Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Capitalismo e diritto: la Business Roundtable (di Paolo Perulli)


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SOMMARIO:

1. - NOTE


1.

È tempo per il diritto di guardare in faccia la realtà: il suo potere regolativo nei confronti del capitalismo è in crisi. Il capitalismo dopo il 1989 è ormai il sistema mondiale senza rivali esteso da Occidente a Oriente in una varietà di forme-stato e regimi socio-politici, tanto da farci parlare di nuovi capitalismi regionali del XXI secolo (asiatico, europeo, nord-americano etc.) anziché dei vecchi capitalismi nazionali del XX. Ciò sottolinea gli elementi comuni al sistema capitalistico mondiale accanto a quelli che lo differenziano in una varietà di capitalismi.

I diversi tipi di capitale si stratificano verticalmente anziché orizzontalmente. In altri termini il circuito del capitale finanziario, quello del capitale produttivo, quello del capitale fisso infrastrutturale si dispongono globalmente anziché localmente, e si concentrano anziché diffondersi. Anche il capitale umano sembra seguire la stessa logica, specie nei suoi segmenti più elevati di capitale cognitivo. Questa stratificazione rende i regimi regolativi, tuttora largamente operanti su base nazionale, del tutto spuntati. Questo anche rende l’impresa globale, come quelle americane che aderiscono alla Business Roundtable [1], pienamente in grado di giocare su tanti mercati (del lavoro, dei fattori, finanziari, regolativi) quanti sono i paesi in cui essa è presente.

Come mostra uno studio del Fondo Monetario Internazionale, tra 1980 e 2016 i profitti delle imprese, misurati dal loro markup (il rapporto tra prezzi di vendita e costi), sono cresciuti in modo molto forte in tutti i paesi economici avanzati. Negli Stati Uniti il markup è aumentato da 1.1 a 1.6, con una curva che si impenna soprattutto dopo i primi anni 2000. Le imprese di servizi di distribuzione, finanza, software, farmaceutica e biotecnologie sono ai primi posti tra i settori vincitori. Le imprese europee hanno avuto un aumento più contenuto, da 1.1 a 1.4, quelle giapponesi hanno visto il markup crescere appena dall’1.1. all’1.2. Le imprese dei paesi emergenti, Asia e America Latina, hanno conosciuto andamenti del markup molto più modesti, rimanendo intorno al valore di 1.2-1.3.

Emerge un andamento polarizzato del capitalismo mondiale. I profitti misurati dal markup sono affluiti alle imprese dei paesi avanzati, che hanno potuto ridurre i costi attraverso l’outsourcing e il decentramento produttivo indirizzato entro catene globali del valore verso i paesi a basso costo del lavoro. Apple per fare un esempio ha 47.000 dipendenti diretti negli USA, ma muove un indotto nel mondo (dati 2017) di 3 milioni di lavoratori presso 756 fornitori. Quale peso può avere per questa galassia il rispetto dei principi affermati nello statement della Business Roundtable (2019) sugli scopi dell’impresa e dei suoi stakeholders [2]? Lo statement riguarda l’economia degli Stati Uniti. Nessun cenno vi è contenuto dei diritti e dei salari, dell’ambiente e delle condizioni di vita, degli ecosistemi dei lavoratori e dei Paesi in cui l’impresa opera. Presso i fornitori cinesi di Apple, l’azienda assicura che i lavoratori sono trattati umanamente e che i dormitori sono divisi per fedi religiose. Apple assicura di applicare un codice di condotta che vieta il lavoro minorile, solo 2 casi sono stati individuati secondo l’azienda. Nello stesso anno 1558 casi di lavoro forzato (bond labor, lavoro estratto a causa di un debito contratto dal lavoratore) sono stati scoperti dalla Apple che ha costretto i fornitori a rimborsare i lavoratori per un ammontare di 1,9 milioni di dollari.

