«Alla luce di quanto affermato dalla Corte di Giustizia, la regola generale è che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell’AGCM. La competenza delle altre autorità di settore è residuale e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili.
L’espressione «aspetti specifici» della pratica commerciale scorretta impone un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete, ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime soltanto qualora esse contengano profili di disciplina incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
L’applicazione del criterio autonomo dell’incompatibilità esclude in modo chiaro che l’Autorità di settore possa intervenire. Se, pertanto, venisse irrogata una seconda sanzione, essa sarebbe illegittima, sia sotto il profilo procedimentale sia sotto quello sostanziale».
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1. Le questioni sottese al caso in esame - 2. La vicenda - 3.Tutela del consumatore e mercati regolati: il nodo del riparto di competenze tra Autorità amministrative indipendenti - 4. La decisione del Consiglio di Stato - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
L’annoso problema del riparto di competenze tra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e Autorità di settore, in materia di repressione delle pratiche commerciali scorrette nei mercati regolati, non sembra aver trovato ancora un approdo definitivo [1].
La recente pronuncia del Consiglio di Stato che qui si commenta, resa all’esito del rinvio pregiudiziale sulla medesima fattispecie alla Corte di Giustizia, stabilisce che il rapporto tra normativa generale in materie di pratiche commerciali scorrette e disciplina settoriale a tutela dell’utente deve essere definito non tanto alla luce del principio di specialità (come già prospettato in altre occasioni dal giudice amministrativo) bensì ricorrendo al criterio autonomo di incompatibilità, il quale impone di operare un confronto tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime solamente laddove le medesime contengano profili di disciplina «incompatibili e antinomici» con le norme di cui al codice del consumo.
Spetta, dunque, all’Autorità Antitrust la competenza generale a sanzionare pratiche commerciali scorrette poste in essere da operatori economici, residuando la competenza dell’Autorità di settore nei casi in cui la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» di dette pratiche, idonei a rendere le due discipline tra loro inconciliabili.
Il punto di arrivo su questo profilo era stato individuato, da ultimo, dalla decisione dell’Adunanza plenaria del 2016, che aveva risolto il conflitto di competenze alla luce del principio di «assorbimento o consunzione» [2].
Appena qualche mese più tardi, tuttavia, sono intervenute sia la Commissione europea sia la Corte di Giustizia a riaccendere il dibattito sulla questione [3].
La soluzione delineata dal Consiglio di Stato, pur chiudendo concretamente l’intricata vicenda oggetto di contenzioso (sulla quale si sono pronunciati, rispettivamente, TAR, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Corte di Giustizia ed, infine, nuovamente Consiglio di Stato), dimostra ancora una volta la difficoltà del giudice amministrativo a fornire coordinate ermeneutiche veramente risolutive di uno snodo problematico che affatica da oltre un decennio il nostro ordinamento, ponendo interrogativi sulla stessa disciplina europea, strutturalmente predisposta a dare vita ad ipotesi di conflitto tra Autorità differenti.
A seguito di istruttoria avviata ai sensi dell’art. 27, comma 3, d.lgs. n. 206/2005, l’autorità AGCM irrogava ad una società telefonica la sanzione pecuniaria di euro 250.000, per aver quest’ultima posto in essere una pratica commerciale scorretta (nella specie «aggressiva»), ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f), del Codice del Consumo [4].
La condotta contestata consisteva nell’avere l’operatore economico attivato servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica sulle carte Subscriver Identity Module (modulo d’identità dell’abbonato, d’ora in poi SIM) commercializzate nei punti vendita, senza aver previamente, ed adeguatamente, informato il consumatore dell’esistenza della preimpostazione di tali servizi, così esponendolo ad eventuali addebiti inconsapevoli connessi alla navigazione internet e al servizio di segreteria telefonica.
Avverso detto provvedimento sanzionatorio la società proponeva ricorso avanti al TAR Lazio, eccependo il difetto assoluto di competenza dell’Autorità Antitrust.
I giudici di prime cure, in adesione ai chiarimenti resi dall’Adunanza Plenaria del 2012 [5], accoglievano il ricorso, risolvendo il conflitto di competenza a favore dell’Agcom e decretando la conseguente esclusione dell’applicazione delle norme generali del Codice del Consumo alla condotta in esame, sull’assunto per cui è l’Agcom l’autorità preposta alla cura e alla salvaguardia dell’interesse pubblico primario della tutela del consumatore nel settore delle comunicazioni elettroniche [6].
A seguito del ricorso in appello formulato dall’Autorità Antitrust, il Consiglio di Stato, in ragione della incertezza sulla interpretazione della normativa applicabile, suscettibile di portare a soluzioni differenti per la presenza nei due plessi normativi di riferimento (quello del codice del consumo e quello del codice delle comunicazioni elettroniche) di norme di divieto e di sanzioni di pratiche commerciali scorrette riferibili ai medesimi soggetti (in veste di operatori economici e di consumatori finali), sospendeva il giudizio, rimettendo la questione interpretativa all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a. [7].
Con sentenza del 9 febbraio 2016, n. 3, l’Adunanza Plenaria riconosceva la competenza dell’Autorità garante della concorrenza, facendo ricorso al criterio di specialità per progressione di condotte lesive.
La questione veniva rinviata al Consiglio di Stato, il quale, tuttavia, riteneva necessario sollevare alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale di compatibilità del diritto «vivente» nazionale (quale risultante dalla pronuncia dell’Adunanza plenaria succitata) con l’ordinamento europeo [8].
