In occasione del trentesimo anniversario della legge antitrust nazionale italiana, l’a. espone una propria valutazione complessiva dell’azione svolta dall’autorità nazionale, cioè dell’esperienza di public enforcement delle norme antitrust in Italia. Secondo l’a., l’esperienza è complessivamente positiva: le norme sono correntemente applicate in modo puntuale e integrale e su di esse si è costruita una ricca esperienza, che fornisce alle imprese un apprezzabile grado di certezza giuridica sulla portata dei divieti antitrust. Inoltre, l’Autorità ha ben curato la propria indipendenza e la propria reputazione.
L’a. nota però anche alcune criticità. I 30 anni di applicazione della legge antitrust nazionale hanno coinciso con un lungo e perdurante periodo di stagnazione dell’economia italiana. L’Autorità ha sempre manifestato preoccupazione per questo fatto, ma ha sempre affermato che la chiave decisiva dello sviluppo è costituita dalla deregulation dei mercati, accompagnata da un’applicazione vigorosa delle norme antitrust. Questa analisi non sembra soddisfacente, perché politiche di deregulation sono state attuate in Italia, ma non hanno portato ad una ripresa della crescita economica.
Un altro punto critico dell’esperienza antitrust italiana è costituito, secondo l’a., dall’eccessiva quantità di contenziosi e da un contrasto fra Autorità e giudici amministrativi in ordine agli standard probatori richiesti per l’accertamento delle infrazioni e sui criteri di calcolo delle sanzioni pecuniarie.
On the 30th anniversary of the Italian Antitrust Act, the a. makes his own assessment of the activity of the Italian Competition Authority and, in general, of the state of antitrust public enforcement in Italy. According to L., the balance of this experience is overall positive: antitrust rules are currently applied in a precise and comprehensive way and a significant decisional practice has been consolidated, providing undertakings with a remarkable level of certainty concerning the scope of antitrust infringements. Moreover, the Authority took good care of its own independence and reputation.
However, the a. equally identifies some critical points. The thirty-year period during which the Italian Antitrust Act has been in force coincided with a long time of stagnation of the Italian economy. The National Competition Authority showed constant worries in this respect, repeatedly asserting that the key points needed to overcome similar crisis are deregulation of the markets and a vigorous application of antitrust rules. This analysis seems incomplete, because many deregulation measures, adopted by Italian State, did not lead to a new trend of economic growth.
Another critical point of the Italian antitrust experience is, according to L., the excessive level of litigation, fostered by a contrast between the Authority and the administrative judges about the standard of evidence for antitrust infringements and the criteria relating to the amount of fines.
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1. Premessa - 2. I precedenti anniversari: il primo decennale - 3. Il secondo decennale - 4. I risultati positivi dell'esperienza applicativa della legge antitrust italiana - 5. Indipendenza ed efficienza dell'Autorità - 6. Antitrust e sviluppo economico - 7. L'applicazione delle norme antitrust in situazioni di crisi economica - 8. Il sindacato giudiziario sui provvedimenti dell'Autorità - 9. Il procedimento dinnanzi all'Autorità - 10. L'AGCM come autorità amministrativa - NOTE
Gli anniversari, soprattutto quando hanno una consistenza significativa, come quello che si celebra il 10 ottobre con riferimento alla legge antitrust nazionale (legge n. 287/1990), inducono sempre a formulare bilanci. Quello che qui tenteremo si concentrerà sul versante del public enforcement della legge antitrust nazionale, e quindi sull’attività svolta dall’Autorità nazionale di concorrenza. Non ci occuperemo dunque dell’altro capitolo del diritto della concorrenza, cioè quello del private enforcement, che ha avuto una storia ricca e molto interessante, nell’esperienza italiana, ma ha anche avuto un peso inferiore, in una prospettiva di bilancio complessivo sull’applicazione della legge n. 287.
L’occasione attuale fa venire alla mente i primi bilanci, che furono formulati in occasione del decennale della legge (2000), in un convegno celebrativo organizzato allora dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
In quell’occasione, Francesco Silva, dopo avere svolto un accurato bilancio economico dei primi dieci anni di applicazione della legge, concludeva affermando che “nel 1990 nacque un’istituzione che ha mostrato di essere capace di fare di più e meglio di quanto previsto” [1]. Osservava infatti che l’Autorità aveva dato una efficace spinta all’avvio del processo di liberalizzazione dei mercati italiani, pur dovendo confrontarsi con un ambiente imprenditoriale tendenzialmente ostile (così come era stato durante i lavori preparatori della legge) e con decisori politici sempre tentati da “una forte pulsione a controllare, regolare, concedere”.
Su un piano propositivo, Silva notava peraltro l’opportunità di una più approfondita analisi economica dei mercati, da parte dell’Autorità e, in generale, di un uso più intenso dell’analisi economica, sia nella fase della definizione dei mercati rilevanti, sia in quella della determinazione di rimedi appropriati. Notava altresì l’esigenza che l’Autorità allargasse il proprio raggio d’azione, indicando con molta lungimiranza, come filoni di futuro intervento, quello dei rapporti tra antitrust e proprietà intellettuale e quello delle pubbliche gare.
In quella stessa sede, svolgendo un bilancio nella prospettiva di giurista [2], notavo anch’io che la legge n. 287 rappresentava una svolta radicale nel sistema giuridico italiano, che fino a quel momento si era mostrato ben poco sensibile al tema della tutela della concorrenza fra imprese [3]; e tuttavia, aggiungevo, “il fatto che l’Autorità sia stata tempestivamente costituita, abbia cominciato immediatamente ad operare, ed abbia conquistato, nel giro di pochi anni, notevole prestigio, dimostra (spero che l’argomento non appaia semplicistico) che una disciplina antitrust rispondeva e risponde a bisogni reali dell’economia e della società italiane ed è anche – in linea di massima – culturalmente accettata”.
In questa prospettiva, un ruolo importante era da attribuire alla felice scelta del legislatore italiano di appoggiare interamente la disciplina sostanziale interna su quella antitrust comunitaria, a quel tempo già consolidata da quasi mezzo secolo di applicazione. Su questa base si era costruita un’esperienza di attuazione immediata ed incisiva della legge antitrust nazionale, nelle sue diverse componenti: dall’attività repressiva di intese ed abusi di posizione dominante, al controllo delle concentrazioni, all’attività di advocacy, che l’Autorità aveva sin dall’inizio esercitato con impegno.
Pertanto, venti anni fa concludevo auspicando un rafforzamento, mediante interventi legislativi, dei poteri dell’Autorità, con l’attribuzione di poteri cautelari (allora non previsti) e della legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale e adire il giudice amministrativo per l’annullamento di regolamenti e atti amministrativi a contenuto generale, contrastanti con il principio di tutela della concorrenza.
Il problema principale, venti anni fa, non sembrava dunque quello di intervenire in modo sostanziale sulla legge n. 287 o di correggere questo o quell’orientamento dell’Autorità [4], perché la legge e la sua applicazione amministrativa avevano funzionato abbastanza bene. Il problema principale appariva piuttosto quello di far penetrare il principio di tutela della concorrenza in tutti i livelli dell’ordinamento italiano, superando manifestazioni di insensibilità che ancora si ravvisavano, e nella giurisprudenza costituzionale e in quella ordinaria.
Su questo piano può riconoscersi che il quadro complessivo è oggi cambiato. La tutela della concorrenza è entrata direttamente in Costituzione, con la riforma del titolo V nel 2001. Su questa base si è formata, nella giurisprudenza costituzionale, una casistica molto ricca, che però si è concentrata sul problema del riparto di competenze fra Stato e Regioni, con la tendenza della Corte a dilatare la nozione di “tutela della concorrenza”, fino a comprendervi qualsiasi forma di regolazione dei mercati [5]; mentre è rimasto nell’ombra, nella giurisprudenza costituzionale, il tema della definizione della concorrenza come bene giuridico meritevole di tutela e si è riprodotto l’antico modulo che riconosce allo Stato una amplissima discrezionalità politica nel dettare discipline di regolazione dei mercati [6].
Per altro verso, può notarsi che la tutela della concorrenza è ormai penetrata stabilmente, come criterio sostanziale di valutazione della legittimità di provvedimenti amministrativi, nella giurisprudenza amministrativa [7] (probabilmente anche per effetto dell’attribuzione all’AGCM – non ancora prevista nel 2000 – della legittimazione ad impugnare atti amministrativi lesivi della concorrenza [8]).