Per riprendere il tema generale, la crescita dei profitti si è accompagnata a un processo di concentrazione del potere di mercato delle imprese. La curva degli investimenti mostra che a una fase più competitiva, in cui gli investimenti crescono, succede una fase più oligopolistica in cui gli investimenti si riducono. Lo stesso avviene per quanto riguarda l’innovazione: una fase di crescita delle innovazioni è seguita da una fase di minor spinta innovativa e di ricerca e sviluppo. Man mano che cresce il markup le imprese si allontanano dalla frontiera tecnologica. L’esito sembra essere spiegabile con la concentrazione del potere di mercato in capo a poche imprese superstar prive di concorrenza.

La politica non sembra più in grado di intervenire nel ridisegnare le curve dell’economia delle imprese. Politiche antitrust che pure hanno accompagnato lo sviluppo del capitalismo nell’Otto-Novecento (dalla Standard Oil all’AT&T al­l’IBM) non si stanno riproponendo nel corso degli ultimi tre decenni rispetto alle nuove imprese dominanti dell’high tech e del capitalismo digitale (Facebook, Apple, Google, Amazon etc.).

La crescita dei profitti delle imprese misurata dal markup è inoltre correlata alla decrescita della quota spettante al lavoro, un gigantesco processo redistributivo a favore del capitale. Lo stesso si può dire nei rapporti tra il capitalismo dei paesi avanzati e quello dei paesi in via di sviluppo [3]. Ma qui si potranno avere le maggiori sorprese legate allo sviluppo emergente del nuovo capitalismo asiatico.

Troppo recente è lo statement da parte delle imprese americane aderenti alla Business Roundtable volto a modernizzare i principi su cui si basa l’im­pre­sa: non solo gli interessi degli azionisti ma anche quelli dei consumatori, dei lavoratori e della comunità in cui l’impresa opera dovrebbero guidarne l’o­pe­rato. Da un lato è una presa d’atto che la società nel suo complesso sta subendo gli effetti di un capitalismo deregolato e privo di interesse (riconoscendoli come stakeholders) per i lavoratori che hanno perso potere d’acquisto e capacità formative, e le comunità sottoposte alla crisi sociale e dell’ambiente naturale. Ma questo richiederebbe una riforma costituzionale dell’impresa che non è nello statement neppure presa in considerazione. Dall’altro la riaffermazione del “libero mercato” e dei suoi principi appare grottesco alla luce della profonda crisi in cui esso ha condotto la società americana. In controluce si può anche leggere nello statement una sfida al capitalismo cinese guidato dalle politiche dello Stato. Ma è lo stesso capitalismo che “ospita” a Shenzhen gli stabilimenti di milioni di dipendenti di imprese – come Foxconn per la Apple – che lavorano per le imprese Occidentali.

Per questo occorre fare attenzione a non applicare meccanicamente le categorie Occidentali all’intero mondo capitalistico, che ora include l’Asia e i paesi emergenti. I classici consideravano questi sistemi ancora lontani dallo spirito capitalistico: oggi essi vi sono entrati pienamente ma in forme peculiari. Anziché restare alla superficie del fenomeno capitalistico (testimoniato in primis dalla diffusione delle tecnologie di interconnessione digitale ovunque nel mondo) occorre esplorare come l’estensione planetaria del “libero mercato” abbia reagito su assetti sociali e sistemi di credenze radicati. Capire come e per quali vie i valori del mercato capitalistico vengano disseminati ed assimilati, ed entrino in contatto con i regimi di regolazione, i sistemi di lavoro, gli stili della vita e del consumo, e i sistemi di credenze delle società, modificandoli e venendone a loro volta modificati, rappresenta una necessità urgente.