Alla luce dei chiarimenti resi dalla Corte di Giustizia, il Consiglio di Stato ha riformato la decisione di primo grado, sulla base delle argomentazioni di cui si darà conto nel prosieguo [9].
Prima di esaminare nel dettaglio la pronuncia oggetto del presente commento, ed al fine di meglio comprenderne la portata, è indispensabile ripercorrere brevemente le tappe che hanno segnato il percorso, piuttosto accidentato, relativo al rapporto tra normativa generale in materie di pratiche commerciali scorrette e discipline settoriali a tutela del consumatore, nonché ai conflitti di competenze profilabili tra i diversi soggetti preposti alla tutela del c.d. soggetto debole [10].
A seguito del recepimento sul piano interno della direttiva 2005/29/CE, diretta ad uniformare le legislazioni nazionali degli Stati membri poste a protezione dei consumatori, con precipuo riferimento alle pratiche «sleali» esercitate dalle imprese, il legislatore italiano ha dotato il nostro ordinamento di strumenti di public enforcement a tutela del consumatore, affiancandoli alle forme di protezione, di natura privatistica, già esistenti [11].
L’art. 27 del codice del consumo individua (disciplinandone poteri, procedimento e sanzioni) quale autorità preposta ad applicare la disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette l’AGCM, la cui competenza – in ragione del carattere di trasversalità che la caratterizza – si radica ogni qual volta si configuri un comportamento costituente pratica commerciale scorretta, a prescindere dall’ambito e dal settore (che può, ed anzi, solitamente è, governato da una normativa specifica e settoriale) in cui detto comportamento si verifica.
La coesistenza di una normativa generale (di cui al codice del consumo) a tutela del consumatore e di discipline settoriali, di derivazione europea, poste in essere da Autorità di regolazione a tutela (anche) dell’utente, ha imposto la necessità di individuare criteri interpretativi idonei a prevenire il rischio di sovrapposizione di competenze tra Autorità trasversale ed Autorità settoriali, nonché a scongiurare il possibile configurarsi di violazioni del divieto di bis in idem.
Nel tentativo di elaborare una soluzione, la giurisprudenza amministrativa ha cercato in più occasioni di fornire un’interpretazione dell’art. 19, comma 3, del codice di consumo, il quale sancisce che «in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici» [12].
Le soluzioni delineate dai giudici si sono spinte ora a favore di un principio di specialità per settori (idoneo a radicare la competenza dell’Autorità di settore in presenza di una regolazione piena ed in grado di tutelare efficacemente il contraente c.d. debole) [13], ora a riconoscere un rapporto di «complementarietà» tra disciplina settoriale e disciplina generale (ai sensi del quale, la disciplina contenuta nel codice del consumo si aggiunge agli ordinari strumenti di tutela contrattuale attivabile dai singoli e alle discipline settoriali previste a protezione del consumatore) [14], ora ancora ad elaborare un principio di specialità «per norme» (ricavato interpretando estensivamente il termine «contrasto» contenuto nell’articolo succitato, in termini non tanto di vera e propria antinomia, quanto di mera diversità di discipline, in applicazione del quale prevale la regolazione settoriale, con disapplicazione della normativa generale di cui al codice del consumo, ogni volta che tra di esse sussista «una difformità di disciplina tale da rendere illogica la sovrapposizione delle due regole») [15].
La inidoneità dei succitati criteri ad impedire il configurarsi di conflitti permanenti tra Autorità c.d. trasversale e Autorità settoriali ha spinto il legislatore ad intervenire in materia, introducendo l’art. 23, comma 12-quinquesdecies, d.l. n. 95/2012, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135, con il quale è stata esclusa la competenza dell’Autorità Antitrust in presenza di una regolamentazione specifica [16].
L’intervento del legislatore, tuttavia, oltre a non aver contribuito a scongiurare il verificarsi di vuoti di tutela, ha dato avvio ad una procedura di infrazione da parte della Commissione europea (con lettera di messa in mora del 18 ottobre 2013, archiviata solo il 10 ottobre scorso), per attuazione parziale della direttiva, sull’argomento per cui la disapplicazione della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette è autorizzata dall’art. 3, comma 4, della direttiva 29/2005/CE, soltanto in presenza di una normativa settoriale di fonte europea che intervenga a disciplinare «aspetti specifici» di quelle pratiche, con modalità idonee a generare un «contrasto» con la medesima direttiva, da intendersi come situazione di «opposizione» o «incompatibilità tra norme» [17].
Al fine di superare la procedura di infrazione, in occasione del recepimento della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori il legislatore ha introdotto nel codice del consumo il nuovo comma 1-bis dell’art. 27, funzionale ad attribuire l’enforcement in via esclusiva all’Autorità Antitrust in relazione a tutte le condotte idonee a configurare pratiche commerciali scorrette, incluse quelle che integrano la violazione anche di una norma di settore.
La competenza delle Autorità di settore resta dunque ferma nelle ipotesi in cui il comportamento contrario alle norme di settore non costituisca pratica commerciale scorretta, ovvero nel caso in cui, se pur relativa alla medesima fattispecie, riguardi una condotta materiale che non rientra nella pratica commerciale scorretta individuata dall’Antitrust.
