Rivista della Regolazione dei MercatiCC BY-NC-SA Commercial Licence E-ISSN 2284-2934
G. Giappichelli Editore

Funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali e sussidiarietà tra norme generali e regolazioni settoriali (di Nicola Aicardi)


Under general principles of Italian law the organisational functions of local public services belong to Municipalities, as their “own” and “fundamental” functions according to Article 117, second paragraph, letter p) and Article 118, first paragraph of the Constitution. On the contrary, sector-specific regulations tend to derogate to those principles, dealing the above functions either as functions specifically “assigned” to Municipalities, according to Article 118, second paragraph of the Constitution, or as functions that Municipalities can no longer carry out, in accordance with principle of “horizontal subsidiarity” as stated in Article 118, fourth paragraph of the Constitution (in case of regulations that impose liberalisation or, at least, interdiction of in-house awards), or with principle of “vertical subsidiarity”, as defined by Article 118, first paragraph of the Constitution (in case of regulations that, in order to “ensure uniform implementation” of the functions in question, assign them to State, Regions, optimal size mandatory Associations of Municipalities or, more recently, Provinces, owing to flaws of those Associations).

    

SOMMARIO:

1. La funzione di organizzazione dei servizi pubblici: assunzione, affidamento e regolazione - 2. Il principio base della sussidiarietà verticale nelle norme generali sulla funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali. La funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali come funzione propria e come funzione fondamentale dei Comuni - 3. Le deroghe al principio base nelle norme di settore - 4. La funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali come funzione conferita ai Comuni - 5. Il principio di sussidiarietà orizzontale, in chiave sinergica o astensionista, e i limiti, per i Comuni, alle facoltà di autoproduzione o di assunzione di servizi pubblici - 6. Il moto ascendente del principio di sussidiarietà verticale applicato alla funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali - 7. Segue: a) statalizzazioni e regionalizzazioni - 8. Segue: b) forme associative pluricomunali obbligatorie per am­biti territoriali ottimali - 9. Le difficoltà e i limiti delle forme associative pluricomunali ob­bligatorie per l'esercizio della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali - 10. Il principio di attribuzione alle Province della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali già affidati a forme associative pluricomunali obbligatorie - 11. Segue: l'incerta attuazione del principio - NOTE


1. La funzione di organizzazione dei servizi pubblici: assunzione, affidamento e regolazione

La funzione amministrativa di organizzazione dei servizi pubblici può essere distinta nei due momenti, da un lato, dell’assunzione del servizio da parte dell’ente pubblico che ne prende l’iniziativa, il quale ne diviene il “titolare”, e, dall’altro, della scelta, da parte del medesimo, del modello (o forma) di gestione, con la conseguente individuazione (eccezion fatta per le gestioni in economia) del soggetto gestore – il quale ne diviene l’“affidatario” – e il correlato esercizio, su quest’ultimo, dei connessi compiti di regolazione, e cioè di indirizzo, controllo ecc., oltre che di remunerazione (per la parte non proveniente dagli utenti).

Nello svolgimento della funzione di organizzazione, al momento dell’assun­zione del servizio, in cui l’ente pubblico riconosce che una data attività produttiva di beni o servizi è di pertinenza pubblica, in quanto connessa all’appaga­mento di esigenze di ordine generale della propria collettività, segue, cioè, il momento dell’affidamento, secondo una delle forme predeterminate (tipizzate) dalla legge e poi della regolazione dell’attività del gestore, per assicurare il conseguimento effettivo degli obiettivi cui l’assunzione è rivolta [1].

Questo scritto svolge alcune considerazioni in tema di allocazione della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali alla luce del principio di sussidiarietà, mirando a evidenziare come, in rapporto all’applicazione di questo principio, emerga dall’ordinamento una progressiva erosione, ad opera delle previsioni delle norme di settore, dei principi emergenti dalle enunciazioni generali.

Come si illustrerà, se da un lato le enunciazioni generali valorizzano gli spazi di autonomia comunale nell’esercizio della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali, le norme di settore – e cioè le fonti che disciplinano in via specifica l’ordinamento dei singoli servizi pubblici di maggiore rilevanza (ad es. la distribuzione del gas naturale, la gestione dei rifiuti, il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici locali ecc.) – hanno invece progressivamente ridotto tali spazi, per le ragioni e con gli esiti di cui si dirà (anche, nel più recente periodo, con l’attribuzione di parte dei compiti di regolazione ad autorità indipendenti).


2. Il principio base della sussidiarietà verticale nelle norme generali sulla funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali. La funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali come funzione propria e come funzione fondamentale dei Comuni

A livello di enunciazioni delle norme generali e di principio, l’organizzazione dei servizi pubblici locali è configurata quale ambito di applicazione privilegiata del principio base della sussidiarietà verticale, secondo cui – come è noto – «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni» (art. 118, comma 1, Cost.); questo, peraltro, già storicamente, ossia anche (e ben) prima della riforma costituzionale del 2001, che tale principio ha positivamente espresso.