In questo senso occorrerebbe aggiornare molto pensiero Occidentale su homo oeconomicus, la cui piena iscrizione nel liberalismo Occidentale è fuori discussione. Scriveva Michel Foucault negli anni ’70, cioè prima dell’attuale e­sten­sione globale del capitalismo, che homo oeconomicus è “la sola isola di razionalità possibile entro un processo economico incontrollabile, opaco, non totalizzabile” [4]. In un simile processo economico nessun sovrano può darsi, solo competizione di tutti con tutti: ogni individuo in lotta con ogni altro per accaparrarsi dei beni che forniscono utilità. Sovrano è quindi il consumatore, secondo la retorica del “libero mercato”. Ma la sovranità è l’essenza del Politico. Di qui la distanza, persino l’opposizione tra le due categorie di Economico e Politico. Questi concetti spiegano bene l’attuale problematicità della politica regolativa dell’Occi­dente, costruita su relazioni dialettiche tra Stato e mercato: mentre oggi il mercato proteiforme prevale e sfugge alle forme tradizionali di regolazione (fiscale, salariale, giuslavoristica, etc.). Ma gli stessi concetti sono difficili da applicare al moderno capitalismo di Stato in Oriente, in cui i due termini Economico e Politico anziché opporsi si sommano in forme inedite. Se in Occidente la sovranità è del mercato (la retorica dice: del consumatore), in Oriente è del Partito-Stato (la retorica dice: del popolo). Anche i sistemi di credenze saranno quindi profondamente diversi, pur di fronte a un meccanismo di produzione e circolazione del capitale (nelle sue forme di merce, denaro, informazione) ormai ampiamente integrato.

Questo mette anche in discussione l’idea che “l’economia è una disciplina atea; l’economia è una disciplina senza Dio” sostenuta da Foucault. Essa non tiene conto a sufficienza del fatto che un’etica religiosa, seppur dimenticata, ne abbia formato l’inevitabile retroterra. Che la parola credenza e la parola credito abbiano lo stesso significato: un atto di fiducia (in un dio) che implica una restituzione (sotto forma di favore divino accordato al fedele) [5]. E che possibili diverse varianti della credenza religiosa in forme le più varie (etiche individuali di condotta, fedi e sette, religione civile etc.) si combinino con diverse forme di capitalismo, a Occidente e a Oriente. E che persino, il capitalismo stesso sia interpretabile come una religione (Walter Benjamin: kapitalismus als religion).

Il nostro pensiero Occidentale soprattutto contrappone l’uomo economico all’uomo giuridico e politico seguendo una precisa tradizione: prima hobbesiana, che già nel ’700 diviene Oeconomica, economia come forma di governo; poi nel liberalismo si trasforma in opposizione tra politica ed economia. Mentre a Oriente una diversa credenza nel capitalismo si è affermata, su altre basi rispetto a quelle elaborate dalla società civile e dall’individualismo Occidentali. Vi operano forme collettive e tradizioni imperiali a reggere la diffusione del capitalismo. Forme semicomunistiche di economia della stirpe già osservate da Weber [6] si sono evolute nel comunismo attuale facendo da cuscinetto all’intro­duzione del capitalismo. Una “relazionalità” tra gli agenti economici emerge, anziché una “razionalità” formale come in Occidente. L’intera questione del­l’impresa e dei mercati efficienti e razionali secondo la scuola friedmaniana di Chicago, ne risulta sfidata. Ma di questa necessaria revisione non vi è traccia nello statement della Business Roundtable.

Ma dall’altro lato occorre rinnovare e aggiornare la nostra stessa discussione sulle crisi del capitalismo, un filone che si è in Occidente imposto tra fine XIX e inizio XX secolo con la comparsa del capitale finanziario e delle sue improvvise cadute, ma oggi richiede altre aperture.