Sempre in una prospettiva rievocativa, è interessante notare come, nel secondo decennale di vita dell’Autorità, quest’ultima abbia promosso una celebrazione più impegnativa, promuovendo la pubblicazione di un’opera in due volumi [9], con i contributi di 77 autori (giuristi ed economisti), in cui tutti i vari profili dell’attività dell’AGCM erano esaminati, dalle premesse teoriche ai problemi applicativi di singoli aspetti della disciplina.
Questo modo di celebrare la ricorrenza testimonia il consolidamento, in capo all’Autorità, di un ruolo di primo piano, generalmente riconosciuto, nel panorama istituzionale ed economico italiano.
A conferma di ciò, il compito di tracciare bilanci generali dell’attività dell’Autorità fu affidato, nella pubblicazione celebrativa, agli stessi presidenti che si erano succeduti nella guida dell’Autorità (Amato, Tesauro, Catricalà). Scelta interessante [10], dalla quale traspaiono anche differenze di ispirazione nell’azione dei diversi presidenti, con la rivendicazione, da parte del presidente allora in carica (Catricalà), con implicito dissenso degli altri, della centralità data alla conclusione dei procedimenti con impegni delle imprese, in quanto idonea al conseguimento, in tempi rapidi, di risultati effettivi, utili per la collettività, di migliore funzionamento dei mercati. Questo tema, con l’alternativa fra un’autorità antitrust come “amministrazione di risultati” e un’autorità avente funzione “paragiurisdizionale”, percorre, in effetti, tutta la storia dell’autorità antitrust italiana. L’alternativa non può dirsi ancora risolta. Sul punto torneremo alla fine di questo intervento. Si può dire però, senz’altro, che questa alternativa si poneva, e si pone, all’interno di un quadro di riconosciuta necessità della presenza della normativa antitrust e del ruolo essenziale dell’AGCM nel panorama istituzionale italiano.
Al di fuori delle celebrazioni ufficiali, il ventennale diede occasione anche ad altri contributi alla valutazione dell’esperienza dell’antitrust italiano. Uno particolarmente interessante, anche perché proveniente da due dirigenti dell’AGCM [11], metteva in luce alcuni profili di fragilità di questa esperienza, per il difficile innesto delle politiche di tutela della concorrenza in un contesto culturale e istituzionale che continuava a manifestare diffidenza per il valore della competizione, e per l’impatto della crisi finanziaria, che, secondo gli autori, avrebbe richiesto non un allentamento, ma un rilancio degli interventi antitrust (sia pure accompagnati da politiche sociali di emergenza), volti a compensare, nell’immediato, le categorie sociali risultate perdenti nella dinamica dei mercati.
Fra i bilanci del ventennale dell’Autorità, si deve registrare anche un’autorevole voce dissenziente (Di Cataldo) [12], che rilevava alcune criticità importanti: (i) la discrezionalità (ritenuta eccessiva) dell’Autorità nel decidere se avviare o no i procedimenti sanzionatori; discrezionalità neanche temperata da una trasparente indicazione pubblica di programmi di priorità; (ii) l’eccessiva discrezionalità e opacità dei criteri di ammissione dei provvedimenti di archiviazione con impegni; (iii) l’insufficienza del sindacato giudiziario “debole” sugli atti dell’Autorità, da parte del giudice amministrativo; (iv) la dilatazione progressiva delle competenze dell’AGCM; (v) l’irrazionalità delle regole di finanziamento dell’Autorità.
Nonostante queste critiche (alcune delle quali sono oggi superate da norme e fatti successivi; su altre si tornerà più avanti), D.C. riconosceva comunque che l’Autorità “ha svolto un ruolo di enorme importanza, ed ha contribuito in misura eccellente allo svecchiamento del nostro sistema economico, effettuando una sana e forte pulizia delle molte incrostazioni che lo affliggevano”.
Passando ora al trentesimo anniversario, che matura in questi giorni, e che non sarà solennizzato come i precedenti per via dell’emergenza sanitaria, penso che i bilanci saranno numerosi, anche se non organizzati in modo sistematico. Quello che qui si presenta è un primo, rapido tentativo.
Possiamo anzitutto confermare, a distanza di tempo, le notazioni positive formulate alla fine del primo decennio.
La legge n. 287 costituisce un esempio positivo di legge attuata rapidamente e nella sua interezza (con l’eccezione dell’art. 25, su cui torneremo, che però è rimasto inattuato per scelta del Governo e non per inerzia dell’Autorità).
È sicuro merito dei decisori politici del tempo quello di avere nominato, come componenti della nuova autorità indipendente, persone autorevoli ed esperte; ed è sicuro merito dell’Autorità preposta all’applicazione della legge quello di avere utilizzato immediatamente e con impegno tutti gli strumenti previsti nella legge stessa (così come è accaduto poi per le tante competenze ulteriori attribuite all’Autorità negli anni successivi alla sua istituzione). Il prestigio, che l’Autorità aveva rapidamente acquisito già nel primo decennio, è stato mantenuto.
Questo risultato non era scontato. E’ noto che non tutte le autorità indipendenti nazionali hanno operato con la stessa efficacia. In questa prospettiva, un’autorità di concorrenza, anche perché chiamata a compiti assolutamente nuovi sul piano dell’esperienza amministrativa, correva il rischio di rimanere un corpo estraneo nel sistema istituzionale italiano, chiamato a presidiare una legge che sarebbe potuta rimanere scarsamente rispettata nella pratica. Questi rischi sono stati superati, e ciò va certamente a merito delle persone chiamate a gestire l’Autorità, come pure al fatto che la materia dell’antitrust è stata ed è presidiata da una schiera di studiosi e professionisti, spesso specializzati, economisti e giuristi; ciò fa sì che quello dell’antitrust sia un settore culturalmente “forte” e professionalmente strutturato, e questo fatto fornisce un importante supporto all’attività amministrativa svolta dall’Autorità.
Tra i meriti dell’Autorità c’è stato anche quello di inserirsi attivamente in questo circuito culturale, mediante l’organizzazione frequente di convegni e seminari e poi – dal 2015 – con la pubblicazione di una rivista telematica specializzata (Italian Antitrust Review) [13]. Ancor più importante, per altri aspetti, è stata la capacità dell’Autorità di partecipare attivamente alla cooperazione internazionale fra autorità di concorrenza, prima nell’ECN (European Competition Network) e poi promuovendo la costituzione dell’International Competition Network, di cui ha ospitato il primo congresso annuale (Napoli, settembre 2002).
In questo quadro, l’Autorità italiana ha comunque tenuto un atteggiamento prudente, evitando di prendere una posizione netta nel dibattito – che ha accompagnato, sostanzialmente, l’intero trentennio della sua attività – tra l’approccio strettamente economico, che attribuisce all’antitrust il compito esclusivo di tutelare l’efficienza dei mercati, e l’approccio più “politico”, che attribuisce all’antitrust soprattutto il compito di contenere e contrastare le posizioni di potere economico privato.
Tra i lati positivi dell’esperienza antitrust italiana può ascriversi anche la capacità di costruire un solido quadro giuridico della materia (sulla base, giustamente voluta dal legislatore, di una stretta adesione alle norme dell’antitrust europeo). Ciò ha consentito, nel dialogo fra Autorità e giudici amministrativi, di fissare diversi punti fermi, essenziali per l’operatività della disciplina, che potevano però apparire non scontati trent’anni fa: si pensi, per esempio, all’applicazione delle norme di concorrenza alle professioni intellettuali e alle imprese pubbliche, al fatto che la stipulazione di contratti legalmente tipici non costituisce esimente rispetto al dovere di rispettare le norme antitrust, alla costruzione sostanzialistica delle fattispecie di illecito antitrust (ad esempio il fatto che un’intesa non richieda manifestazioni di volontà dei rappresentanti legali delle imprese interessate [14]).
Punti fermi sono stati segnati anche sul piano della prova delle infrazioni ai divieti antitrust: il maturare della consapevolezza su esistenza e portata dei divieti antitrust porta le imprese a dissimulare sempre più abilmente le pratiche di cartello, e perciò si è ammesso che la prova delle intese sia normalmente indiziaria e possa essere fondata anche su pochi indizi, purché gravi, precisi e concordanti: in relazione a ciò si è precisata la distinzione fra indizi “esogeni” (i.e. diretti, cioè contatti e scambi di informazioni fra imprese), che possono essere superati dall’impresa solo mediante una prova contraria piena, e indizi “endogeni” (cioè indiretti, consistenti nella irrazionalità aziendale di un certa condotta, spiegabile come momento attuativo di un’intesa anticoncorrenziale segreta), che possono essere superati con una qualsiasi diversa, plausibile spiegazione della condotta medesima.
