Rivista della Regolazione dei MercatiE-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Politica di concorrenza e politica industriale tra unità e differenziazione (di Eugenio Bruti Liberati)


In the Italian constitutional jurisprudence of the last 15 years the tendency has emerged to attribute to the matter of competition law also public interventions of industrial policy or market regulation responding to aims different from protection or promotion of competition. Such evident tendency of the Constitutional Court is largely linked to the particular formulation of art. 117 Cost., but it seems to also express a certain difficulty to distinguish conceptually between the different forms of public intervention in the economy. The essay critically analyses such interpretations, even in light of more recent doctrinal contributions on the theme, and proposes a different interpretation in which the distinction between competition policy and industrial policy is valued even for the definition of the rules of system governance.

   

SOMMARIO:

1. Premessa. La distinzione tra politica industriale e politica di concorrenza tra giurisprudenza della Corte Costituzionale e riforma costituzionale in itinere - 2. La giurisprudenza della Corte Costituzionale - 3. La critica dottrinale - 4. Politica industriale e politica di concorrenza: due modelli di governance istituzionale diversificati - NOTE


1. Premessa. La distinzione tra politica industriale e politica di concorrenza tra giurisprudenza della Corte Costituzionale e riforma costituzionale in itinere

La riforma costituzionale attualmente in itinere sembra destinata ad avere un impatto rilevante anche sul modello di governance istituzionale accolto all’interno del nostro ordinamento in tema di governo e disciplina dei mercati [1]. Il ritorno allo Stato della competenza a legiferare in via esclusiva relativamente a materie che rappresentano uno snodo cruciale per la politica industriale del Paese (come l’energia o le infrastrutture strategiche), l’esplicita previsione della sua competenza legislativa esclusiva (non solo sulla tutela ma) anche sulla promozione della concorrenza e ancor più il riconoscimento allo Stato del potere di intervenire anche in materie ad esso non riservate “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” [2] sembrano prefigurare un assetto nel quale tutte le leve utilizzabili per influire sui processi economici saranno potenzialmente sotto il controllo di organi statali e i livelli di differenziazione che le autonomie territoriali potranno introdurre in relazione alle loro specificità dipenderanno in larga misura da eventuali scelte di delega di tali organi. In questo quadro, potrebbe apparire sostanzialmente inutile soffermarsi ancora sull’esperienza che su tali temi è maturata in questi anni, in particolare a seguito della riforma costituzionale del 2001, e sulla controversa giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, su cui già, d’altronde, si è sviluppato un ampio ed intenso dibattito dottrinale [3]. Non mancano peraltro ragioni che invece suggeriscono che un’analisi di quell’esperienza sia tuttora opportuna e anzi necessaria, anche nella prospettiva di una riflessione sui livelli di differenziazione previsti o ammessi all’interno del nostro ordinamento amministrativo: non solo per l’ovvia ragione che allo stato non è sicuro che la nuova riforma sia in definitiva approvata, ma anche perché problemi, soluzioni e argomenti interpretativi emersi sulla base della disciplina costituzionale oggi vigente continueranno verosimilmente ad esercitare una qualche influenza anche in sede di applicazione della possibile futura normazione costituzionale. In questa prospettiva sembra utile rilevare sin da subito come l’elemento forse più caratteristico – e certo il limite [continua ..]


2. La giurisprudenza della Corte Costituzionale

Come si è già sopra accennato, in una prima fase della sua giurisprudenza la Corte Costituzionale ha accolto una nozione straordinariamente ampia e comprensiva della locuzione “tutela della concorrenza”, tale da includere in essa non soltanto le misure e le norme rivolte a reprimere o a prevenire condotte anti-concorrenziali delle imprese (le uniche con certezza riconducibili a quella locuzione nel suo significato letterale) e non solo gli interventi variamente finalizzati a promuovere assetti concorrenziali dei mercati ma anche misure di sostegno e di incentivazione delle imprese. Come si legge nella ben nota sentenza n. 14/2014, ad avviso della Corte, la tutela della concorrenza, costituendo “una delle leve della politica economica statale”, “non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali” [6]. In tal modo, come sopra notato, politica di concorrenza e politica industriale venivano sostanzialmente a coincidere o, meglio, la seconda veniva di fatto ricondotta alla prima, con l’effetto di applicare anche ad essa – o, più esattamente, a quella sua parte che avesse una rilevanza c.d. macroeconomica [7] – la regola dell’esclusiva competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e), della Costituzione. Tale orientamento fortemente estensivo della portata della suddetta previsione costituzionale è stato in seguito parzialmente abbandonato dalla Corte, che, verosimilmente anche alla luce delle critiche molto accese ricevute dalla sentenza n. 14/2004 [8], ha poi statuito che “il riferimento alla “tutela della concorrenza” quale materia di competenza statale esclusiva, …, non può giustificare l’intervento del legislatore statale in relazione ad aiuti di Stato, i quali, quando consentiti, lo sono normalmente in deroga alla tutela della concorrenza” [9]. Per effetto di tale revirement giurisprudenziale, gli interventi di incentivazione vengono esclusi dal novero delle misure riconducibili alla tutela della concorrenza e alla sua [continua ..]