E infatti, a partire dall’art. 1 della prima legge sui servizi pubblici locali (la legge c.d. Giolitti 29 marzo 1903, n. 103) sino al vigente testo dell’art. 112 TUEL (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), il Comune, quale ente più prossimo alla collettività e interprete primario dei relativi bisogni, è stato costantemente indicato come principale responsabile del compito di selezionare, in base a valutazioni discrezionali, i servizi pubblici da assicurare alla propria collettività e, quindi, da assumere, affidare e regolare.

Se l’art. 1 della legge c.d. Giolitti già consentiva al Comune, in termini generalissimi, di «assumere … l’impianto e l’esercizio diretto dei pubblici servizi», e «segnatamente» di quelli indicati nell’elencazione non tassativa che seguiva, l’art. 112, comma 1, TUEL, con un precetto non dissimile, conferma, quasi un secolo dopo, che il Comune, nell’ambito delle sue competenze, «provved[e] alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali».

Questo riconoscimento di competenza in capo al Comune è, del resto, spe­cificativo della più generale attribuzione a tale ente – ai sensi dell’art. 13, comma 1, TUEL – di «tutte» le funzioni amministrative, non espressamente conferite ad altri livelli di governo, in materia, tra l’altro, di «servizi alla persona e alla comunità».

Si tratta dell’individuazione di un ambito di attività connaturate all’essenza stessa del Comune, quale ente rappresentativo della propria collettività, e dunque dell’individuazione, con finalità eminentemente dichiarative, di una sfera di «funzioni amministrative proprie» del Comune nel senso di cui all’art. 118, comma 2, Cost.; ossia di funzioni che il Comune, in quanto ente a fini generali e migliore interprete delle esigenze della propria collettività, ha facoltà di assumere spontaneamente, anche senza necessità di una previsione legislativa (almeno fintantoché si tratti – come appunto è nel caso dell’organiz­zazione di servizi pubblici locali – di funzioni che non implichino l’esercizio di poteri autoritativi, i quali restano coperti da riserva di legge in ossequio al principio di legalità).

La politicità della scelta compiuta dal Comune all’atto dell’assunzione di un servizio pubblico, dell’individuazione della forma di gestione e dell’adozione delle decisioni fondamentali di regolazione è comprovata, del resto, anche dal fatto che le materie «organizzazione dei pubblici servizi», «costituzione di istituzioni e aziende speciali», «concessione dei pubblici servizi», «partecipazione dell’ente locale a società di capitali», «affidamento di attività o servizi mediante convenzione», «disciplina generale delle tariffe per la fruizione … dei servizi», «indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza» rientrano – tutte – tra le competenze consiliari [art. 42, comma 2, lett. e), f) e g), TUEL].

Quanto ora osservato ha trovato conferma, ancor più recentemente, in sede di definizione, da parte del legislatore statale, delle funzioni fondamentali dei Comuni ai sensi della lett. p) dell’art. 117, comma 2, Cost.: ci si riferisce al vigente testo dell’art. 14, comma 27, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lett. a), d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. con modif. in legge 7 agosto 2012, n. 135, il quale annovera, tra tali funzioni fondamentali, anche l’«organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale» e vi comprende espressamente i servizi di trasporto pubblico comunale e di gestione dei rifiuti urbani [si vedano le lett. b) e f) del cit. comma 14].

L’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni da parte del legislatore statale ha, difatti, una valenza «soltanto attributiva» delle funzioni stesse – come è stato chiarito dalla Corte costituzionale proprio in sede di scrutinio di costituzionalità della norma dianzi citata [2] – e quindi serve ad assicurare ai Comuni l’esercizio di una sfera di competenza (non a renderlo necessariamente doveroso), mentre l’(eventuale) disciplina di tale esercizio rientra nella potestà legislativa di chi, Stato o Regione, sia intestatario della relativa materia [3].

Pertanto, le funzioni fondamentali dei Comuni, qualificate come tali dal legislatore statale, sono funzioni proprie dei Comuni (pur evidentemente non esaurendone il novero, potendo esservi altre funzioni proprie astrattamente assumibili dai Comuni di loro iniziativa senza autorizzazione legislativa, nei limiti – come si è detto – del rispetto del principio di legalità). Ciò traspare, del resto, dalla stessa citata pronuncia della Corte costituzionale, laddove evidenzia che le funzioni fondamentali che il legislatore statale individua ex art. 117, comma 2, lett. p), Cost. «vengono a comporre l’intelaiatura essenziale del­l’ente locale» [4] e quindi – se ne deve dedurre – costituiscono il nucleo indefettibile delle funzioni proprie cui allude l’art. 118, comma 2, Cost. [5].

La medesima sentenza della Corte costituzionale precisa, altresì, che la norma anzidetta correttamente comprende la funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali tra le funzioni fondamentali (e perciò proprie) dei Comuni, rilevando che all’anzidetta intelaiatura essenziale, «anche storicamente» (e cioè, come detto, nel lungo arco di tempo che va dalla legge c.d. Giolitti del 1903 ad oggi), «non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi pubblici locali» [6].