L’esperienza applicativa dell’antitrust italiano può essere apprezzata anche per alcuni tratti di originalità (non mai, comunque, di contrasto con gli indirizzi dell’antitrust europeo). Così va ricordata la rivalutazione della norma sul divieto di abuso “di sfruttamento”, consistente nella pratica di prezzi ingiustificatamente gravosi, come pure la costruzione, abbastanza originale, dell’ipotesi di abuso attuato mediante il ricorso strategico a strumenti giudiziari ed amministrativi (pur singolarmente qualificabili come atti di esercizio di un diritto) tesi ad ostacolare l’attività del concorrente.
Un altro punto positivo può vedersi nella capacità di valorizzare le competenze in materia di pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevole: l’Autorità ha giustamente considerato la tutela della libertà di scelta del consumatore come parte integrante del modello di buon funzionamento dei mercati, che l’Autorità stessa è chiamata a presidiare, ed ha applicato le norme in questione con severità, pur essendo limitata dal dato normativo che prevede massimi edittali di sanzione ancora relativamente bassi [15]. A mio parere, il collegamento sistematico fra disciplina antitrust e disciplina delle pratiche commerciali scorrette potrebbe essere anche rafforzato: spesso è accaduto che l’Autorità abbia sanzionato pratiche commerciali scorrette parallele, in certi mercati, senza osare di ipotizzare, in questi casi, una collusione tacita ma consapevole, tale da legittimare l’applicazione del divieto antitrust di pratiche concordate [16].
Più articolato può essere il giudizio sulla capacità dell’Autorità di svolgere una approfondita analisi economica sul funzionamento dei mercati (tema che, come sopra si è ricordato, era stato sollevato da Silva già dopo il primo decennio). Da un lato, si nota una apprezzabile capacità di attenzione verso i problemi della new economy [17]. Dall’altro, si nota una tendenza dell’Autorità a valutare la concorrenzialità dei mercati soprattutto sulla base della presenza o meno di barriere all’ingresso di nuove imprese, senza dare molto rilievo ad altri fattori, spesso anche più importanti. Così è accaduto che l’Autorità abbia lamentato la presenza di barriere all’entrata in mercati (come i servizi postali tradizionali, le sale cinematografiche, gli sportelli bancari, le agenzie di viaggio o le edicole per la vendita di giornali) che nel frattempo erano entrati in crisi spontanea, talora anche con pericolo di estinzione. Più in generale, l’Autorità non ha mai definito un metodo di analisi e di approccio ai problemi delle crisi settoriali, assumendo l’irrilevanza di tali situazioni a fini dell’applicazione delle norme antitrust; si è così accettato che questi fenomeni siano affrontati esclusivamente in sede politica, con misure di carattere pubblicistico, cioè soprattutto con aiuti di Stato, mettendo al bando la possibilità di accordi transitori fra operatori, magari previamente valutati dall’autorità antitrust.
Anche in altri casi (per esempio: servizi professionali, taxi, diritti di trasmissione degli spettacoli sportivi), l’Autorità è sembrata propendere per una liberalizzazione tout court dei mercati, laddove avrebbe potuto meglio considerare che certi mercati presentano caratteristiche strutturali che richiedono comunque una regolazione correttiva di tendenze involutive spontanee, sicché il problema – in questi casi – è quello della migliore regolazione, non quello della liberalizzazione pura e semplice.
Più in generale, sembra essere mancata finora una compiuta valutazione ex post degli effetti dei provvedimenti sanzionatori sui mercati in cui tali provvedimenti hanno inciso. Questa valutazione dovrebbe essere un momento essenziale dell’attività dell’Autorità: se si dovesse scoprire che l’andamento di un certo mercato non si è modificato in meglio, dopo che l’Autorità ha sanzionato un certo cartello o una certa condotta abusiva, questo sarebbe un segnale preoccupante di inefficacia del public enforcement antitrust italiano. L’Autorità ha, in effetti, mostrato sensibilità sul punto, tanto da annunziare, nella relazione per l’anno 2011 [18], la costituzione di un apposito ufficio preposto al relativo controllo. Il compito è stato attribuito ad un “Comitato per le valutazioni economiche”, incaricato, fra l’altro, di svolgere “attività di monitoraggio e valutazione degli effetti complessivi di tutti gli interventi dell’Autorità in materia di tutela e promozione della concorrenza e di tutela del consumatore (enforcement e advocacy) in un determinato arco temporale”. Tuttavia, mentre i dati sul “monitoraggio advocacy” sono riportati sul sito dell’Autorità, i dati sul “monitoraggio enforcement” finora mancano.
Per concludere queste rapide osservazioni sui risultati positivi dell’esperienza dell’antitrust italiano, si deve riconoscere che l’Autorità di concorrenza nazionale ha sempre difeso bene la propria indipendenza rispetto al potere politico, soprattutto con un esercizio frequente e critico della facoltà di segnalazione (spesso rimasta inascoltata, peraltro, dai decisori politici).
Com’è noto, la legge antitrust nazionale prevede (art. 25) una sola possibilità di interferenza dei poteri del Governo sulle competenze dell’Autorità. La norma sembra prevedere non una semplice facoltà, ma un vero e proprio potere/dovere del Governo di emanare un atto di indirizzo sulla valutazione delle operazioni di concentrazione [19]; nei primi anni di vita l’Autorità, per correttezza istituzionale, ha anche sollecitato il Governo a fornire questi indirizzi [20], ma il Governo non ha mai provveduto. Invece, quando si è avvertita l’esigenza politica di derogare alle ordinarie regole sulle operazioni di concentrazione, il Governo ha preferito usare lo strumento del decreto-legge. Ciò è avvenuto con il “caso Alitalia” del 2008 (d.l. 28 agosto 2008, n. 134, conv. con legge 27 ottobre 2008, n. 166) e, più di recente, con i provvedimenti relativi alle “banche venete” (d.l. 25 giugno 2017, n. 99, conv. con legge 31 luglio 2017, n. 121) [21]. Da ultimo, per via dell’emergenza sanitaria, sono state disposte deroghe molto più ampie: un’autorizzazione ex lege piena per le concentrazioni attuate nell’ambito della soluzione di crisi bancarie (art. 171, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, conv. con legge 17 luglio 2020, n. 177) ed una, più generale, autorizzazione ex lege, attenuata dal potere dell’Autorità di disporre remedies, per le concentrazioni che riguardino imprese ad alta intensità di manodopera o di interesse economico generale (art. 75, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, conv. con legge 13 ottobre 2020, n. 126, relativo alle operazioni di concentrazione a salvaguardia della continuità d’impresa, effettuate entro il 31 dicembre 2020).
Sembra dunque chiara la scelta governativa di non avvalersi dello strumento previsto dall’art. 25 della legge n. 287, che avrebbe dato luogo ad un atto amministrativo soggetto a sindacato giudiziario, e di derogare alle norme antitrust con interventi legislativi ad hoc (leggi-provvedimento o, nel caso più recente, misure generali di carattere transitorio). Questa scelta potrebbe anche essere letta come implicito riconoscimento della necessità di una fonte primaria, per intervenire sulle competenze di un’autorità indipendente come quella antitrust, e quindi di come un’implicita ammissione di dubbia legittimità costituzionale dell’art. 25, legge n. 287/1990.
A parte l’affermazione di indipendenza nei confronti del potere politico, si deve rimarcare che l’azione dell’Autorità, in tre decenni di vita, non ha mai dato luogo a sospetti di parzialità o scorrettezze o di “cattura” da parte di interessi precostituiti. Neanche questo risultato si poteva dire scontato, nel panorama italiano.
Deve anche riconoscersi un buon livello di efficienza organizzativa: non c’è stato incremento pletorico del personale, malgrado la crescita, talora irrazionale, dei compiti attribuiti all’Autorità dal legislatore (si pensi alle norme sul conflitto d’interessi o al discutibile “rating di legalità”); si è adottata una spending review volontaria; si sono adottate anche, quando ritenuto necessario, ristrutturazioni organizzative importanti.