La novella legislativa non è stata tuttavia in grado di chiarire se sia possibile sanzionare anche quei comportamenti che, pur rispettosi della normativa di settore, non osservino quel generale canone di diligenza professionale o di buona fede previsto nel codice del consumo.
I dubbi interpretativi hanno continuato a permanere, tanto da richiedere un nuovo intervento dell’Adunanza Plenaria che, con le sentenze del 9 febbraio 2016, nn. 3 e 4, ha risolto il tema del concorso apparente di norme alla luce del principio di «assorbimento-consunzione» [18], segnando una riespansione dell’area di applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette (e dunque della competenza di AGCM) a discapito della regolazione (e delle Autorità settoriali) a vocazione settoriale.
Detta soluzione, superando in parte il criterio della «specialità tra norme», e disconoscendo il principio di «specialità tra settori» porta, in particolare, a privilegiare l’applicazione esclusiva della disposizione regolante l’illecito di maggiore gravità (nella specie, la pratica aggressiva vietata dal codice del consumo), disapplicando la normativa settoriale che vieta l’illecito meno grave.
È significativo che, appena qualche mese più tardi dalla pronuncia da ultimo richiamata, la Commissione europea abbia adottato il documento contenente «orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE» relativa alle pratiche commerciali sleali, funzionale a chiarire, inter alia, il tema del rapporto tra le disposizioni della direttiva stessa e le altre discipline europee.
Più nello specifico, la Commissione si è espressa sul significato da riconoscere al criterio di coordinamento di cui al combinato disposto del considerando n. 10, nonché dell’art. 3, par. 4, della medesima direttiva (trasposto pressoché letteralmente nell’art. 19, cod. cons.).
In particolare, la Commissione chiarisce che, da una lettura dell’art. 3, par. 4, succitato, emerge che laddove le disposizioni appartenenti ad una legislazione di settore o altra normativa europea si «sovrappongono» alla disciplina contenuta nella direttiva, a prevalere debbano essere le disposizioni della lex specialis.
A ben vedere, l’interpretazione fornita dalla Commissione pare evocare il principio di «specialità tra norme» delineato dall’Adunanza Plenaria del 2012, secondo cui, in presenza di due diverse disposizioni che disciplinano la medesima fattispecie, dovrà applicarsi soltanto quella che possegga tutti gli elementi dell’altra, più un elemento di specialità.
Dal combinato disposto dell’articolo succitato e del considerando n. 10, la Commissione trae tuttavia la regola generale (non vincolante, trattandosi di atto di soft law), secondo cui in caso di conflitto o sovrapposizione tra le disposizioni generali in tema di pratiche commerciali sleali e quelle contenute nella normativa settoriale di derivazione europea, prevalgono le disposizioni della specifica legislazione di settore, con riferimento «all’aspetto specifico» della pratica commerciale da questa disciplinato.
Detta interpretazione, che enuclea nel termine contrasto sia le ipotesi di contrapposizione che di sovrapposizione tra norme differenti, diverge per la verità da quanto chiarito dalla stessa Commissione in sede di procedura di infrazione, laddove il termine succitato era stato inteso come situazione di «opposizione» o «incompatibilità tra norme».
Accanto a questo, emerge un’altra incongruenza nel ragionamento della Commissione, la quale pare favorire l’applicazione della disciplina settoriale in caso di “contrasto” ma, al contempo, riconosce una complementarietà tra disciplina generale e settoriale, chiarendo come la direttiva possa «essere generalmente applicata insieme alle norme settoriali dell’UE in maniera complementare: pertanto, i requisiti più specifici stabiliti da altre norme dell’UE di solito si aggiungono ai requisiti generali stabiliti dalla direttiva, di norma per impedire ai professionisti di fornire le informazioni richieste dalla normativa settoriale in modo ingannevole ed aggressivo, salvo il caso in cui questo aspetto sia specificamente disciplinato dalle norme settoriali» [19].
Una lettura del genere non è, tuttavia, del tutto condivisibile, nella misura in cui non è in grado di scongiurare la possibilità di una duplicazione delle sanzioni da parte di Autorità differenti, con evidente rischio di violare il divieto di bis in idem [20].
È in questo quadro di profonda incertezza che si colloca la decisione del Consiglio di Stato di sollevare alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale – in applicazione del principio stabilito dalla stessa Corte nel caso Puligienica [21] – di compatibilità del diritto “vivente” nazionale (quale risultante dalla pronuncia dell’Adunanza plenaria del 2016) con l’ordinamento europeo.
Nello specifico, il giudice di appello ha formulato alcuni quesiti volti a stabilire se: 1) ai sensi della direttiva 2005/29/CE, la condotta degli operatori di telefonia possa essere qualificata come «fornitura non richiesta» o «pratica commerciale aggressiva»; 2) se, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE, le disposizioni di quest’ultima debbano cedere il passo ad altre norme di diritto dell’Unione ed, eventualmente, a disposizioni nazionali emanate in esecuzione di tali norme [22].
Con sentenza del 13 settembre 2018, la Corte di Giustizia ha chiarito, anzitutto, come la nozione di «fornitura non richiesta» contenuta nell’allegato I, punto 29, della direttiva 2005/29/CE, debba essere interpretata (pur con riserva di verifiche da parte del giudice del rinvio) nel senso di ricomprendere «condotte come quelle … consistenti nella commercializzazione, da parte di un operatore di telecomunicazioni, di carte SIM, sulle quali sono preimpostati e preattivati determinati servizi, quali la navigazione Internet e la segreteria telefonica, senza che il consumatore sia stato previamente ed adeguatamente informato né di tale preimpostazione e preattivazione né dei costi di tali servizi».