In questo modo, la Corte costituzionale rende di portata generale, ossia riferibile all’intero arco dei servizi pubblici locali, una valutazione da essa in precedenza espressa con specifico riguardo al servizio idrico, le cui funzioni di organizzazione intestate ai Comuni erano state qualificate come fondamentali «sia per ragioni storico-normative sia per l’evidente essenzialità … [del servizio idrico] alla vita associata delle comunità stabilite nei territori comunali» [7].


3. Le deroghe al principio base nelle norme di settore

Se da quanto detto si passa, invece, a esaminare le leggi di settore, ci si avvede, all’opposto, di una tendenza – già presente storicamente, ma accentuatasi nei tempi più recenti – a dare corpo a esigenze e finalità diverse da quelle sottese alle enunciazioni di principio.

Le discipline di settore non sono cioè, il più delle volte, meramente attuative delle disposizioni di principio (e perciò non danno vita, in rapporto a queste ultime, alla normale relazione tra norme di principio e di dettaglio), ma poggiano su presupposti ontologicamente differenti, così da determinare – in ragione del canone ermeneutico della specialità – altrettante deroghe alle medesime, restringendone il campo applicativo.

I presupposti cui le discipline di settore eminentemente rispondono sono difatti quelli che, nell’assetto dell’art. 118 Cost., costituiscono i “contraltari” del principio base della sussidiarietà verticale (palesato invece – come si è detto – nelle disposizioni di principio): ossia, nell’ordine in cui saranno esaminati, (a) la distinzione tra funzioni comunali proprie e conferite; (b) il principio di sussidiarietà orizzontale e (c) il principio di sussidiarietà verticale nel suo aspetto ascendente, derogatorio del principio base.


4. La funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali come funzione conferita ai Comuni

La distinzione tra funzioni comunali proprie e conferite è posta – come è noto – dal comma 2 dell’art. 118 Cost., il quale differenzia le funzioni proprie dei Comuni, a esercizio spontaneo nel senso già sopra precisato, dalle funzioni che i Comuni devono, invece, obbligatoriamente esplicare, perché il legislatore, statale o regionale, ne ha allocato l’esercizio al livello comunale.

Le disposizioni di principio in materia di servizi pubblici locali si limitano – come si è detto – a riconoscere la facoltà dei Comuni di assumere tali servizi, connotando così la decisione di assunzione, e il conseguente svolgimento dei compiti di affidamento e regolazione, come esercizio di una funzione propria, che scaturisce da scelte volontarie e discrezionali, oggi “protette” anche dalla qualificazione della funzione stessa come fondamentale.

Al contrario, laddove intervengano specifiche discipline di settore, esse, di norma, mirano proprio a rendere obbligatoria l’esplicazione dei servizi da esse menzionati, affinché ne sia uniformemente assicurato lo svolgimento sull’intero territorio (nazionale o regionale, a seconda della fonte della disciplina stessa).

In questo caso, i servizi divengono ad assunzione obbligatoria per i Comuni, sicché la relativa organizzazione cessa di essere una funzione propria per divenire una funzione conferita. Per i Comuni viene meno, dunque, la discrezionalità nell’an circa la scelta dell’assunzione del servizio, e, conseguentemente, circa lo svolgimento dei compiti di affidamento e regolazione.

Il fenomeno, invero, non è nuovo.

Sin da tempi non recenti il legislatore statale si è infatti premurato, tramite l’imposizione ai Comuni di servizi obbligatori, che fosse indistintamente garantita su tutto il territorio nazionale l’offerta di servizi pubblici locali primari ed essenziali, specie nel settore dell’igiene pubblica.

Basti pensare, ad esempio, che già il testo unico della legge comunale e provinciale del 1934, qualificando come spese obbligatorie per i Comuni quelle, tra l’altro, per la «nettezza delle vie e piazze pubbliche» e per la «costruzione, manutenzione ed esercizio delle opere di provvista di acqua potabile [e] delle fognature» [8], presumeva l’obbligatorietà dell’assunzione dei relativi servizi. Di lì a breve, con la legge 20 marzo 1941, n. 366, anche «i servizi inerenti alla raccolta, al trasporto e allo smaltimento dei rifiuti urbani» divennero servizi che «competono ai Comuni, i quali sono tenuti a provvedervi con diritto di privativa» (cfr. art. 9).

Merita avvertire che tale obbligatorietà è ovviamente confermata anche nelle norme di settore oggi in vigore (ma – come si dirà – con il vincolo della gestione sovracomunale per ambiti): ci si riferisce al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante il c.d. codice dell’ambiente, e ivi in particolare all’art. 142, comma 3, che affida ai Comuni il compito di «svolg[ere] le funzioni di organizzazione del servizio idrico integrato», e all’art. 198, commi 1 e 2, a mente dei quali «i Comuni concorrono … alla gestione dei rifiuti urbani ed assimilati», e cioè all’or­ganizzazione del relativo servizio, anche con poteri regolamentari su vari aspetti della sua esplicazione (modalità di conferimento dei rifiuti da parte dei residenti, di raccolta e trasporto ecc.).

Peraltro, nell’ipotesi qui contemplata (e cioè quella della gestione del servizio conferita per legge al Comune) il distacco dalle disposizioni di principio non è consistente, perché comunque il servizio resta pubblico e non ne è messa in discussione la titolarità comunale.