L’AGCM è dunque certamente ormai una presenza solida, nel panorama istituzionale italiano. Ciò non toglie, tuttavia, che sussistano alcune importanti criticità, che meritano di essere segnalate.
La prima tocca – a mio avviso – le finalità stesse della legge 287 e dell’azione dell’Autorità. L’approvazione di una legge antitrust nazionale fu vissuta, 30 anni fa, come un fatto di ammodernamento dell’ordinamento nazionale, che avrebbe dovuto contribuire a dare maggiore slancio al sistema economico italiano.
Purtroppo, però, la vigenza della legge ha coinciso con l’inizio, e poi con la permanenza, di un declino economico del Paese, che ancor oggi non sembra manifestare segni di inversione di tendenza. E tutto ciò a differenza dei decenni precedenti, che si è soliti descrivere come protezionisti, corporativi e caratterizzati da un eccessivo intervento pubblico in economia, e che tuttavia segnarono una imponente crescita dell’economia nazionale. Sarebbe poco serio ragionare in termini di “post hoc, ergo propter hoc”; ciò che si può riconoscere, però, è che la legge antitrust nazionale, adottata in un momento storico in cui i “Trenta gloriosi” anni del dopoguerra erano da poco trascorsi e il mondo si avviava verso una ubriacatura liberista, non sembra aver contribuito a dare grande impulso allo sviluppo economico italiano: in questo trentennio il Paese, anche nei momenti di migliore congiuntura internazionale, è rimasto permanentemente indietro rispetto ai principali partner europei, per non parlare del contesto competitivo mondiale.
L’Autorità ha mostrato ben presto consapevolezza e preoccupazione per questo fatto. Se ne parla per la prima volta nella relazione per l’anno 1993 e il tema ricorre poi, pressoché costantemente, nelle relazioni del quindicennio successivo, per tornare anche, se pure occasionalmente e in modo più articolato, negli anni più recenti [22]. Per tutto questo tempo, la valutazione del fenomeno, da parte dell’Autorità, è stata lineare e costante: il declino economico del Paese è stato imputato alla insufficiente concorrenzialità del sistema economico, e questa, a sua volta, alla permanenza di troppe norme di regolazione dei mercati limitative della concorrenza. La via maestra, per superare la situazione, è stata dunque indicata nelle riforme legislative di liberalizzazione dei mercati, con la convinzione che la concorrenza fra imprese sia il motore principale della crescita.
La linea indicata dall’Autorità (la deregulation come via maestra per lo sviluppo), per diversi anni – anche sulla scia di un trend mondiale di favore per il libero mercato – è stata, in effetti, assecondata dal legislatore italiano. Dopo le privatizzazioni degli anni ’90 (che l’Autorità ha spesso criticato perché non accompagnate da contestuali misure di liberalizzazione), un forte processo di liberalizzazione, che ha investito diverse tradizionali regolazioni dei mercati, si è avuto con una serie di interventi; in questo ciclo si può prendere come inizio il d.l. n. 223/2006 (il primo “decreto Bersani”), come acme (in via astratta) la legge n. 99/2009, che istituisce la legge annuale per il mercato e la concorrenza (credo che si tratti di una figura unica, a livello mondiale) e come punto di approdo il d.l. n. 1/2012. Si tratta di un ciclo che si realizza in continuità, pur nel succedersi di governi diversi (Prodi, Berlusconi, Monti) e in qualche modo (si pensi alle misure legislative in materia di lavoro e di società pubbliche) continua con il successivo governo Renzi.
L’Autorità ha accompagnato questo processo con soddisfazione. Tuttavia, ha dovuto ben presto constatare che le misure di liberalizzazione non portavano, almeno nell’immediato, all’effetto sperato di crescita dell’economia nazionale. Si ha anche l’impressione che, sulla via delle liberalizzazioni, non ci siano misure decisive da proporre. La riduzione di barriere all’ingresso di determinate attività (dalla produzione di energia elettrica alla distribuzione commerciale) non determina automaticamente sviluppo di iniziative nei relativi mercati; lo stesso per l’abolizione di alcune misure restrittive (p.e. le tariffe obbligatorie e i divieti di pubblicità nelle professioni).
Si avverte così che il sistema italiano non è frenato solo da regolazioni amministrative antiquate, che limitano l’iniziativa imprenditoriale. L’analisi del declino economico perciò si affina, successivamente: alla indicazione di principio “liberistica”, che pur non viene mai abbandonata, si affianca – a cominciare dalla Relazione dell’Autorità per l’anno 2011 – la considerazione delle condizioni generali di competitività del sistema economico italiano (in particolare sull’inefficienza degli apparati amministrativi e giudiziari [23]).
Questa linea di analisi, certamente corretta [24], porta con sé, però, anche il rischio di un ridimensionamento del ruolo sistemico delle politiche antitrust, con il riconoscimento di un peso limitato della tutela della concorrenza, in un quadro di sostegno dello sviluppo economico. Ciò spiega, probabilmente, la piega presa, più di recente [25], da parte dell’Autorità, consistente in una ricostruzione del proprio ruolo non in termini di tutela dell’efficienza dei mercati, quanto piuttosto in termini di giustizia distributiva: si è così propugnato – a fronte del riconoscimento di un perdurante ristagno economico – un “ritorno alle origini” delle politiche antitrust, con il fine di contrastare quanto più possibile la crescita di potere economico privato [26]; nella stessa prospettiva, si è anche teorizzata una strategia di incremento delle sanzioni applicate dall’Autorità antitrust, come misura di contrasto della crescita delle diseguaglianze e dei profitti monopolistici [27].
Queste linee di azione risultano, peraltro, attenuate nell’ultima Relazione dell’Autorità (riferita all’anno 2019 e pubblicata nel 2020). Qui l’Autorità constata, con preoccupazione ma anche con realismo, l’espandersi di misure dirigistiche e protezionistiche, indotte dall’emergenza sanitaria. Per quanto poi attiene alla debolezza dell’economia italiana nel contesto internazionale, la Relazione correttamente delinea una pluralità di fattori a cui tale situazione è imputabile (ipertrofia normativa, lentezza della giustizia civile e commerciale, oneri burocratici, inefficienza del sistema amministrativa), ma poi continua nell’attribuire un ruolo centrale all’ “esigenza di eliminare le regolazioni che comportano oneri e vincoli eccessivi”.
Questa linea di analisi dei rapporti tra politiche della concorrenza e sviluppo economico suscita, a mio avviso, diverse perplessità.
L’idea di un rapporto lineare fra liberalizzazione dei mercati (intesa come deregulation) e maggiore concorrenza effettiva, e poi fra maggiore concorrenza e maggiore sviluppo economico nazionale, pur essendo molto diffusa [28], non trova sostegno sul piano della teoria economica, ove il rapporto fra tutela della concorrenza e sviluppo economico è oggetto di valutazioni contrastanti, sì che la conclusione più plausibile è nel senso che gli effetti delle diverse politiche possono mutare a seconda del contesto in cui si inseriscono [29]. Quell’idea non trova poi sostegno nell’esperienza storica [30], che mostra diversi casi (dalla Germania dell’Ottocento alla Cina degli ultimi decenni, alla stessa Italia degli anni del miracolo economico) in cui tassi di sviluppo molto elevati sono stati sostenuti da politiche pubbliche protezionistiche.
Dovrebbe essere, comunque, un dato di comune esperienza che la libertà di concorrenza, in quanto tale, non garantisce maggiore concorrenza effettiva. L’ostacolo al formarsi di una concorrenza effettiva e dinamica può essere, a sua volta, costituito da pratiche di cartello (che pur hanno anche una loro fragilità, quando in un mercato preme la spinta all’innovazione), ma anche – e di più – da fattori istituzionali e culturali che sostengono od ostacolano la competitività complessiva del sistema economico nazionale. Se l’Italia è collocata oggi in una posizione bassa nei ranking della competitività dei sistemi economici nazionali [31], ciò non può imputarsi ad un difetto (normativo) di libertà di concorrenza. L’Italia del miracolo economico non aveva leggi a tutela della concorrenza, ma era forte nell’innovazione di prodotto: lanciava sul mercato la Vespa, la Nutella, la Divisumma, la Moka Express ecc.; l’Italia attuale lo è molto meno.