Per quanto concerne il secondo profilo, i giudici hanno chiarito come, ai sensi del combinato disposto del considerando 10 e dell’art. 3, par. 4, della direttiva 2005/29/CE (il cui contenuto è stato trasposto, in maniera pressoché identica, nell’art. 19 cod. cons.), la direttiva in materia di pratiche commerciali scorrette trovi applicazione soltanto qualora non esistano «specifiche norme del diritto dell’Unione che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali» in grado di determinare una situazione di «contrasto» tra le due discipline. «Contrasto» che, alla luce dei chiarimenti formulati del giudice europeo, non vale a ricomprendere le ipotesi di mera difformità» o «semplice differenza» tra disposizioni di matrice europea, ma si riferisce a casi di «divergenza» non superabili «mediante una formula inclusiva che permetta la coesistenza di entrambe le realtà, senza che sia necessario snaturarle».
A giudizio della Corte, in conclusione, un contrasto come quello previsto nella norma richiamata, sussisterebbe unicamente laddove disposizioni estranee a quest’ultima, disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, imponessero ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili con quelli stabiliti dalla direttiva 2005/29/CE.
All’esito dei chiarimenti resi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 settembre 2018, il Consiglio di Stato ha riformato la pronuncia di primo grado nei termini che seguono.
L’impianto argomentativo della sentenza si sviluppa attraverso un ragionamento a struttura piramidale discendente, teso ad analizzare tre profili. Il primo, e principale, fa leva sull’analisi della disciplina generale e settoriale in tema di pratiche commerciali scorrette. Il secondo si incentra sulla disamina della fattispecie concreta. Il terzo, infine, attiene al divieto di bis in idem.
Con riferimento al primo profilo, il giudice di secondo grado procede preliminarmente alla ricostruzione del quadro normativo complessivo, al fine di verificare, rispettivamente nella normativa generale ed in quella settoriale, l’interesse pubblico perseguito, le condotte individuate, l’apparato sanzionatorio previsto.
In particolare, dopo aver rilevato la diversa ratio sottesa alle due discipline esaminate – l’una, posta specificamente a protezione del consumatore in forza dello squilibrio informativo intercorrente tra quest’ultimo nel rapporto con il professionista; l’altra, funzionale a tutelare sia il mercato nella sua interezza, sia le parti deboli che, in quanto tali, si possono trovare in una situazione di asimmetria informativa rispetto agli operatori economici – il giudice sottolinea come entrambe le discipline prevedano in capo al professionista regole di condotta che costituiscono attuazione, in un caso (ed in particolare, nella disciplina generale) del concetto di correttezza professionale e, nell’altro (nello specifico, nella disciplina settoriale), di doveri di informazione declinati dal principio di buona fede oggettiva. Si tratta, tuttavia, di regole di condotta che si basano su «un livello di precisione non elevato», la cui effettiva tipizzazione viene rimandata ad una fase successiva in capo alle Autorità amministrative indipendenti.
Venendo ad esaminare l’apparato sanzionatorio, occorre considerare come sia il codice del consumo sia il codice delle comunicazioni elettroniche attribuiscano alle autorità di competenza il potere di irrogare sanzioni pecuniarie, aventi valenza «afflittiva», e dunque assoggettate ai principi di legalità costituzionale e convenzionale [23].
Ricostruito il quadro complessivo in materia, ed al fine di individuare l’Autorità amministrativa indipendente competente a sanzionare pratiche commerciali scorrette poste in essere da operatori economici nel settore delle comunicazioni elettroniche, il giudice esamina l’art. 19, comma 3, del codice del consumo, alla luce delle diverse interpretazioni elaborate dalla giurisprudenza (delle quali si è già dato conto in precedenza [24]), soffermandosi, da ultimo, sul criterio elaborato dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.
In particolare, aderendo a quanto richiamato dai giudici europei, il Consiglio di Stato ha precisato come, in presenza di un’ipotesi di concorrenza di norme che disciplinino la condotta contestata, la soluzione debba essere individuata non alla luce del principio di specialità, ma del diverso criterio di incompatibilità, ritenuto maggiormente aderente al significato letterale dell’art. 19, comma 3, e coerente con quanto lo stesso legislatore nazionale ha disposto con l’art. 27, comma 1-bis, introdotto dal d.lgs. n. 21/2014.
In questa prospettiva, l’espressione «aspetti specifici» della pratica commerciale scorretta, contenuta nell’art. 19, imporrebbe allora, secondo il giudice d’appello, un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete (come era stato stabilito, rispettivamente, dalle Adunanze Plenarie del 2012 e del 2016), ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime soltanto laddove le stesse contengano profili di disciplina «incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette».
Il Consiglio di Stato predilige, dunque, una tesi opposta a quella sostenuta dall’Adunanza Plenaria del 2016, la quale aveva espressamente chiarito che l’espressione «contrasto» dovesse essere intesa in termini di «diversità di discipline» e non come «vera e propria antinomia normativa».
Alla luce di quanto già chiarito dalla Corte di Giustizia, il giudice ricava la regola generale secondo cui, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza spetta all’autorità AGCM, residuando la competenza delle altre autorità di settore solamente laddove la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili.