Tra le interpretazioni del capitalismo a ridosso della grande crisi del 2007-8, quella dell’insostenibilità sociale del capitalismo finanziario è stata ampiamente ripresa da economisti, sociologi e storici [7]. Il tema del debito, che è connaturato allo sviluppo storico del capitalismo, ha assunto una nuova dimensione. Se in passato la creazione di debito da parte delle banche era fisiologica alla crescita della produzione di capitale, oggi essa è divenuta patologica. Il circuito del debito si è autonomizzato e liberato dalle regole, provocando crisi che alla fine costringono al salvataggio del sistema bancario da parte delle banche centrali e degli Stati. Ma la consapevolezza del salvataggio come ultima risorsa determina un rischio morale che indurrà le banche a continuare all’infinito nell’indebitamento rischioso. In tal modo il capitalismo si avvia a crisi sempre più frequenti. Ciò richiede un lavoro di scavo sulla categoria di debito e su quello che la sostiene, in termini di credenze e di aspettative. Raramente que­st’approccio analitico è stato però allargato alle società emergenti e quasi mai ha affrontato il tema in chiave comparata.

Sul capitalismo contemporaneo colpiscono soprattutto il silenzio americano, l’enigma cinese, il pensiero critico europeo.

Il silenzio americano sul capitalismo è il frutto di una società che ne vive oggi la fase più contraddittoria: enorme crescita del debito sia pubblico che privato, esplosione dei profitti finanziari e immobilità sociale, aumento delle povertà e dell’autodistruzione sociale, diminuzione dell’aspettativa media di vita, elevata segregazione urbana, crisi ecologica irreversibile persino dove il capitalismo digitale produce e rinnova le proprie tecnologie di punta entro una società neo-eugenetica come la Silicon Valley. Quale teoria dello sviluppo capitalistico può dare forma e orizzonte a una simile società?

L’enigma cinese del capitalismo è il frutto invece di un sistema politico che non può esplicitamente riconoscere la nuova fase capitalistica della società cinese e metterne in luce i meccanismi e i valori: pur essendo oggi Pechino pari a Tokyo, Shanghai come Hong Kong nell’esplosione della finanza, dei consumi, degli stili di vita, delle tecnologie create e sostenute dalle nuove imprese sul mercato. Lo sviluppo della società cinese è in pieno corso e indica mete e un futuro di crescita che attraversa il secolo. Ma una rielaborazione critica del nesso tra capitalismo e socialismo-ben presente del resto nei classici– non sta avvenendo. La questione dei diritti di espressione e di libera manifestazione del dissenso, come a Hong Kong, resta un invalicabile tabù.

Il pensiero critico del capitalismo sembra restare quindi un attributo della riflessività europea, frutto di un pensiero che ancora si interroga sui fondamenti e ricerca una teoria del valore del capitalismo.

Certo si tratta di aggiornarne e di seguirne la lezione alla luce degli sviluppi attuali in Occidente e in Oriente. Andrà analizzata alla radice la crisi finanziaria e la caduta di fiducia che essa ha portato con sé; e andranno affrontate le pro­poste di revisione critica del capitalismo (post-capitalismo, socialismo di mercato, economia della condivisione, economia circolare) che emergono nel dibattito.

Il “capitalismo del debito” nell’epoca della finanziarizzazione appare mimetico e sfuggente, rendendo evidente che “occupare Wall Street” non riesce a mettere in scacco il capitalismo senza affrontarne una profonda ristrutturazione delle basi regolative e valoriali. Il “capitalismo del debito” infatti si basa su protezioni giuridiche, si avvolge nel diritto societario e fa della lex mercatoria globale il proprio abito: unico germe ‘globale’ mentre il nomos ‘statale’ della terra si dissolve [8].

Di questo uso del diritto come arcana imperii esiste una tradizione, che Vico ha mostrato. I patrizi si servivano della giurisprudenza come un arcano del potere: non avendo alcun ordine proprio (accanto alla plebe, ai cavalieri e al senato) si assicuravano il potere nello stato attraverso essenzialmente, il diritto. Esistendo tre tipi di diritto, sacro, pubblico e privato, i patrizi si servivano di questo espediente: nessuno conosceva i tre tipi di diritto, se non coloro che partecipavano ai collegi dei pontefici e degli àuguri: e “poiché in tali collegi erano ammessi soltanto uomini nobilissimi, soltanto i patrizi custodivano la giurisprudenza, come fosse un mistero” [9].