Lo schema semplicistico che collega linearmente libertà di concorrenza e sviluppo economico dovrebbe essere ripensato alla luce di alcune cognizioni elementari:
a) è difficile pensare ad una inclinazione spontanea alla competizione fra imprese in un ambiente socioculturale in cui il valore della competizione non è coltivato nel contesto generale, in particolare per ciò che riguarda la competizione individuale (la c.d. meritocrazia) nelle scuole, nelle carriere pubbliche, nella stessa Università;
b) la competizione è una gara in cui non tutti possono vincere, anzi molti sono destinati a perdere [32]; il fenomeno si accentua se la competizione, nell’ambito di un sistema economico nazionale, si apre in un contesto di mercati globalizzati, con ciò mettendo in evidenza la competitività complessiva del sistema nazionale; da ciò il limite di una visione che descrive la liberalizzazione dei mercati come un’esperienza win-win [33].
Inoltre, la storia economica dimostra che le imprese capitalistiche, nella loro fase fondativa, hanno sempre chiesto e ottenuto il sostegno del potere politico, e che – come già ricordato – le politiche protezionistiche, e in particolare quelle di sostegno dei “campioni nazionali”, hanno spesso sostenuto la crescita di sistemi economici nazionali [34]. Il dibattito su queste materie è aperto e le affermazioni “liberistiche” contrarie, che si leggono talora nelle relazioni dell’Autorità [35], appaiono troppo recise.
Tutto ciò non si traduce solo in dubbi di carattere teorico, ma dovrebbe riflettersi sulle strategie di azione dell’autorità preposta alla tutela del mercato. Probabilmente, nell’attività di advocacy, l’analisi dei fattori che frenano la competitività del sistema economico nazionale dev’essere approfondita, senza limitarsi al solo tema (pur importante) delle barriere amministrative all’entrata.
Così pure, nell’attività sanzionatoria, il giudizio sulla gravità delle infrazioni potrebbe essere meglio calibrato, e concentrarsi non tanto sulle caratteristiche strutturali della fattispecie accertata (se si tratti o meno di hardcore restriction), quanto soprattutto sull’entità degli effetti di freno allo sviluppo economico, di cui una certa infrazione è stata causa.
Queste riflessioni si dovrebbero tradurre in una strategia prudente di applicazione delle norme antitrust ad imprese investite da crisi settoriali, o da crisi generali come quella attuale. L’esperienza attuale dovrebbe indurre l’Autorità antitrust ad affinare i suoi strumenti di analisi del funzionamento dei mercati e ad intervenire prioritariamente su quelle condotte imprenditoriali che sono fattori di debolezza di determinati settori nel contesto competitivo globale. In tal senso dovrebbe valorizzarsi l’assunto per cui la concorrenza è uno strumento e non un “valore in sé” [36].
Ciò consente di sollevare dubbi sulla piega più recente della politica antitrust italiana. A fronte di tante opinioni che sostengono l’esigenza di un’applicazione elastica delle norme antitrust in tempi di crisi, l’Autorità ha accolto la tesi della necessità di un’applicazione rigorosa, anche in termini di entità delle sanzioni. In proposito, dovrebbe riconoscersi che perseguire e condannare cartelli e abusi rimane doveroso, ma è una forzatura pensare che le imprese che violano le norme antitrust siano, per definizione, fruitrici di profitti monopolistici e meritevoli di sanzioni esemplari. Spesso si tratta soltanto di imprese poco efficienti e scarsamente innovative, talora anche con problemi di sopravvivenza. Ciò non costituisce, ovviamente, una causa di giustificazione delle relative condotte, ma dovrebbe incidere sul giudizio di gravità dell’infrazione, che dovrebbe essere nel senso della massima gravità solo quando l’illecito antitrust blocca processi innovativi in corso o dotati di potenzialità prossima. In molti casi, l’intervento più appropriato, da parte dell’Autorità, sarebbe quello di imporre rimedi comportamentali correttivi, piuttosto che ammende esemplari.
Tutto ciò potrebbe anche tradursi in una più trasparente indicazione delle priorità. L’Autorità non ha mai ufficializzato in modo sistematico propri programmi di priorità negli interventi, ma ne ha accennato occasionalmente. Alcune dichiarate linee di tendenza sono state quelle di vigilare severamente sull’attività degli ex-monopolisti legali e delle associazioni imprenditoriali (nei primi anni, in questa prospettiva si inseriva anche un attento controllo dell’attività dei consorzi di tutela della qualità dei prodotti agricoli, ma questo filone è stato poi abbandonato, anche per l’evolversi della legislazione europea in materia). Negli anni più recenti, l’Autorità ha dichiarato di rivolgere massima attenzione ai fenomeni di bid rigging, cioè di collusione nelle gare pubbliche. Fenomeno certamente da contrastare, ma anche “facile” da rilevare e difficile da stroncare del tutto, perché la stessa esistenza di gare ripetute, in certi settori, è una condizione facilitante la collusione fra imprese.
L’ideale, a mio avviso, sarebbe che essa riuscisse a concentrare la sua azione sulla finalità di sostenere lo sviluppo economico nazionale, individuando e sanzionando quelle condotte e strategie imprenditoriali che attentano all’efficienza dinamica dei mercati.
Una seconda criticità riguarda il sindacato giudiziario sugli atti dell’Autorità. Per anni, le critiche, su questo piano, investivano la supposta insufficienza del sindacato del giudice amministrativo, con frequenti richieste di trasferire al giudice ordinario la giurisdizione sugli atti dell’Autorità.
In realtà, i limiti del sindacato giudiziario sugli atti dell’Autorità sono stati sempre e soltanto quelli propri della tutela di annullamento, che per definizione è solamente “demolitoria” e non anche sostitutiva dell’atto annullato. Questo limite si incontra anche nella giurisdizione ordinaria, quando il giudice annulla un contratto o una deliberazione condominiale o societaria. Per di più, nella giurisdizione amministrativa, il potere del giudice è più ampio per la presenza di un sindacato di merito, e quindi di un potere sostitutivo, sull’ammontare della sanzione.
Nel caso dell’Autorità garante, il limite del sindacato giudiziario era stato accentuato, in un primo momento, dalla prevalenza della tesi sul sindacato “debole” sulle questioni tecnicamente complesse; ma questo orientamento è stato rapidamente superato e, negli ultimi dieci anni, il sindacato del giudice amministrativo è stato riconosciuto come sindacato “pieno” [37] e ha dato luogo a frequenti annullamenti di atti dell’Autorità.
La criticità si manifesta ora proprio su questo terreno. In una relazione presentata al convegno annuale dall’Associazione Antitrust Italiana, nel maggio 2019, dal Presidente del TAR Lazio Carmine Volpe [38], si è rilevato che, nel periodo 2018/2019, circa il 40% dei provvedimenti dell’Autorità sono stati annullati dal TAR, e un altro 20% è stato annullato parzialmente, con l’esercizio del potere riduttivo sull’ammontare della sanzione. Quindi, il 60% dei provvedimenti dell’Autorità ha subito una censura giudiziaria. Sempre secondo quanto riferito dal Presidente del TAR, queste percentuali sono sostanzialmente confermate se si considerano anche le decisioni di appello del Consiglio di Stato.
Le percentuali rimangono piuttosto elevate se si considerano anche i dati giurisprudenziali dell’ultimo anno [39]. È rilevante anche la circostanza che il trend delle censure giudiziarie appaia in aumento rispetto al passato [40].
La percentuale di annullamenti, totali o parziali, è chiaramente eccessiva e denota una criticità della prassi attuale, che dev’essere affrontata.
Il dato più significativo è – sempre richiamando la relazione del Presidente del TAR – che le ragioni delle censure non attengono a contrasti interpretativi sulle norme sostanziali del diritto antitrust. Tali ragioni sono, nella grande maggioranza dei casi, due: (i) l’insufficienza istruttoria, i.e. il mancato rispetto dello standard probatorio che, ai sensi dell’art. 2, regolamento n. 1/2003, è imposto all’Autorità; (ii) la violazione del principio di proporzionalità nella determinazione dell’ammontare delle sanzioni.
Si tratta di problemi che potrebbero essere risolti facilmente, con un cambio di prassi da parte dell’Autorità. In altri termini, sono necessarie soprattutto istruttorie più approfondite, con una maggiore valorizzazione della dialettica procedimentale (cioè un esame più approfondito delle difese delle parti) e una più approfondita analisi economica del funzionamento complessivo dei mercati.