3. La critica dottrinale

La giurisprudenza della Corte che si è sopra sinteticamente richiamata è stata oggetto in questi anni di attenta analisi in sede dottrinale, con contributi diretti non solo a commentare le singole decisioni di maggiore rilevanza ma anche a ricostruire sistematicamente e criticamente presupposti, contenuti ed implicazioni delle scelte interpretative da essa compiute [20]. Tra tali contributi si segnalano in particolare due saggi recenti, che, seguendo percorsi ben diversi sia sul piano del metodo che su quello del merito, formulano analisi e riflessioni che appaiono di estremo interesse anche rispetto al ragionamento che si sta qui svolgendo. Il primo saggio, di Francesca Trimarchi Banfi [21], reca una critica radicale agli assunti teorici – ai presupposti politico-culturali – da cui sembra muovere la giurisprudenza della Corte, prima ancora che ai suoi orientamenti di politica del diritto [22]. Per ciò che qui rileva, esso appare rilevante soprattutto laddove analizza la sopra rilevata sovrapposizione operata dalla Corte tra politica di concorrenza e politica industriale, per effetto della quale, come si è visto, anche interventi di pianificazione e, in una prima fase, misure di aiuto pubblico alle imprese – tipiche espressioni e strumenti di politica industriale – vengono ricondotte alla materia della tutela della concorrenza e dunque assegnate alla competenza esclusiva del legislatore statale [23]. La spiegazione che l’A. offre di tale indubbia forzatura concettuale appare estremamente acuta (pur se non in toto condivisibile) [24]. Ma ciò che più conta ai fini in esame è che essa colga e sottolinei la necessità di considerare unitariamente gli interventi di politica industriale e quella di distinguere gli stessi, ai fini del riparto di competenze tra Stato e regioni, dagli interventi di tutela e promozione della concorrenza: soggetti, i secondi, alla regola della esclusiva competenza legislativa statale; dipendenti invece i primi – laddove lo Stato intenda porli in essere – dall’eventuale attivazione dei meccanismi di attrazione in sussidiarietà [25]. Si vedrà nel prosieguo che tale distinzione, che nel saggio di F. Trimarchi Banfi è posta ma non sviluppata nelle sue implicazioni, potrebbe in realtà rappresentare la base di una sistemazione più organica della materia, con [continua ..]


4. Politica industriale e politica di concorrenza: due modelli di governance istituzionale diversificati

Dall’esame critico della giurisprudenza costituzionale sopra considerata e dalle riflessioni già svolte in sede dottrinale sembra emergere con chiarezza la necessità di distinguere con maggiore precisione tra interventi di politica industriale e interventi di politica di concorrenza ai fini del riparto di competenze tra Stato e Regioni, e anzi quella di definire per essi due differenti modelli di governance istituzionale. Per i primi – per quelli con cui i soggetti pubblici tendono ad influire sul merito delle scelte imprenditoriali, variamente incentivando, pianificando, infrastrutturando – non sembra che, nell’attuale assetto costituzionale, l’esito possa essere diverso da quello a cui lo stesso giudice costituzionale, dopo le iniziali incertezze, si è orientato relativamente alle misure di aiuto, e assai prima per quelle attinenti alle infrastrutture. Insistere sul fatto che, ad esempio, la pianificazione d’ambito del servizio idrico integrato o i piani e i programmi relativi a qualsiasi altro servizio di interesse economico generale sarebbero preordinati alla tutela o alla promozione della concorrenza, laddove essi mirano in realtà a garantire l’efficienza e l’ampia diffusione del servizio, costituisce un errore sul piano logico e sistematico – vuol dire, come sottolineato da F. Trimarchi Banfi, identificare o confondere il mezzo con il fine [35]. Questo non significa, come si è visto, che lo Stato non possa più porre in essere tali interventi in modo diretto (ma solo per il tramite delle Regioni), come prospettato da una parte della dottrina [36], ma implica invece, come chiarito dalla Corte nella sentenza n. 63/2008 per gli aiuti, che esso possa disciplinarli ed attuarli solo quando ricorrano le esigenze di carattere unitario che legittimano la chiamata in sussidiarietà e dunque anche nel rispetto dei relativi vincoli procedimentali. Non vi è quindi esclusività della competenza statale al riguardo: al di fuori dai casi di attrazione in sussidiarietà, le Regioni possono anch’esse attuare una loro politica industriale, calibrata sulle specificità del loro territorio e dei loro assetti produttivi, sia pure ovviamente attenendosi ai principi fondamentali che il legislatore statale può e deve porre nelle materie a competenza concorrente e ai vincoli derivanti dall’ordinamento europeo [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2015