dunque, del caso in cui, come si è ricordato, le nuove aggregazioni o singoli comuni indichino il comune capoluogo della città metropolitana come il soggetto delegato ad esercitare le funzioni, ma invece della diversa ipotesi in cui i comuni decidano di istituire, con le forme previste nel TUEL, un nuovo soggetto, un consorzio derivante dall’aggregazione. Il nuovo soggetto deriverebbe dall’unione di comuni, per la maggior parte poco virtuosi, posto che difficilmente vi sarebbe interesse a condividere con altri le proprie ricchezze in mancanza di promesse di consistenti finanziamenti – come invece è accaduto in passato. Difficile, quindi, immaginare che basti unire le forze per raggiungere il risultato, tanto più quando l’unione passa per colori politici e ostilità territoriale facilmente più diffuse a livello micro.
Insomma, il sistema di incentivi non sembra di per sé in grado di comportare la demunicipalizzazione dei servizi pubblici locali, in quanto le misure previste, assai meno significative di ben maggiori somme monetarie offerte in passato alle unioni, non sembrano sufficienti a smuovere enti locali tendenzialmente ostili ad assoggettarsi a forme di gestione espressioni di logiche diverse da quelle del territorio su cui incidono.
La legge delega contiene il riferimento all’industrializzazione dei servizi quale necessario momento di passaggio per realizzarne una più efficiente erogazione in un mercato concorrenziale.
L’art. 9 del d.lgs. n. 201 affida chiaramente alle regioni il compito di sostenere l’industrializzazione e la riduzione dei costi delle prestazioni per gli utenti, quali misure di coordinamento della finanza pubblica. Non è chiaro, anzitutto, come tale compito debba svolgersi tanto che il legislatore, quasi consapevole che le regioni non abbiano competenze a riguardo, prevede che la promozione avvenga attraverso la stipula di accordi e convenzioni con enti locali. E tuttavia l’industrializzazione dei servizi richiama una visione economica che è difficile da realizzare in concreto perché di nuovo la stipula di accordi e convenzioni con enti locali finisce per privilegiare o comunque ancora aggrapparsi in sostanza a definizioni di tipo politico amministrativo, che tendono a rispettare le dimensioni territoriali dei soggetti preesistenti o a dover mediare le esigenze degli stessi.
Il fenomeno delle aggregazioni tra comuni si lega senz’altro al tema della industrializzazione nella loro gestione, perché l’aggregazione territoriale, e l’economia di scala che si intende di conseguenza realizzare, comporta il crescere delle utenze, non più frammentate ma riunite nel nuovo soggetto ovvero presso il comune capoluogo delegato, così da suscitare anche l’interesse di grandi gruppi già esistenti ovvero in modo da spingere verso un altro tipo di aggregazioni, questa volta industriali, delle società che già forniscono i servizi.
Anzi, non si dimentichi che talora l’aggregazione per ambiti può divenire anche eccessivamente ampia ai fini della promozione della concorrenza nel mercato, tanto che gli affidamenti per il servizio possono poi essere suddivisi, previo parere di AGCM, in lotti, come prevede il comma 3 dell’art. 7 del d.lgs. n. 201.
Quanto alle operazioni societarie straordinarie [20], già si era osservata la lacuna esistente nella disciplina di riordino delle società pubbliche (di cui al d.lgs. n. 165/2017), manchevole appunto di previsioni generali sulla fusione societaria e con sole specifiche previsioni puntuali per alcuni aspetti, come in relazione all’atto deliberativo per l’acquisto di partecipazioni in società già costituite o alle limitate possibilità di ricorrere ad operazioni straordinarie per ripianare le perdite.
Stante l’esistenza della lacuna e posto che l’aggregazione tra comuni comporta verosimilmente che già siano in essere concessioni per l’erogazione del servizio nei diversi territori, non si trovano invece anche nel d.lgs. n. 201 né disposizioni che disciplinino il subingresso, la subconcessione ovvero la cessione del contratto concessorio, né previsioni in relazione alle possibili acquisizioni di società minori da parte di gruppi industriali.
La recente vicenda relativa alla gestione dei rifiuti nel comune di Lerici testimonia la complessità in concreto del passaggio della fornitura del servizio ad un nuovo soggetto, pure subentrante nel rapporto precedente [21].
In proposito l’art. 189 del nuovo dei Codice contratti pubblici (di cui al d.lgs. n. 36/2023) prevede tra i casi in cui le concessioni possono essere modificate senza una nuova procedura di aggiudicazione, alla lettera d), l’ipotesi per cui “… un nuovo concessionario sostituisce quello a cui l’ente concedente aveva inizialmente aggiudicato la concessione a causa di una delle seguenti circostanze:
1) la presenza di una clausola od opzione di revisione inequivocabile in conformità della lettera a);
2) al concessionario iniziale succeda, in via universale o parziale, a seguito di ristrutturazioni societarie, comprese rilevazioni, fusioni, acquisizione o insolvenza, un altro operatore economico che soddisfi i criteri di selezione qualitativa stabiliti inizialmente, purché ciò non implichi altre modifiche sostanziali al contratto e non sia finalizzato ad eludere l’applicazione della direttiva 2014/23/UE;
3) nel caso in cui l’ente concedente si assuma gli obblighi del concessionario principale nei confronti dei suoi subappaltatori, ove tale possibilità sia prevista dalla legislazione nazionale”.
La soluzione sembrerebbe quindi favorire processi di aggregazione e rendere più agili le operazioni legate ad assicurare la continuità dei servi erogati.