5. Il principio di sussidiarietà orizzontale, in chiave sinergica o astensionista, e i limiti, per i Comuni, alle facoltà di autoproduzione o di assunzione di servizi pubblici

Laddove invece assumano rilevanza, nel contesto delle discipline di settore, gli altri due presupposti cui queste – come sopra si è detto – danno corpo (ossia, si ripete, il principio di sussidiarietà orizzontale e il principio di sussidiarietà verticale nel suo aspetto ascendente), ciò implica, all’opposto, una vera e propria sottrazione ai Comuni della funzione di organizzazione dei servizi pub­blici da esse contemplati.

Partendo dal principio di sussidiarietà orizzontale, uno dei campi di sua attuazione più intensa, nel presente momento storico, è proprio quello dei servizi pubblici (non solo locali).

Del resto, il settore dei servizi pubblici è naturalmente portato, più di altri, a essere coinvolto in dialettiche pubblico-privato (conflittuali o collaborative che siano), trattandosi di un ambito d’attività rivolto alla soddisfazione dei bisogni materiali della persona e nel quale il potere autoritativo della pubblica amministrazione – come già si è accennato – non viene in rilievo, se non marginalmente.

Nella più recente legislazione sui servizi pubblici, anche locali, il principio di sussidiarietà orizzontale – a prescindere da come debba leggersi l’enunciazio­ne che ne dà il comma 4 dell’art. 118 Cost. – ha trovato espressione sia nella sua accezione “astensionista”, ossia con il riconoscimento prioritario di spazi di libertà di iniziativa privata e l’imposizione di corrispondenti doveri di arretra­mento della pubblica amministrazione da interventi diretti o, quanto meno, in esclusiva, sia nella sua accezione “sinergica”, con la previsione di forme di co­involgimento gestionale, spesso obbligatorio, dei privati.

Nella seconda accezione, la sussidiarietà orizzontale in chiave sinergica attiene al momento dell’individuazione della forma di gestione dei servizi pubblici (già assunti), allorché la legge ne preveda (o ne imponga) l’affidamento a operatori terzi rispetto all’ente affidante.

In questo caso, invero, la titolarità pubblica della funzione di organizzazione del servizio non viene meno, ma può risultare eliminata, o quanto meno condizionata, la facoltà di autoproduzione del servizio stesso, in via diretta o a mezzo di entità c.d. in house.

Nel campo dei servizi pubblici locali, ad esempio, un divieto di autoproduzione si rinviene nella disciplina di settore in materia di distribuzione del gas naturale, la quale pone quale unica forma di gestione del relativo servizio pub­blico l’affidamento «mediante gara per periodi non superiori a dodici anni» (così l’art. 14, comma 1, d.lgs. 23 maggio 2000, n. 164, c.d. Letta).

Quanto, viceversa, alla prima accezione, la sussidiarietà orizzontale in chia­ve astensionista investe direttamente la permanenza stessa, in capo agli enti pubblici, della titolarità della funzione di organizzazione dei servizi pubblici, perché il riconoscimento, in ordine alle attività che ne costituiscono l’oggetto, di spazi di libertà di iniziativa economica privata implica, come minimo, il venir meno di riserve ed esclusive pubbliche e, il più delle volte, porta alla negazione stessa della natura pubblica dei servizi in questione.

A questo riguardo, è noto che lo scopo di molte discipline di settore, specie in attuazione di direttive dell’Unione europea, è stato, nel più recente periodo, proprio quello di superare la qualificazione di certe attività economiche come servizi pubblici e dunque di vietare la loro (perdurante) organizzazione come tali (spesso, per giunta, in via riservata) da parte degli enti pubblici che ne era­no titolari.

Tali discipline hanno dato luogo, cioè, a processi di liberalizzazione, volti a sostituire la titolarità e la gestione pubblica, diretta o indiretta, di attività economiche in forma di servizio pubblico con libere attività d’impresa rimesse al mercato concorrenziale. Questo nel presupposto che i servizi interessati a tali processi possano essere meglio assicurati alla collettività nel contesto di dinamiche concorrenziali tra più fornitori, che lascino agli utenti piena libertà di scelta dell’offerta più vantaggiosa, anziché vincolarli alla sola offerta del gestore del servizio pubblico in regime di privativa.

Peraltro – come è altrettanto noto – le liberalizzazioni di attività dapprima gestite in regime di servizio pubblico sono state opportunamente accompagnate, il più delle volte, dalla salvaguardia e dal rafforzamento della funzione di regolazione, spesso affidata ad apposite autorità indipendenti; ciò al fine di garantire comunque, anche in un contesto di libertà (d’impresa e di scelta), la soddisfazione degli interessi generali che giustificavano l’assunzione del servizio pubblico e ne costituivano la ragion d’essere (in termini, segnatamente, di qualità, imparzialità e continuità delle prestazioni rese, e cioè anche in una logica di servizio universale) [9].

Gli esempi di liberalizzazione di settori economici prima organizzati in forma di servizio pubblico sono stati, nell’ordinamento positivo, vari e significativi: si pensi, tra gli altri, ai settori delle telecomunicazioni e del trasporto aereo.