A ben vedere, tuttavia, il principio di diritto elaborato dal Consiglio di Stato non pare tenere in debita considerazione quanto stabilito all’art. 27, comma 1-bis, cod. cons., che, come noto, nell’assegnare l’enforcement in via esclusiva all’Autorità Antitrust, ha stabilito il principio per cui, anche nelle ipotesi di prevalenza della disciplina di settore, l’unica Autorità titolata ad intervenire e sanzionare la condotta costituente pratica commerciale scorretta sia l’AGCM, tenuta a qualificare la scorrettezza della pratica alla luce delle disposizioni poste dall’Autorità di settore, secondo le indicazioni fornite da quest’ultima nel parere obbligatorio (non vincolante) reso all’Antitrust prima della decisione finale.
Dopo aver elaborato il criterio di «incompatibilità» a livello astratto, il Consiglio di Stato passa ad esaminare il secondo profilo problematico, al fine di chiarire se la pratica commerciale scorretta posta in essere nel caso concreto possa considerarsi «aggressiva» e se esistano profili di incompatibilità con la disciplina di settore in grado di escludere la competenza dell’AGCM ad intervenire nei confronti della condotta contestata.
Partendo dalle precisazioni fornite dalla Corte di Giustizia in relazione a detto profilo, il giudice rileva come la condotta contestata non possa essere ricondotta ad una mera omissione informativa ma sia inequivocabilmente qualificabile in termini di «pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva», come peraltro già specificato, con efficacia di giudicato interno (idoneo a precludere qualsiasi riesame al riguardo), dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 3/2016.
Chiarito tale aspetto, il giudice d’appello rileva come la disciplina relativa alle comunicazioni elettroniche non contenga profili di disciplina in grado di porsi in contrasto con la regolazione della pratica commerciale scorretta, atteso che il d.lgs. n. 259/2003 disciplina gli obblighi di informazione che gli operatori del settore devono fornire all’utente al momento della stipulazione del singolo contratto (ed, in questo senso, l’inosservanza, da parte del professionista, di detto obbligo, varrebbe a confermare l’illiceità del comportamento sanzionato).
È dunque sulla base di tale assunto che il giudice trae conferma per riconoscere l’applicabilità delle norme contenute nel codice del consumo, e dunque, la competenza dell’Autorità Antitrust.
Il terzo, ed ultimo, profilo di indagine da parte del giudice d’appello ruota attorno al tema sollevato dalla stessa Autorità Antitrust nelle proprie memorie difensive, vale a dire il rischio che una medesima condotta possa essere oggetto di duplice sanzione, in violazione del divieto di bis in idem, ovvero possa essere iniziato un nuovo procedimento da un’Autorità indipendente dopo la definizione di un precedente procedimento da parte di un’altra Autorità.
Al riguardo, il giudice d’appello distingue tra ne bis in idem sostanziale e processuale.
In particolare, il ne bis in idem sostanziale è idoneo a negare, sul piano dei principi, che il medesimo fatto possa essere addebitato più volte allo stesso soggetto, qualora l’applicazione di una sola delle norme in cui il fatto è sussumibile ne esaurisca, per intero, il contenuto di disvalore da un punto di vista sia oggettivo che soggettivo (in applicazione dei criteri di specialità o di assorbimento o consunzione).
Al contrario, il ne bis in idem processuale vieta di iniziare un secondo procedimento, una volta definito quello precedente per la medesima condotta [25].
Occorre tuttavia osservare che mentre nel ne bis in idem sostanziale, come si diceva, la non operatività della doppia sanzione assicura effettività al divieto di doppia incriminazione, non essendo possibile procedere nuovamente nei confronti di un soggetto che sia già stato sanzionato per il medesimo fatto, il ne bis in idem processuale risulta caratterizzato da una particolare complessità in relazione alla individuazione della nozione di «medesimo fatto», poiché tale aspetto non esclude che, nell’ambito del medesimo procedimento, colui nei cui confronti si procede possa essere giudicato per molteplici reati in presenza dell’idem factum e, per l’effetto, sanzionato con l’irrogazione delle pene (nonostante il regime di favore posto dall’art. 81 c.p.) [26].
Applicando il criterio elaborato dalla Corte di Giustizia, a giudizio del Consiglio di Stato ne dovrebbe conseguire che, laddove dovesse sussistere incompatibilità, non potrebbe mai venire in rilievo il medesimo fatto e, di conseguenza, si opererebbe al di fuori dal perimetro delle questioni poste dal concorso di norme, senza alcun rischio di violare il divieto di bis in idem.
In siffatta ipotesi, il criterio elaborato dall’art. 19 assegnerebbe solo all’Autorità di settore la competenza ad intervenire, escludendo qualsiasi spazio di intervento contestuale o successivo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Al giudice sembra non sfuggire un altro nodo problematico, in relazione al fatto che, ogni qual volta si dovessero applicare i criteri penalistici relativi al concorso di norme, potrebbero comunque sorgere dubbi interpretativi in ordine alla sussistenza del c.d. idem factum, con il rischio di poter instaurare contemporaneamente, o iniziare successivamente, un nuovo procedimento da parte dell’Autorità di settore, in applicazione di norme diverse.
L’applicazione del criterio autonomo di incompatibilità sarebbe tuttavia in grado, a giudizio del Consiglio di Stato, di escludere in modo chiaro un intervento dell’Autorità di settore; pertanto, qualora venisse irrogata una seconda sanzione, la medesima sarebbe illegittima, sia sotto il profilo procedimentale sia sotto quello sostanziale.