È opportuno che ciò avvenga, perché L’Autorità non deve correre il rischio di trasformarsi, come ancora ha notato il Presidente del TAR Lazio, in una sorta di P.M., avente la tendenza a massimizzare comunque l’ipotesi accusatoria, lasciando poi al giudice la decisione finale del caso. Con un fenomeno di eterogenesi dei fini, la legge n. 287, che consapevolmente rifiutò la proposta di Guido Rossi, che all’Autorità amministrativa voleva attribuire proprio, e soltanto, quel ruolo accusatorio e non decisorio, si sarebbe tradotta in una prassi applicativa che si avvicina alla proposta Rossi, devolvendo al giudice (amministrativo) la decisione finale dei casi.
Quanto alle sanzioni, la tendenza ad irrogare frequentemente il massimo edittale dovrebbe considerarsi di per sé incompatibile con il principio di proporzionalità [41]. Il giudice amministrativo, in questo caso, non ha condiviso questa critica di principio ed ha considerato legittime le Linee-Guida dell’Autorità; tuttavia, è intervenuto ugualmente, con frequenza, censurando l’applicazione di tali Linee-Guida e comunque riducendo l’ammontare delle sanzioni. Anche su questo punto, una correzione della prassi dell’Autorità non sarebbe certo difficile, ma è per ora ostacolata dall’orientamento rigoristico che l’Autorità ha ufficialmente manifestato, in materia di sanzioni [42].
La criticità sopra rilevata dovrebbe essere affrontata, a parere di molti, con una modifica della disciplina del procedimento sanzionatorio dinanzi all’AGCM. In proposito, l’Associazione Antitrust Italiana ha avviato, negli scorsi mesi, una consultazione mirante all’elaborazione di una proposta ufficiale di riforma.
Attualmente, il procedimento è articolato in due fasi: la prima, istruttoria, generalmente piuttosto lunga, consente alle parti di interloquire soltanto con gli uffici istruttori; il Collegio interviene, oltre che nella deliberazione dell’atto di avvio del procedimento, nell’approvazione, con una valutazione di non manifesta infondatezza, della “Comunicazione delle Risultanze Istruttorie” formulate dagli Uffici e nella discussione finale, che si svolge in tempi molto brevi e contingentati.
L’Autorità ha più volte affermato che la distinzione rigorosa tra fase istruttoria e fase decisoria, e nella titolarità dei rispettivi poteri, è imposta dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. [43]. In realtà, la giurisprudenza C.E.D.U. richiede che, quando vi siano contestazioni sui fatti imputati, le parti debbano vedersi garantito anche il diritto di difendersi in un’udienza pubblica davanti ad un giudice indipendente, che permetta un confronto orale. Tuttavia, la giurisprudenza C.E.D.U. considera sufficiente che tale fase difensiva si svolga dinanzi ad un giudice chiamato a svolgere un sindacato giudiziario pieno sugli atti sanzionatori, e non anche necessariamente dinanzi all’autorità amministrativa chiamata ad irrogare le sanzioni.
Tuttavia, anche a volere ammettere che la regola della necessità di una “udienza pubblica dinanzi a un giudice indipendente, che permetta un confronto orale” debba applicarsi anche al procedimento che si svolge dinanzi all’Autorità, resta il dubbio che l’attuale procedimento sia coerente con tale criterio.
Le regole in vigore si ispirano, lato sensu, al procedimento penale, con la Comunicazione delle Risultanze Istruttorie che svolge una funzione analoga alla decisione di rinvio a giudizio. Tuttavia, il procedimento penale ordinario fa seguire al rinvio a giudizio una fase dibattimentale, nella quale si procede ad un pieno riesame delle prove. Viceversa, il procedimento attuale dinanzi all’Autorità si svolge secondo una sorta di rito super-abbreviato, senza alcun approfondito confronto orale, dinanzi al Collegio, tra le parti imputate e l’Ufficio accusatore. In realtà, il procedimento attuale sembra piuttosto ispirarsi al processo civile, e in particolare al giudizio di Cassazione (trattazione scritta e breve esposizione orale finale, da parte dei difensori, dei punti salienti delle difese). Ma questo modello non è coerente con le esigenze di procedimenti in cui, di solito, i fatti contestati, e decisivi, sono molto complessi, e altrettanto complesse sono le valutazioni economiche di questi fatti, che devono porsi a base della decisione.
In realtà, come si è già detto, la giurisprudenza C.E.D.U. non richiede che i procedimenti amministrativi ad esito sanzionatorio siano strutturati necessariamente sulla falsariga dei procedimenti penali, purché il diritto di difesa delle parti sia garantito in tutte le fasi del procedimento e sia anche previsto un sindacato giudiziario a cognizione piena, in capo a un giudice indipendente e con un’udienza pubblica che consenta un confronto orale.
Non sarebbe vietato, dunque, articolare il procedimento antitrust – fermo restando il rigoroso rispetto del diritto di difesa in ogni fase del procedimento – sulla falsariga dei procedimenti amministrativi, impegnando il Collegio (o almeno il componente del Collegio nominato relatore) nella direzione e supervisione dell’intera fase istruttoria, anche con possibilità di interlocuzione con le parti.
Ciò che osta a una simile ipotesi è piuttosto la convinzione dell’Autorità di essere (o meglio, di concepire sé stessa come) un giudice, piuttosto che come un’autorità amministrativa.
Il punto da ultimo accennato costituisce da sempre un tema cruciale, nella valutazione dell’attività dell’Autorità garante [44].
La questione, com’è noto, è stata risolta dalla Corte costituzionale con l’affermazione della “natura” amministrativa dell’AGCM [45], sulla base di diversi argomenti: (i) la mancanza dell’ “essenziale requisito della terzietà” (dal momento che l’Autorità, per legge, è parte resistente o parte ricorrente in procedimenti dinanzi alla giustizia amministrativa); (ii) la mancanza di una netta separazione tra gli uffici e il Collegio (dato che i primi, sul piano organizzativo, dipendono dal secondo); (iii) la circostanza che l’Autorità “è portatrice di un interesse pubblico specifico, che è quello alla tutela della concorrenza e del mercato”; (iv) la circostanza che l’Autorità è chiamata, per legge, a svolgere anche compiti “pararegolatori e consultivi”.
Che l’AGCM sia un organo amministrativo e non giudiziario dovrebbe dunque considerarsi un punto fermo.
Ci sono resistenze, tuttavia, ad accettare questa configurazione del ruolo dell’Autorità, non solo all’interno della stessa, ma anche nella “comunità antitrust” dei cultori della disciplina. Rimane difficile ammettere che la funzione amministrativa, volta al conseguimento – con strumenti giuridici vari – di risultati di interesse collettivo abbia pari dignità rispetto all’attività giudiziaria punitiva.
Curare l’interesse pubblico specifico alla concorrenza significa a sua volta, dato che la concorrenza fra imprese non è un fine a sé stessa, ma un mezzo per contribuire a realizzare uno sviluppo sostenibile basato su un’economia sociale di mercato altamente competitiva (per usare le espressioni dell’art. 3, TUE), che il compito precipuo dell’Autorità non è quello di sorvegliare e punire, per conseguire risultati di giustizia distributiva, bensì quello di sostenere l’efficienza dinamica dei mercati (e, con ciò, lo sviluppo economico e il benessere del consumatore), orientando e correggendo le condotte imprenditoriali e gli atti amministrativi che ostacolino tale risultato.
Dovrebbe dunque, a mio avviso, essere ripresa l’idea che concepisce l’Autorità come “amministrazione di risultati”. Ciò dovrebbe avere i suoi riflessi nella disciplina del procedimento, nei termini esposti in fine al precedente paragrafo, e dovrebbe comportare un più ricco dialogo fra Autorità e imprese, con l’impiego corrente dello strumento dell’istruzione amministrativa (analogamente al potere di “comunicazione”, ampiamente esercitato dalla Commissione UE) e quindi di strumenti di soft law.
Relazione al seminario sul tema “La disciplina a tutela della concorrenza tra libertà d’impresa e poteri pubblici nel Trentesimo Anniversario della Legge Antitrust” (chairman: Margherita Ramajoli), organizzato da Fondazione CNPDS, Ordine Avvocati Milano e Fondazione Cariplo, 21 settembre 2020.
[1] F. SILVA, La prospettiva economica: competizione, collusione e potere di mercato, in Concorrenza e Autorità Antitrust – Un bilancio a 10 anni dalla legge, AGCM, Roma, 2001, p. 33 ss. (l’affermazione citata nel testo è a p. 63).