Nel campo dei servizi pubblici locali, può essere ricordato il caso dell’attività di fornitura (vendita) del gas naturale, tradizionalmente compresa nell’esclusi­va degli affidatari del servizio pubblico locale di distribuzione e definitivamente liberalizzata, attraverso l’attribuzione a tutti i clienti finali delle qualifica di «idonei» (la quale implica la capacità di concludere contratti con qualunque fornitore), addirittura prima di quanto previsto dalla stessa norma liberalizzatrice di fonte europea [10].

Con riguardo ai Comuni, il riconoscimento di spazi di libertà dei privati e il conseguente dovere di arretramento della sfera pubblica comunale operano eminentemente – come appena detto – in presenza di specifiche limitazioni poste da leggi settoriali di liberalizzazione; al contrario, le norme di principio, già illustrate in precedenza, lasciano una ben più ampia discrezionalità di scelta ai Comuni stessi circa le attività assumibili come servizio pubblico.

Merita segnalare, tuttavia, che in senso diverso disponeva lo schema di d.lgs. recante il testo unico delle norme sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, attuativo degli artt. 16 e 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. Madia), definitivamente approvato, ma mai emanato – come è noto – per la sopravvenienza della declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di delega [11]. Questo schema, infatti, stabiliva che l’assunzione dei servizi pubblici di interesse economico generale non disciplinati da leggi di settore fosse sempre sussidiaria rispetto all’attività dei privati: tale assunzione veniva subordinata alla previa verifica (da attestare in un apposito documento a seguito di una specifica istruttoria) che detti servizi non fossero già forniti né potessero essere forniti da «imprese operanti secondo le normali regole di mercato» in modo soddisfacente e a condizioni coerenti con il pubblico interesse che i Comuni intendevano perseguire mediante l’assunzione stessa; inoltre, i Comuni, anche in caso di esito negativo della predetta istruttoria, erano comunque tenuti a valutare se il pubblico interesse perseguito non potesse essere raggiunto, in maniera meno invasiva della sfera privata, attraverso modalità diverse dall’affidamento del servizio pubblico a un solo operatore economico, e cioè l’imposizione, ove consentito, «di obblighi di servizio pubblico a carico di tutte le imprese che operano nel mercato» ovvero il «riconoscimento agli utenti di vantaggi economici e titoli da utilizzare per la fruizione del servizio» [12].

Sotto altro profilo – tornando al diritto vigente – deve infine essere osservato che le leggi settoriali di liberalizzazione comportano oggi, per l’ente già assuntore del servizio pubblico, non solo la perdita della relativa titolarità, ma anche l’obbligo di dismissione della società partecipata, se vi era, che gestiva in regime di servizio pubblico l’attività poi liberalizzata.

Infatti, un’attività liberalizzata non può più essere considerata, per legge, un servizio pubblico, e cioè un «servizio di interesse generale» secondo la definizione che ne dà, ora, il TUSP (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante il testo unico delle società a partecipazione pubblica) [13]; di conseguenza, l’oggetto della società partecipata non rientra più tra quelli ammessi dal TUSP, il quale, per quanto qui interessa, consente le partecipazioni di amministrazioni pubbliche in società solo, appunto, per la «produzione di un servizio di interesse generale» [cfr. art. 4, comma 1, lett. a), TUSP] [14].

A ciò si aggiunga che la dismissione – oltre che in virtù della generale previsione del TUSP di cui si è appena detto – potrebbe essere imposta anche dalla stessa legge settoriale di liberalizzazione; questo al fine di creare un mercato non solo liberalizzato di diritto, ma anche effettivamente concorrenziale, in contesti che sarebbero altrimenti dominati dall’impresa pubblica già affidataria del servizio pubblico, specie se operava in regime di monopolio.


6. Il moto ascendente del principio di sussidiarietà verticale applicato alla funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali

Come anticipato, il superamento della titolarità comunale della funzione di organizzazione del servizio pubblico per effetto delle discipline di settore si ha anche qualora tali discipline, pur confermando il regime di servizio pubblico di esercizio di una data attività, sottraggano ai Comuni la relativa funzione amministrativa di organizzazione per conferirla a un livello di governo superiore.

Ciò in applicazione – lo si ripete – del “rovescio” del principio di sussidiarietà verticale, ossia per la ravvisata sussistenza di «esigenze di esercizio unitario» ai sensi dell’art. 118, comma 1, Cost. che inducono il legislatore di settore a preferire un’organizzazione (e dunque una gestione) di area più vasta del servizio pubblico considerato.

Spesso, anzi, è proprio l’occasione della sottoposizione di un determinato servizio pubblico a una disciplina di settore a spingere il legislatore, nel contesto della nuova regolazione della materia, alla riallocazione verso l’alto della titolarità della funzione di organizzazione del servizio stesso.

Anche questo fenomeno non è nuovo ed è ricorrente nella storia dei servizi pubblici: basti pensare, ad esempio, che nella lista dei servizi pubblici municipalizzabili di cui all’art. 1 della sopra ricordata legge c.d. Giolitti del 1903 compariva anche l’attività di «costruzione e esercizio di reti telefoniche nel territorio comunale», ma già nel 1923 il servizio venne riservato allo Stato (r.d. 8 febbraio 1923, n. 399).