A ben vedere, ipotesi di questo tipo potrebbero, per il vero, essere prevenute ricorrendo ai (già esistenti) protocolli di intesa sottoscritti tra Autorità Antitrust ed Autorità di settore in materia di pratiche commerciali scorrette [27].
Sullo sfondo, irrisolta rimane la questione relativa alla conciliabilità del criterio di «incompatibilità» tra norme, elaborato dalla Corte di Giustizia e reso proprio dal Consiglio di Stato, con quanto sancito nell’art. 21, comma 1-bis, del codice del consumo.
Con una pronuncia da tempo attesa, il Consiglio di Stato è tornato a riflettere sull’interpretazione da riconoscere all’art. 19, comma 3, del codice del consumo, rinfocolando un dibattito che non accenna a trovare uno sbocco definitivo.
In assenza di un chiaro riferimento normativo in materia, il giudice amministrativo si è visto costretto in diverse occasioni ad intervenire sul tema del riparto di competenze tra Autorità amministrative indipendenti in materia di pratiche commerciali scorrette, nel tentativo di elaborare criteri ermeneutici idonei a superare le ambiguità sottese alla disciplina, di matrice europea, posta a tutela del c.d. soggetto debole.
Le principali difficoltà riscontrate dagli interpreti paiono, per il vero, direttamente connesse alle peculiarità del sistema europeo, caratterizzato da una certa “lentezza” ad intercettare le esigenze dei cittadini, nonché ad intervenire sulle problematiche esistenti con strumenti idonei ed efficaci.
La differente velocità con cui da sempre si muovono, da un lato, l’ordinamento giuridico (europeo) e, dall’altro, i bisogni della società, hanno dato luogo, nel corso del tempo, ad una moltiplicazione di regole – prodotte in tempi diversi e da soggetti diversi – capaci di determinare situazioni di contrapposizione e contrasto fra discipline differenti.
La stessa Commissione europea, in una comunicazione del 2018, ha auspicato la realizzazione di un «New Deal» per i consumatori, in grado di garantire un mercato unico equo per i soggetti che vi operano, attraverso «una migliore applicazione delle norme, strumenti efficaci di ricorso e una migliore conoscenza dei diritti dei consumatori» [28].
Nel caso delle pratiche commerciali «sleali», la situazione è complicata dal fatto che la disciplina, posta a livello europeo a tutela del consumatore, affida al legislatore nazionale il compito di individuare l’autorità competente, stante il principio di indifferenza dell’Unione europea rispetto all’organizzazione interna del singolo Stato membro.
Nell’intento di addivenire alla definizione di un sistema capace di intercettare i comportamenti scorretti posti in essere dagli operatori economici, e funzionale a soddisfare il bisogno di tutela del c.d. soggetto debole – ritenuto preminente dall’ordinamento europeo – , il legislatore italiano ha affidato la competenza in materia a quell’Autorità amministrativa indipendente (l’AGCM) istituzionalmente preposta a tutelare beni non suscettibili di essere “bilanciati” (e potenzialmente “sacrificati”) con altri, a differenza delle Autorità di settore, nelle quali le logiche regolatorie implicano necessariamente una continua e costante attività di ponderazione e di bilanciamento tra diversi interessi, con un livello di “tutela” che varia da settore a settore.
Accanto a questo profilo, occorre osservare che il criterio guida – contenuto nell’art. 3, comma 4, della direttiva 2005/29/CE – delineato dal legislatore europeo al fine di superare le situazioni di conflitto tra discipline di settore (o altra normativa europea) e la disciplina della medesima direttiva appare costruito ricorrendo ad una formulazione piuttosto sibillina, come dimostrano le ancor meno cristalline linee guida elaborate dalla Commissione europea nel 2016.
Sarebbe, dunque, auspicabile che il legislatore europeo intervenisse una volta per tutte con un’opera chiarificatrice sulle questioni oggetto di dibattito [29], così da assicurare il pieno esplicarsi del c.d. effetto utile e garantire nel contempo la certezza del diritto, lasciando all’interprete il compito esclusivo di ripulire «dalle scorie» [30] il sistema costruito dal legislatore (europeo e nazionale), non di sostituirsi ad esso.