Nel complesso dalle considerazioni precedenti sembra potersi ricavare che i meccanismi di incentivazione delle aggregazioni, se rappresentano il segnale della necessità di un ripensamento dei centri decisionali e di spesa nell’erogazione di un servizio pubblico locale meno costoso per l’utente e la collettività, sembrano ancora piuttosto deboli per promuovere una nuova tendenza, che, se mai si svilupperà, sarà verosimilmente il frutto di valutazioni politiche altre, non derivanti dalla disciplina qui commentata, ma dalla lungimiranza degli amministratori.
[1] Per un commento alle disposizioni del decreto si veda R. Chieppa-G. Bruzzone-A. Moliterni (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, a cura di, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2023 e R. Villata (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, II ed., Giappichelli, Torino, 2023.
[2] Per un commento cfr. C. Sgaraglia, in R. Chieppa-G. Bruzzone-A. Moliterni (a cura di), in La riforma dei servizi pubblici locali, cit., p. 112 ss.
[3] Commentato da C. Colleli, M. Cherubini, in R. Chieppa-G. Bruzzone-A. Moliterni (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, cit., p. 154 ss.
[4] M. De Benedetto, Gli Ambiti territoriali ottimali e la programmazione locale. Il ruolo delle Autorità di bacino e degli Enti di governo d’ambito. I rapporti con l’Aeegsi, in Amministrazione in cammino 2017 e in Annuario di Diritto dell’Energia (Gse – Gestore Servizi Energetici), edizione 2017, Il regime dell’acqua e la regolazione dei servizi idrici, a cura di L. Carbone-G. Napolitano-A. Zoppini, Bologna, Il Mulino, reperibile anche su Amministrazione In Cammino.
[5] Ad esempio, in relazione al servizio idrico R. Romano, I servizi idrici italiani. Quale relazione tra performance e modelli di governance, Milano, 2013.
[6] Corte Cost. 4 marzo 2019, n. 33.
[7] Sul servizio idrico integrato e sulle modalità di gestione cfr. S. Aru, La gestione del servizio idrico tra Europa, Stato, Regioni e volontà popolare, in Federalismi, 2019.
[8] M. Passalacqua, La regolazione amministrativa degli ATO per la gestione dei servizi pubblici locali a rete, in Federalismi (2016) illustra l’evoluzione dell’applicazione dell’ATO, dal settore sanitario sino ai servi pubblici con riflessioni anche in relazione anche in merito all’efficienza mediante l’imposizione di costi standard.
[9] C. Feliziani, in Il servizio pubblico verso la (ri)scoperta dei principi di adeguatezza, differenziazione e autonomia. Il caso della gestione dei rifiuti in Italia e in Inghilterra, in Riv. ita. dir. pubbl. com., 2015, p. 845 e La gestione dei rifiuti in Europa: un’analisi comparata, in Federalismi 26 luglio 2017, ricorda che circa il 95% della popolazione francese vive in un comune che ha trasferito le proprie competenze in materia di rifiuti a una struttura intercomunale e che questo spostamento massiccio di competenze dai comuni a strutture intercomunali ha comportato il riconoscimento di più del 75% della tassa sulla raccolta dei rifiuti domestici in capo a queste ultime, mentre i comuni non ne percepiscono che il 20%, invertendo completamente la proporzione rispetto al passato.
[10] In merito G. M. Racca-S. Ponzio, La scelta del contraente come funzione pubblica: i modelli organizzativi per l’aggregazione dei contratti pubblici, in Dir. amm. 2019, p. 33 ss.
[11] Corte cost. 25 novembre 2016, n. 251 e più specificamente in tema di ATO Corte cost.11 febbraio 2014, n. 22.
[12] In base alle Linee guida per la delimitazione degli ambiti territoriali ottimali nel settore trasporto pubblico locale e regionale, contenute nella Convenzione tra Dipartimento Affari Regionali e Invitalia del 20 ottobre 2010. Per un commento all’art. 32 del d.lgs. n.201/2022 e una riflessione sulle modalità di gestione del trasporto pubblico locale si rinvia a L. Bertonazzi, Modalità di gestione del trasporto pubblico locale, in La riforma dei servizi pubblici locali. Aggiornato al d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201, a cura di R. Villata. Torino 2023, p. 331 ss.
[13] In base alle Linee guida per la delimitazione degli ambiti territoriali ottimali nel settore rifiuti, contenute in una Convenzione, analoga a quella citata per il trasporto locale, tra Dipartimento Affari Regionali e Invitalia del 20 ottobre 2010.
[14] F. Liguori, I modelli organizzativi e gestionali dei servizi metropolitani: prime considerazioni, in Munus 2014, p. 445.
[15] In merito S. Valaguzza, Gli affidamenti a terzi e a società miste, in La riforma dei servizi pubblici locali. Aggiornato al d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201, a cura di R. Villata, cit., p. 71 ss.
[16] In questo senso C. Colleli-M. Cherubini, op. cit., p. 158.
[17] Per ulteriori osservazioni se si vuole M. Delsignore, L’ambito di applicazione: i servizi pubblici locali di rilevanza economica, in, La riforma dei servizi pubblici locali, a cura di R. Villata, cit., p. 1 ss.
[18] In merito M. Passalacqua, La regolazione amministrativa degli ATO per la gestione dei servizi pubblici locali a rete, cit., in particolare, p. 29 ss.
[19] Nel senso della rilevanza si esprime C. Sgaraglia, cit., p. 116.
[20] Per alcune riflessioni in merito, prima della recente riforma, cfr. M. Passalacqua, Il gruppo economico controllato da ente pubblico e il difficile percorso di aggregazione di società di servizi pubblici locali a retei, in Amministrazione in cammino (2016).
[21] Ci si riferisce alla sentenza Cons. Stato, sez. IV, 20 novembre 2023, n. 9933, che decide una vicenda intricata in cui è stata sollevata anche questione incidentale di cui alla sentenza Corte di giustizia 12 maggio 2022 C-719/20.