Il grande tema vichiano ricorre oggi nella natura del diritto societario, vero arcano del potere del capitalismo moderno: in grado di proteggere occultando. Lo statement del capitalismo americano della Business Roundtable rivolto alla tutela di consumatori, lavoratori e comunità locali difficilmente appare realizzabile: certamente non rappresenta una riforma costituzionale dell’impresa di cui invece si sente il bisogno. Si tratterebbe di articolare i diritti dei consumatori, dei lavoratori, delle comunità all’interno della stessa costituzione legale del­l’impresa. Di riconoscere poteri di intervento a ciascuno di questi stakeholders, sulla base di una efficace tutela del consumatore dall’arbitrio dell’impre­sa (come è risultato evidente nel caso di Facebook-Cambridge Analytica), di una partecipazione dei lavoratori al controllo della quantità e qualità del lavoro e­rogato e della formazione professionale necessaria ad affrontare i cambiamenti tecnologici, e infine di una “voce” della comunità locale nelle scelte produttive e nelle ricadute ambientali dell’impresa. Giacomo Becattini [10] ha proposto che le comunità locali entrino nei consigli di amministrazione delle imprese per far sentire questa voce in modo effettivo.

Nulla di questo è adombrato nello statement delle imprese statunitensi. Il “libero mercato” richiede però, attraverso lo statement, quantomeno una “modernizzazione del ruolo dell’impresa”. In questo procedere avvolgente il capitalismo, come il Castello di Kafka, esercita la violenza degli influssi imponderabili anche senza minacciare vere costrizioni. Svuota la democrazia liberale come in USA con imprese dominanti sul “libero mercato”, ma sa anche accoppiarsi a regimi disciplinari coercitivi come in Cina. Non trascura né l’inno­vazione, dal cui motore in definitiva continua a dipendere, né la tradizione se e quando può trarne benefici. Sta in questa capacità di adattamento, per molti aspetti mimetico per altri brutale, la sua attuale condizione insieme di forza e di debolezza. E insieme fa emergere la “domanda di regolazione” che esso implicitamente esprime. Sta al diritto cogliere oggi fino in fondo la sfida.


NOTE

[1] Si tratta di un’associazione, attiva dal 1972, che riunisce i CEO delle principali imprese statunitensi e svolge un’intensa attività di promozione degli interessi delle imprese e di lobbying. Nel 2017 è stata l’ispira­trice della riforma fiscale dell’amministrazione Trump.

[2] Lo Statement, sottoscritto da 180 CEO delle principale imprese statunitensi, innova le precedenti definizioni di finalità di un’impresa (purpose of a Corporation) introducendo, accanto al valore per gli shareholders, l’attenzione ai consumatori, ai dipendenti, ai fornitori, alle comunità locali in cui l’impresa è insediata.

[3] F.J. DIEZ-D. LEIGH-S. TAMBUNLERTCHAI, Global Market Power and its Macroeconomic Implications, Washington, IMF Working Paper WP/18/137, 2018.

[4] M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica. Lezioni al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano, 2005, p. 231.

[5] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, 2001, p. 130 ss. ha tracciato la piena corrispondenza tra il latino credo, il sanscrito sraddha e l’indoeuropeo *kred, forma laicizzata di ‘confidare una cosa con la certezza di recuperarla’.

[6] M. WEBER, Storia economica, Donzelli, Roma, 1993, p. 45.

[7] Tra i più influenti: T. PIKETTY, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014; W. STREECK, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013.

[8] Per una discussione del tema si veda S. CASSESE, From the Nation-State to the Global Polity, in D. KING-P. LE GALÉS (eds.), Reconfiguring European States in Crisis, Oxford University Press, Oxford, 2017.

[9] Vico 2008, p. 121.

[10] G. BECATTINI, La coscienza dei luoghi, Donzelli, Roma, 2015.