[1] Sul tema, tra i più recenti, v. A. VERDESCA, Pratiche commerciali scorrette e tutela dei consumatori: tra conformazione del contratto e poteri delle “Authorities”, in Corr. giur., 2019, 7, pp. 943-950; M. BERTANI, Pratiche commerciali scorrette e violazione della regolazione settoriale tra concorso apparente di norme e concorso formale di illeciti, in Le Nuove leggi civili commentate, 2018, 4, pp. 926-960; M. CAPPAI, Quando l’erosione dei limiti costituzionali avviene dall’interno: il caso dell’art. 27, comma 1-bis del codice del consumo e della sua (presunta) natura interpretativa, in Rivista AIC, 2018, 2, pp. 1-34; ID., La repressione delle pratiche commerciali scorrette nei mercati regolati: cosa aspettarsi dalla Corte di giustizia?, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2017, 3-4, pp. 879-920; V. MOSCA, Il riparto di competenza sulla tutela del consumatore all’esame della Corte di Giustizia, in Giornale dir. amm., 2017, 4, pp. 519-527; G.M. BARSI, Il conflitto di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette nei settori regolati approda in Corte di Giustizia, in questa Rivista, 2017, 1, pp. 151-169; M.S. BONOMI, Tutela del consumatore, pratiche commerciali scorrette e riparto di competenze tra autorità indipendenti, in Giornale dir. amm., 2016, 6, pp. 793-804; B. RABAI, La tutela del consumatore-utente tra Autorità Antitrust e Autorità di regolazione, in questa Rivista, 2016, 1, pp. 89-114; F. CINTIOLI, La sovrapposizione di competenze delle autorità indipendenti nelle pratiche commerciali scorrette e le sue cause, in Giustamm.it, 2015, 2, p. 1 ss.; L. TORCHIA, Una questione di competenza: la tutela del consumatore fra disciplina generale e settoriale, in Giornale dir. amm., 2012, 10, pp. 953-958; M. CLARICH, Le competenze delle autorità indipendenti in materie di pratiche commerciali scorrette, in Giurisprudenza Commerciale, 2009, 2, pp. 688-705; M. LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi in materia di pratiche commerciali scorrette, ivi, 2009, pp. 880-892.
[2] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 9 febbraio 2016, nn. 3 e 4.
[3] Rispettivamente, con il documento rubricato «Orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali», in SWD (2016) 163, e la pronuncia Corte Giust., II, 13 settembre 2018, cause riunite 54/17 e 55/17.
[4] Cfr. Provvedimento AGCM 6 marzo 2012, n. 23357– PS700 Vodafone-Attivazione SIM presso punti vendita.
[5] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen, 11 maggio 2012, nn. 11, 12,13,14,15,16.
[6] TAR Lazio, Roma, I, 18 febbraio 2013, n. 1742.
[7] Cons. Stato, VI, ordinanza 16 giugno 2015, n. 4352.
[8] Cons. Stato, VI, ordinanza 17 gennaio 2017, n. 168.
[9] Corte Giust., II, 13 settembre 2018, cit.
[10] Per un approfondimento circa le diverse posizioni assunte in giurisprudenza e in dottrina sulla tematica relativa ai conflitti di competenza tra Autorità amministrative indipendenti, sia permesso di rinviare a B. RABAI, La tutela del consumatore-utente tra Autorità Antitrust e Autorità di regolazione, cit., ed alla bibliografia ivi contenuta.
[11]Quali nullità/annullabilità del contratto; inefficacia della clausola; azione inibitoria; risarcimento del danno. Sul punto, v. C. GRANELLI, Pratiche commerciali scorrette: le tutele individuali nel disegno di legge-delega di riforma del codice civile, in I Contratti, 2019, 5, pp. 493-500; A.P. SEMINARA, La tutela civilistica del consumatore di fronte alle pratiche commerciali scorrette, ivi, 2018, 6, pp. 689-701.
[12] Detto articolo recepisce il criterio di coordinamento fissato dal legislatore europeo nell’art. 3, comma 4, della direttiva 2005/29/CE, ai sensi del quale «in caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici».
[13] Cfr. Cons. Stato, I, parere 3 dicembre 2008, n. 3999.
[14] Cfr. TAR Lazio, Roma, I, 27 gennaio 2010, n. 19892; Id., 18 gennaio 2010, n. 306; Id., 21 gennaio 2010, n. 647; Id., 19 maggio 2010, n. 12364; Id., 19 maggio 2010, n. 12277.
[15] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen, 11 maggio 2012, cit.
[16] Nonostante la novella legislativa, ha continuato a persistere un orientamento giurisprudenziale adesivo alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 30 luglio 2014, n. 307; Id., 9 aprile 2014, n. 3857; Id., 22 luglio 2013, nn. 7442 e 7464).
[17] Procedura di infrazione 2013/2169, rubricata «Violazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori».
[18] A differenza del principio di specialità, detto principio non poggia su un rapporto logico di norme ma di valore, in virtù del quale l’apprezzamento negativo del fatto concreto appare già ricompreso nella norma che prevede il reato più grave, elaborato il diverso criterio di specialità per progressione di condotte lesive.
[19] Sul punto, v. la sentenza della Corte di Giustizia, II, 16 luglio 2015, 544/13 e 545/13 Abcur, la quale, come rilevato da V. MOSCA, Il riparto di competenza sulla tutela del consumatore all’esame della Corte di Giustizia, in Giornale dir. amm., cit., p. 524, «sembra lasciare aperta la possibilità di … duplice intervento di enforcement, quanto meno in astratto, dal momento che viene indicata la possibilità che una fattispecie soggetta alla normativa speciale sia al contempo suscettibile di ricadere nella sfera applicativa della Dir. 2005/29/CE, sempre che ricorrano le condizioni ai fini dell’applicazione della direttiva medesima».
[20] Tenuto conto di quanto stabilito nelle linee guida richiamate, il 23 dicembre 2016 l’AGCM e l’AGCOM hanno sottoscritto un protocollo d’intesa contente una clausola di coordinamento dei rispettivi interventi in materia di tutela del consumatore. Pur richiamando quanto sancito nelle linee guida, il protocollo precisa come l’applicazione del codice del consumo non sia esclusa per il solo fatto che una disposizione comunitaria regoli aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette, atteso che la disciplina generale è suscettibile di assumere rilevanza al fine di valutare specifici aspetti della pratica commerciale non coperti dalle disposizioni di settore come, a titolo esemplificativo, condotte aggressive da parte del professionista.