[2] M. LIBERTINI, La prospettiva giuridica: caratteristiche della normativa antitrust e sistema giuridico italiano, in Concorrenza e Autorità Antitrust – Un bilancio a 10 anni dalla legge, AGCM, Roma, 2001, p. 69 ss. Lo scritto è stato pubblicato anche in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 491 ss.
Un bilancio più completo, e altamente positivo, del primo periodo di applicazione della legge antitrust nazionale, si trova nel volume di V. AMENDOLA-P.L. PARCU, L’antitrust italiano. Le sfide della tutela della concorrenza, Utet, Torino, 2003.
[3] Sulla formazione della legge n. 287 v., in particolare, A. PERA, Vent’anni dopo: l’introduzione dell’antitrust in Italia, in Concorrenza e mercato, 2010, p. 441 ss.
[4] In quella sede notavo solo l’opportunità di prevedere una regola de minimis nazionale, l’opportunità di un uso più frequente dell’autorizzazione delle intese in deroga e l’esigenza di una definizione più rigorosa della nozione di “gravità” dell’intesa, presupposto per l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie. Il secondo di questi temi è stato, di lì a poco, sostanzialmente superato con il regolamento n. 1/2003/CE, che ha introdotto l’operatività ex lege delle esenzioni. Gli altri due problemi sono rimasti aperti, ma non danno luogo a difficoltà gravi, nell’esperienza applicativa.
In particolare, la ragione della mancata adozione di una regola de minimis nazionale sta, probabilmente, nel rischio avvertito di un’applicazione decentrata a livello regionale, con esiti incoerenti. È la stessa ragione che, nella riforma costituzionale del 2001, ha portato ad attribuire la “tutela della concorrenza” alla potestà esclusiva dello Stato. Però è anche da considerare che un’applicazione articolata anche a livello locale, con un’organizzazione amministrativa a rete, potrebbe avere l’effetto di diffondere e consolidare la cultura della concorrenza.
[5] La Corte ha dichiarato più volte che la tutela della concorrenza – con la conseguente potestà legislativa esclusiva dello Stato – “si attua anche attraverso la previsione e la correlata disciplina delle ipotesi in cui viene eccezionalmente consentito di apporre dei limiti all’esigenza di tendenziale massima liberalizzazione delle attività economiche” (da ultimo, Corte Cost., 26 marzo 2020, n. 56). In questo modo la “tutela della concorrenza” dell’art. 117, comma 1, lett. e), Cost., diviene regolazione amministrativa di dettaglio dei mercati, mentre dovrebbe essere correttamente intesa come potestà di fissare disposizioni di principio effettivamente necessarie al fine di tutelare la concorrenza, lasciando poi la normativa di dettaglio alla Regione competente sulla materia regolata. Questo discutibile orientamento della Corte ha avuto la sua maggiore espressione nel riportare alla materia trasversale “tutela della concorrenza” la disciplina di dettaglio delle procedure di evidenza pubblica (v. da ultimo Corte Cost., 6 marzo 2020, n. 39).
[6] Cfr., sul tema, M. LIBERTINI, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica della giurisprudenza costituzionale dell’ultimo decennio, in Mercato Concorrenza Regole, 2014, p. 503 ss.; nonché A. ARGENTATI, Mercato e Costituzione. Il giudice delle leggi di fronte alla sfida delle riforme, Giappichelli, Torino, 2017.
Sul piano della dottrina giuridico-costituzionale, importanti sviluppi sono contenuti nel volume I fondamenti costituzionali della concorrenza, a cura di M. AINIS-G. PITRUZZELLA, Ed. Giuseppe Laterza, Bari, 2019, ma la discussione sul concetto di “tutela della concorrenza”, e quindi sulla concorrenza come bene giuridicamente protetto, non sembra ancora giunta ad un livello esauriente.
[7] V. da ultimo, p.e., Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2020, n. 5213, che annulla un bando comunale di concorso per l’abilitazione all’esercizio della professione di guida turistica, per contrasto con la norma statale di liberalizzazione della professione; Cons. Stato, sez. V, 27 luglio 2020, n. 4758, che annulla un bando di gara per la presenza di clausole irragionevolmente escludenti la partecipazione di categorie di operatori.
[8] Questa legittimazione, introdotta nel 2011, va ben oltre i poteri di advocacy riconosciuti ab initio all’Autorità. La peculiarità della struttura normativa sta nel fatto che l’eventuale ricorso dell’AGCM dev’essere preceduto da un parere/diffida rivolto all’ente pubblico autore dell’atto contestato. Indirettamente, questa previsione rafforza il ruolo sostanzialmente regolatorio, che l’Autorità ha sempre svolto con altri strumenti (diffide, accettazione di impegni). Sul punto cfr., per tutti, M. RAMAJOLI, La legittimazione a ricorrere dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato come strumento di formazione della disciplina antitrust, in Concorrenza e Mercato, 2018, p. 83 ss.
[9] 20 anni di antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, a cura di C. Rabitti Bedogni e P. Barucci, Giappichelli, Torino, 2010.
[10] Il ruolo determinante svolto dai presidenti che si sono succeduti, insieme con l’equilibrata descrizione delle differenze di ispirazione fra l’uno e l’altro, sono esposti nel libro di A. PERA-M. CECCHINI, La rivoluzione incompiuta. 25 anni di antitrust in Italia, Fazi, Roma, 2015. Nel libro è anche valorizzata la figura del primo presidente, Francesco Saija, scomparso nel 1994.
[11] L. BERTI-A. PEZZOLI, Le stagioni dell’antitrust. Dalla tutela della concorrenza alla tutela del consumatore, Egea, Milano, 2010.
[12] V. DI CATALDO, L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a vent’anni dalla sua istituzione. Appunti critici, in Concorrenza e mercato, 2010, p. 467 ss.
[13] La rivista, inizialmente promossa soprattutto dall’iniziativa di Piero Barucci, dal 2019 ha cambiato titolo, divenendo Antitrust and Public Policies. La rivista si presenta come una sede di aperto dibattito dottrinale e non di esposizione di orientamenti propri dell’Autorità.
[14] Sul punto, una sentenza del Consiglio di Stato (n. 1792/1996) rischiò di dare un colpo mortale all’effettività delle norme antitrust, negando la sussistenza di un’intesa in un caso in cui una pratica concordata nell’attività di imprese assicuratrici si era formata senza il coinvolgimento dei rappresentanti legali delle imprese interessate. La sentenza suscitò critiche unanimi da parte della dottrina (v., p.e., M. LIBERTINI, Pratiche concordate e accordi nella disciplina della concorrenza, in Giornale dir. amm., 1997, p. 443 ss.) e ciò portò il Consiglio di Stato ad un rapido revirement (v. la sentenza n. 652/2001), che dopo di allora non è stato più soggetto a discussioni.
[15] Questa situazione è destinata a modificarsi nel quadro del New Deal europeo sulla protezione dei consumatori. La direttiva 2161/2019 modifica infatti le norme vigenti [art. 8-ter direttiva 93/13/CE (clausole abusive) / art. 13 direttiva 2005/29/CE (pratiche commerciali scorrette) / nuovo art. 24 direttiva 2011/83/UE (diritti dei consumatori)] in materia di ammende. Gli stati membri dovranno prevedere massimi edittali non inferiori al 4% del fatturato dell’impresa responsabile, al fine di garantire l’irrogazione di sanzioni aventi un reale effetto dissuasivo.
Gli Stati membri potranno dunque aumentare il massimo edittale, mentre non è previsto un minimo edittale. La disposizione si avvicina, anche per ciò che riguarda i criteri di determinazione del concreto ammontare dell’ammenda, a quella già vigente per le violazioni delle norme antitrust. Sempre più si mette in evidenza che la tutela del consumatore non è affatto un capitolo minore del diritto della concorrenza
[16] Cfr. M. FILIPPELLI, Il problema dell’oligopolio nel diritto antitrust europeo: evoluzione, prospettive e implicazioni sistematiche, in Riv. soc., 2018, p. 567 ss.
[17] V. le relazioni per gli anni 2016 e 2017, nonché l’Indagine conoscitiva congiunta (con AGom e Autorità per la protezione dei dati personali) del luglio 2019, sul fenomeno dei Big Data.L’Autorità ha anche avviato diversi procedimenti, per infrazioni alla legge antitrust o alle norme sulle pratiche commerciali scorrette, contro alcune BigTech.