Nel periodo più recente, tuttavia, il fenomeno ha conosciuto un incremento così ingente, da potersi affermare – come si vedrà – che, almeno nel settore dei servizi pubblici a rilevanza economica, ormai non esistono più, o quasi più, servizi di titolarità (mono)comunale.

Le ragioni sottese alle scelte legislative di riallocazione verso l’alto della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali sono molteplici.

Spesso si tratta della naturale e inevitabile conseguenza della crescita del­l’attività economica di esplicazione di un dato servizio pubblico, il quale, se anche trae origine da iniziative isolate di impianto in singole realtà locali, con la maturazione tecnologica e la diffusione sul territorio si consolida in una dimensione necessariamente sovralocale, non conciliabile con il mantenimento della titolarità del servizio in capo ai Comuni (si pensi, ad esempio, alle reti di trasmissione nei settori dell’energia, delle telecomunicazioni o dei trasporti, che seppure storicamente furono originate da iniziative in ambito locale, hanno ben presto acquisito estensioni nazionali, se non internazionali).

Il servizio cessa cioè, per obiettive e vincolanti ragioni tecniche, di essere un servizio pubblico locale.

Ma anche laddove non vi siano ragioni tecniche oggettivamente ostative della conservazione della competenza comunale in ordine al servizio pubblico, comunque l’elevazione della titolarità e, per conseguenza, dell’offerta su basi territoriali più ampie viene ricercata dalle leggi di settore perché consente eco­nomie di scala, risparmi di costi e sinergie – specialmente nel caso delle attività di gestione di reti e impianti, che richiedono ampi capitali di investimento (sono, cioè, capital intensive) – così da fare meglio fronte alla crescente complessità di esercizio e alla domanda di qualità delle prestazioni, anche tenuto conto, spesso, della concreta insoddisfazione generata dalle gestioni (mono)comunali dei servizi considerati.

Si pensi, ad esempio, a quanto sia diventato più oneroso e impegnativo, nel più recente periodo, lo svolgimento di servizi pubblici ambientali di tradizionale pertinenza comunale (quali la gestione dei rifiuti urbani o del ciclo del­l’acqua), a causa dell’introduzione di normative tecniche sempre più sofisticate per la tutela dell’ambiente dagli inquinamenti.

Sotto un diverso profilo, la riorganizzazione del servizio pubblico su basi territoriali più vaste, da parte delle leggi di settore, è funzionale anche a una migliore esplicazione del libero gioco della concorrenza, laddove sia scelta (o imposta per legge) la via della gara, svolta dal titolare del servizio, per l’affida­mento della relativa gestione. Infatti, solo le gare per ambiti territoriali adeguati riescono a essere remunerative in misura tale da suscitare l’interesse alla partecipazione di un congruo numero di operatori economici, così da permettere di beneficiare pienamente degli effetti della messa in concorrenza della gestione: come è noto, maggiore è il numero degli offerenti e più ampia è la possibilità di scelta consentita all’amministrazione affidante ai fini dell’individuazio­ne dell’offerta che effettivamente risulti essere la più vantaggiosa e la più rispondente ai bisogni della collettività interessata [15].


7. Segue: a) statalizzazioni e regionalizzazioni

La riallocazione verso l’alto della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali, seguendo il moto ascendente del principio di sussidiarietà verticale, ha talora portato, come già si è accennato, al superamento stesso del carattere locale del servizio, con la sua statalizzazione o regionalizzazione.

Un caso abbastanza recente di statalizzazione di un servizio pubblico locale ha riguardato il servizio di distribuzione dell’energia elettrica.

All’epoca della nota statalizzazione coattiva delle attività di produzione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica, assegnate ex lege in via riservata all’ente pubblico Enel in veste di titolare e gestore del relativo servizio pubblico (legge 6 dicembre 1962, n. 1643), erano state salvaguardate le attività svolte dalle esistenti imprese elettriche dei Comuni, sino ad allora affidatarie di un servizio pubblico assunto in sede locale. Era stato, invero, previsto che i Comuni proprietari di tali imprese divenissero concessionari dell’Enel [16], ma la norma rimase inattuata, sicché le imprese in questione continuarono a operare, di fatto, in regime di servizio pubblico locale.

A seguito della liberalizzazione del settore, disposta con il d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79, è rimasta assoggettata a regime di servizio pubblico, mediante concessioni, la sola attività di distribuzione dell’energia elettrica (oltre all’attivi­tà di trasmissione).

Il potere concessorio è stato tuttavia attribuito allo Stato, per il tramite del Ministero oggi denominato dello sviluppo economico [17]: in tal modo, si è operata la definitiva statalizzazione della titolarità del servizio pubblico in questione, con la soppressione di ogni residua competenza, anche solo fattuale, dei Comuni.

Un altro significativo caso di superamento della titolarità comunale di un servizio pubblico – estendendo l’analisi anche oltre la sfera dei servizi di tipo più strettamente industriale – è rappresentato dal servizio sanitario.