[21] Corte di Giustizia, Grande Camera, 5 aprile 2016, 689/13; Puligienica c/ Airgest s.p.a. Nel caso di specie, la Corte di giustizia dell’Unione europea, sollecitata ad esprimersi, in primis, sulla relazione intercorrente tra il ricorso incidentale e ricorso principale nel rito speciale quale quello appalti, per mezzo del rinvio ex art. 267 TFUE azionato dal CGA nel corso del procedimento giurisdizionale introdotto da Puligienica Facility Esco Spa (PFE) contro Airgest Spa (stazione appaltante), nei confronti di Gestione Servizi Ambientali Srl (GSA) e Zenith Services Group Srl (ZS) e concernente la legittimazione o meno dell’aggiudicazione dell’appalto in favore di quest’ultime, pronuncia sentenza con la quale, inter alia, afferma l’indiscutibile facoltà di investire de plano la Corte di giustizia, anche ove sia dato riscontrare una precedente decisione la cui paternità è da ricondurre all’Adunanza plenaria.
[22] I quesiti formulati con l’ordinanza del 17 gennaio 2017, n. 167, sono indirizzati a chiarire se la ratio della direttiva 2005/29 quale “rete di sicurezza” e il principio di specialità, così come inteso dalla direttiva, ostino ad una normativa interna, di derivazione europea, che escluda la competenza delle Autorità di settore a reprimere la violazione di direttive specifiche nei casi in cui sia astrattamente configurabile una pratica commerciale scorretta nonché, più in generale, se la specialità consenta l’applicazione della normativa generale in materia di pratiche scorrette anche laddove esista una disciplina di settore con prerogative regolatorie e sanzionatorie che preveda ipotesi tipiche di «pratiche aggressive» o «in ogni caso aggressive». Occorre rilevare che, successivamente alla citata ordinanza del Consiglio di Stato, il TAR Lazio, nell’ambito di un gruppo di controversie relative al rapporto tra AGCM e l’allora Aeegsi (ora Arera), ha aderito alle perplessità sollevate dalla Sesta Sezione, formulando a sua volta rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, con le ordinanze del 17 febbraio 2017, nn. 2548, 2547, 2550, 2551.
[23] Secondo quanto chiarito nella nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Plenaria, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others v. the Netherland, nella quale i giudici europei hanno elaborato tre criteri sostanziali (qualificazione giuridica data all’illecito dal diritto interno, natura dell’illecito, grado di severità della sanzione), idonei a qualificare una sanzione in senso penale. A livello nazionale, i giudici costituzionali, dopo aver sostenuto per molti anni l’autonomia tra illecito e sanzione amministrativa (i quali seguono i principi sanciti agli artt. 23 e 97 Cost.) e sistema sanzionatorio penale (retto dagli artt. 25 e 27 Cost.) hanno recentemente chiarito che il giudice nazionale non deve utilizzare i criteri Engel «per perseguire l’obiettivo dell’applicazione delle tutele predisposte dal diritto nazionale per i soli precetti e per le sole sanzioni che l’ordinamento interno considera, secondo i propri principi, espressione della potestà punitiva penale dello Stato […]» (Corte Cost., 5 aprile 2017, n. 109). Per un approfondimento sul tema, v. M. ALLENA, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi Cedu, in www.federalismi.it, 2017, 4; F. GOISIS, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e nodi irrisolti, Giappichelli, Torino, 2015.
[24] Cfr. par. 3, infra.
[25] Cfr. art. 649 c.p.p.; art. 4 Protocollo Cedu; art. 50 Carta di Nizza. Per un approfondimento sul tema, v. G. RINALDI-F. GAITO, Introduzione allo studio dei rapporti tra ne bis in idem sostanziale e processuale, in Archivio penale, 2017, 1, 1-26.
[26] Al riguardo il giudice riporta due orientamenti: il primo ritiene venire in rilievo il cd. idem legale, ai sensi del quale sarebbe sufficiente che si modifichi la sola qualificazione giuridica della condotta perché si possa iniziare un secondo processo in applicazione di una diversa norma; il secondo, considerato prevalente, che fa riferimento al c.d. idem factum, per cui il divieto opera se il secondo processo inizia in presenza di un «medesimo fatto» inteso in senso naturalistico, che ricomprenda condotta, nesso di causalità ed evento (Sul punto cfr. Corte Cost., 24 gennaio-2 marzo 2018, n. 43).
[27] Sul punto, v. Protocollo d’intesa AGCM-ART, del 5 novembre 2019; Protocollo d’intesa AGCM-OCF, del 16 luglio 2019; Protocollo d’intesa AGCM-Banca d’Italia e Consob, del 28 novembre 2018, così come integrato dal documento dell’aprile 2019, che ha esteso l’accordo a ANAC e IVASS; Protocollo d’intesa AGCM-AEEGSI, del 23 ottobre 2014; Protocollo d’intesa AGCM-AGCOM, del 23 dicembre 2016.
[28] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo. Un «New Deal» per i consumatori. Bruxelles, 11 aprile 2018 COM(2018)183 final, p. 4.
[29] Approfittando, ad esempio, del recepimento, da parte degli Stati membri, della direttiva 2019/633/UE sulle pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare.
[30] G. GAVAZZI, Delle Antinomie, Giappichelli, Torino, 1959, p. 157.