[18] V. la Presentazione del Presidente (Pitruzzella), p. 25.
[19] Il testo normativo non dice che il Governo “può” determinare ecc., bensì che “Il Consiglio dei Ministri determina ecc.”.
[20] Il 22 maggio 1991 addirittura con una nota ufficiale (v. Relazione AGCM per l’anno 1991). La sollecitazione era ribadita nella Relazione per l’anno successivo.
[21] Si deve rimarcare che L’AGCM decideva di disapplicare questa norma, asserendo che la stessa “può porsi in contrasto con la normativa comunitaria in materia di controllo delle concentrazioni”, ma poi autorizzando ugualmente l’operazione dopo un esame di merito, perché la stessa non presentava criticità concorrenziali (AGCM, provv. n. 26658 (C1213) del 5 luglio 2017, Intesa San Paolo / Rami d’azienda di Banca Popolare di Vicenza – Veneto Banca). L’episodio rimane comunque significativo, sul piano della affermazione di indipendenza dell’Autorità.
[22] V. la Presentazione (Pitruzzella) della Relazione per l’anno 2017, p. 6, nonché l’ultima Relazione (anno 2019), p.17 ss.
[23] V. anche la Presentazione della Relazione per l’anno 2012, p. 8, 21, e la Presentazione della Relazione per l’anno 2014, p. 11.
[24] In questa linea di pensiero va segnalato M. GRILLO, Tutela della concorrenza e diffusione sociale del rischio, in A. GIGLIOBIANCO-G. TONIOLO (a cura di), Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo, Marsilio, Padova, 2017, p. 533 ss., secondo cui il fatto che le riforme a tutela della concorrenza non abbiano realizzato gli effetti attesi sulla crescita economica del Paese è imputabile soprattutto a difetti del vigente sistema di sicurezza sociale, che lega la tutela del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, anziché tutelare il lavoratore disoccupato ai fini della ricollocazione in modo diverso nel mercato del lavoro.
Si ricorda che l’autore del saggio citato è stato un autorevole componente dell’AGCM.
[25] Dopo alcuni accenni negli anni precedenti v., in particolare, la Presentazione della Relazione per l’anno 2016.
[26] V. G. PITRUZZELLA, Democracy, Inequality and Antitrust, in Antitrust & Public Policies, 0/2019, p. 1 ss. (articolo di apertura della nuova serie della Rivista dell’Autorità).
[27] V. la Presentazione della Relazione per l’anno 2017, nella quale è segnato a merito dell’azione dell’Autorità il costante incremento complessivo dell’ammontare delle sanzioni, negli anni precedenti.
[28] Cfr., p.e., A. ALESINA-F. GIAVAZZI, Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, Milano, 2007; L. ZINGALES, Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta, Rizzoli, Milano, 2012.
Non sono mancati neanche i tentativi di conferma empirica della tesi: cfr. N. PETERSEN, Antitrust Law and the Promotion of Democracy and Economic Growth, in Journal of Competition Law & Economics, 2013, p. 593 ss.
[29] Cfr. Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo, a cura di A. GIGLIOBIANCO-G. TONIOLO, Marsilio, Padova, 2017. V. anche gli scritti citati infra, nt. 34.
[30] V. ancora i saggi pubblicati nel volume di cui alla nota precedente e, in particolare, K.H. O’ROURKE, Concorrenza e crescita nella storia europea (p. 117 ss.); nonché A. GIGLIOBIANCO-C. GIORGIANTONIO, Concorrenza e mercato nella cultura, ivi, p. 151 ss.
[31] Cfr., da ultimo, R. GALLO, Sintesi e conclusioni, in R. GALLO (a cura di), Industria, Italia. Ce la faremo se saremo intraprendenti, Sapienza Università Editrice, Roma, 2020, 340.
[32] Questa considerazione, ovvia, sembra talora dimenticata. Così, nella Relazione per l’anno 1996 (p. 27), l’Autorità dichiara, poco plausibilmente, che la (allora auspicata) liberalizzazione della distribuzione commerciale avvantaggerà tanto la grande distribuzione quanto i piccoli esercenti.
[33] Cfr. M. LIBERTINI, Relazione generale. Concorrenza tra imprese e concorrenza fra Stati, in Unione Europea: concorrenza tra imprese e concorrenza tra Stati, Giuffrè, Milano, 2016, p. 1 ss.
[34] Cfr., oltre agli scritti sopra citati alle nt. 29 e 30, I. BREMMER, The End of the Free Market. Who Wins the War Between States and Corporations?, Penguin Books, New York, 2010 (con riconoscimento della superiorità dell’economia di mercato nel lungo periodo); Industrial Policy for National Champions, ed. by O. FALCK-C. GOLLIER-L. WOESSMANN, Massachusetts Institute of Technology, 2011.
[35] V. la Relazione per l’anno 1998, p. 7 e quella per l’anno 2003, p. 7.
[36] Cfr. A. MARRONE, La concorrenza come materia, in I fondamenti costituzionali della concorrenza (nt. 6), 101 ss., secondo cui “troppa concorrenza, che spinge a tenere i prezzi bassi, finisce per essere fonte di minore innovazione” e le politiche antitrust dovrebbero essere rallentate nelle fasi avverse del ciclo economico. Un cenno in tal senso anche in B. LIBONATI, L’Autorità e la cultura antitrust in Italia, in 20 anni di antitrust (nt. 9), 56.
In generale credo che, pur senza attribuirle carattere scientifico, non dovrebbe essere dimenticata la famosa battuta di Peter Thiel (“Competition is for losers”).
[37] V., da ultimo, Cass. civ., sez. un., 23 aprile 2020, n. 8093 e, soprattutto, Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990.
[38] La videoregistrazione della relazione è reperibile on-line, sul sito dell’Associazione Antitrust Italiana.
[39] Senza alcuna pretesa di completezza, dall’esame di una trentina di casi di cui si è a conoscenza, risulta che in 10 casi i provvedimenti dell’Autorità sono stati annullati (TAR Lazio nn. 11960/2019, 593/2020, 5275/2020, 8768/2020, Cons. Stato nn. 296/2020, 310/2020, 489/2020, 512/2020, 2764/2020, 8695/2020). Nei restanti casi, in circa un terzo si è avuta riduzione della sanzione e nel restante terzo è stato confermato interamente il provvedimento dell’Autorità.
[40] F. SILVA (nt. 1), p. 43, riporta i dati sul contenzioso sugli atti dell’Autorità nel primo decennio, rilevando che, su 62 casi decisi, vi erano stati 18 decisioni di accoglimento pieno e 6 di accoglimento parziale, mediante riduzione della sanzione.
Ancora più favorevoli all’Autorità i dati riportati nella Presentazione della Relazione per l’anno 2017, p. 20, che registrano un 78% di decisioni pienamente favorevoli.
[41] PH. FABBIO, Massimo edittale e imprese mono-prodotto nella prassi sanzionatoria dell'AGCM, in Giornale dir. amm., 2016, p. 427 ss.
[42] Talora sembra che, anche a livello internazionale, l’elevato ammontare di sanzioni irrogate sia considerato un titolo di merito per l’Autorità che le ha disposte. In realtà, l’irrogazione frequente di sanzioni dimostra che sono frequenti le infrazioni alle norme antitrust, e quindi denota una insufficienza dell’azione preventiva svolta dall’Autorità.
[43] In particolare, dalla sentenza C.E.D.U., sez. II, 4 marzo 2014 (ric. 18640/10 e aa.), Grande Stevens e aa. c. Italia. V. la Presentazione della Relazione per l’anno 2017, p. 19.
[44] Per la verità, nella prima Relazione (riferita all’anno 1990) l’Autorità si qualificava espressamente come organo amministrativo e non giurisdizionale. Il punto è ribadito della prevalente dottrina (cfr. M. RAMAJOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Giuffrè, Milano, 1996; A. POLICE, Tutela della concorrenza e pubblici poteri, Giappichelli, Torino, 2007). Successivamente, tuttavia, l’idea della “paragiurisdizionalità”, mentre perdeva terreno in dottrina, si è tendenzialmente affermata, nelle posizioni dell’AGCM, sino a sfociare nell’ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale, che ha dato luogo alla nota decisione, di cui si parla nel testo. Il primo accenno alla possibilità, per l’Autorità, di sollevare questioni di legittimità costituzionale si legge già nella Relazione per l’anno 1995.
[45] Corte Cost., 31 gennaio 2019, n. 13.