Come è noto, al momento della sua istituzione (legge 23 dicembre 1978, n. 833), per la gestione del servizio furono create strutture operative dei Comuni, singoli o talora associati – le unità sanitarie locali (usl) – connotando pertanto il servizio come di titolarità comunale.

A seguito della riforma operata dal d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, è stata invece determinata l’estromissione pressoché totale dei Comuni dall’organiz­zazione del servizio in questione, mediante la riallocazione del servizio stesso in capo alle Regioni e la trasformazione delle usl in aziende regionali.


8. Segue: b) forme associative pluricomunali obbligatorie per am­biti territoriali ottimali

Meno drastico, rispetto al superamento dello stesso carattere locale del ser­vizio pubblico, è invece il caso in cui la disciplina di settore confermi tale carattere, ma preveda che i Comuni esercitino la funzione di organizzazione del servizio in forma associata per ambiti territoriali “ottimali”, e cioè ambiti che rappresentino la dimensione spaziale più adeguata in vista della gestione maggiormente proficua del servizio stesso, in termini di efficienza, efficacia ed economicità.

Non ci si riferisce, ovviamente, ai casi in cui la messa in atto di forme di aggregazione tra Comuni per l’organizzazione di servizi pubblici locali derivi da loro decisioni spontanee: in simili circostanze, infatti, la scelta è compiuta dai Comuni volontariamente, quale modo di esercizio discrezionale di funzioni loro “proprie” nel senso già sopra precisato.

Le ipotesi prese in considerazione sono, invece, quelle in cui l’esercizio associato sia prescritto (e perciò imposto) da norme di settore, e cioè ipotesi in cui, pur rimanendo (formalmente) salvaguardata la natura locale del servizio, il Comune singolo risulti spogliato dell’esercizio individuale della relativa funzione di organizzazione, che transita per legge in capo alla forma associativa cui viene intestato dalla disciplina di settore.

Si tratta di un caso emblematico di applicazione, da parte del legislatore, del principio di sussidiarietà verticale secondo i canoni di «differenziazione ed adeguatezza» espressamente indicati dall’art. 118, comma 1, Cost.: difatti, l’esercizio della funzione amministrativa viene allocato su ambiti che possono essere variamente dimensionati, e per ciò tra di loro opportunamente “differenziati” in ragione della rispettiva “adeguatezza” al perseguimento delle esigenze di interesse generale sottese all’assunzione del servizio pubblico.

Al riguardo, possono essere prese in considerazione anche le previsioni che impongono ai Comuni di minori dimensioni la gestione associata di tutte le loro funzioni fondamentali [18]: queste previsioni riguardano, infatti, anche la fun­zione di organizzazione dei servizi pubblici locali, perché questa – già lo si è detto – è stata espressamente qualificata come funzione fondamentale dal legislatore statale.

Peraltro, di rilevanza sicuramente maggiore ai fini del presente discorso so­no le norme di settore relative a singoli servizi pubblici locali, le quali hanno imposto, con carattere di generalità (e cioè a prescindere dalla dimensione dei Comuni interessati), l’esercizio associato sovracomunale della relativa funzione di organizzazione per ambiti territoriali ottimali, in vista dell’obiettivo dell’af­fidamento del servizio a un unico gestore sull’intero ambito [19].

Ci si riferisce, anzitutto, al servizio idrico integrato, del quale già la legge di prima istituzione (e cioè la legge 5 gennaio 1994, n. 36, c.d. Galli) stabilì l’or­ganizzazione «sulla base di ambiti territoriali ottimali», rimettendo alle Regioni la delimitazione degli stessi e l’individuazione dei modi di cooperazione tra i Comuni in essi ricadenti (cfr. artt. 8 e 9).

Di lì a breve, anche riguardo al servizio di gestione dei rifiuti urbani l’art. 23 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (c.d. Ronchi) ne delineò l’organizzazione per «ambiti territoriali ottimali», coincidenti, di norma, con le Province, salvo diversa scelta della Regione [cfr. l’art. 19, comma 1, lett. g), del medesimo d.lgs.], affidando alle Regioni la disciplina delle forme di cooperazione tra i Comuni ri­cadenti in ciascun ambito e alle Province il coordinamento dei Comuni stessi per l’attuazione della forma di cooperazione.

Le disposizioni relative a tali due servizi sono state poi trasfuse nel già ricordato c.d. codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), il quale ha prefigurato, in maniera ancor più stringente, la costituzione, secondo le previsioni delle leggi regionali, di apposite autorità d’ambito, quali figure dotate di distinta personalità giuridica obbligatoriamente partecipate dai Comuni ricadenti in ciascun ambito, in capo alle quali viene allocato l’esercizio di ogni funzione attinente all’organizzazione dei servizi in questione (cfr. gli artt. 148 e 201, d.lgs. n. 152/2006, cit., rispettivamente per il servizio idrico integrato e per il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani).

Un’attuazione di tali disposizioni evidentemente non corrispondente a principi di efficiente dimensionamento degli ambiti ottimali e di contenimento dei costi delle nuove strutture ha indotto il legislatore statale dapprima a indicare alle Regioni di rideterminare gli ambiti valutandone prioritariamente la coincidenza con i territori provinciali [20] e poi, in maniera ben più perentoria, a disporre la soppressione delle stesse autorità d’ambito previste dai citati artt. 148 e 201, d.lgs. n. 152/2006, rimettendo alle Regioni il compito di attribuire le funzioni di tali autorità «nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza» [21].

Peraltro, tale soppressione era prevista con decorrenza dal 31 dicembre 2012 [22], ma nelle more è intervenuto l’art. 3-bis, d.l. 13 agosto 2011, n. 138 [23], il quale ha pienamente ristabilito il sistema degli ambiti e dei relativi enti di governo, imponendolo, per giunta, per tutti i servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica. Infatti, tale art. 3-bis, al comma 1 [24], ha prescritto, entro il 30 giugno 2012, lo svolgimento di tutti i «servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica» per «ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei» – di norma non inferiori al territorio provinciale (salvo diversa scelta motivata) – tali da consentire «economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio» e l’istituzione o la designazione degli «enti di governo» di detti ambiti o bacini, rimettendo sia la delimitazione degli ambiti sia la disciplina degli enti alle leggi regionali. Il comma 1-bis del medesimo art. 3-bis [25] ha ulteriormente precisato che l’esercizio della funzione di organizzazione dei predetti servizi pubblici, tra i quali vengono espressamente compresi anche «quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani» [26], spetta «unicamente» agli enti di governo, ai quali i Comuni «partecipano obbligatoriamente».

Con riguardo al servizio idrico integrato, il riferimento agli «enti di governo» è stato infine specificamente inserito, nel contesto del d.lgs. n. 152/2006, ad opera dell’art. 7, comma 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. con modif in legge 11 novembre 2014, n. 164, il quale ha sostituito, in tutta la parte III del d.lgs. n. 152/2006, la denominazione “autorità d’ambito” con “ente/i di governo dell’ambito”, ribadendo l’obbligatoria partecipazione dei Comuni a tali enti e affidando loro l’esercizio delle funzioni amministrative di organizzazione del servizio [27].

Per quanto concerne, invece, il servizio di distribuzione del gas naturale, l’organizzazione per «ambiti territoriali minimi … secondo l’identificazione di bacini ottimali di utenza» è stata prevista dall’art. 46-bis, comma 2, d.l. 1° ottobre 2007, n. 159, conv. con modif. in legge 29 novembre 2007, n. 222, che ne ha demandato la delimitazione a decreti del Ministro dello sviluppo economico (di concerto con il Ministro per gli affari regionali) [28].

Ai Comuni compresi in ciascun ambito è stato imposto di sottoscrivere una convenzione, attribuendo per delega a uno di essi – e cioè il Comune capoluogo di provincia o, se non compreso nell’ambito, altro Comune individuato come capofila ovvero la Provincia – il ruolo di stazione appaltante per la gestione della gara per l’affidamento del servizio nell’ambito, la sottoscrizione del contratto di servizio e la cura di ogni rapporto con l’affidatario [29]. In forza del­l’art. 24, comma 4, d.lgs. 1° giugno 2011, n. 93 è stato, poi, definitivamente vietato ai Comuni singoli di effettuare gare per l’affidamento del servizio sul loro territorio.


9. Le difficoltà e i limiti delle forme associative pluricomunali ob­bligatorie per l'esercizio della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali

Questo excursus normativo dimostra – come già si è accennato – che il fenomeno della riallocazione obbligatoria dell’esercizio delle funzioni amministrative di organizzazione dei servizi pubblici locali a livello sovracomunale, vuoi presso enti di governo d’ambito vuoi mediante delega a un ente capofila, riguarda ormai pressoché tutti i servizi pubblici locali a rilevanza economica presi in considerazione da norme di settore.

E infatti, se si tiene conto che, come detto, a tale fenomeno sono interessati, specificamente ed espressamente, il servizio idrico integrato, il servizio di gestione dei rifiuti urbani e il servizio di distribuzione del gas naturale nonché, in quanto servizio “a rete” agli effetti del citato art. 3-bis, comma 1, d.l. n. 138/2011 [30], il servizio di trasporto pubblico locale, il solo servizio pubblico locale di rilevanza economica regolato da leggi di settore sottratto (per ora) a questa evoluzione appare essere quello delle farmacie comunali.

La gestione associata nelle forme sin qui descritte preserva, almeno formalmente, il ruolo dei Comuni, benché – come detto – non più singolarmente, ma solo in quanto aderenti alla forma associativa imposta. In proposito, anche la Corte costituzionale ha evidenziato che i Comuni non sono menomati nella loro autonomia da moduli organizzativi di questo tipo, i quali si limitano a «razionalizzarne le modalità di esercizio» delle funzioni, attraverso l’imputazione delle stesse a un ente di governo cui essi obbligatoriamente partecipano [31].

Nella sostanza, tuttavia, non si può mancare di rilevare come, nel contesto delle forme associative, la posizione dei Comuni singoli, specie se minori, non sia tale da consentire loro di esercitare un’influenza effettiva sulle scelte da assumere. Ciò specie laddove nelle leggi regionali le circoscrizioni degli ambiti siano state delineate in maniera ampia [32].

Questo esito è per tanti aspetti inevitabile e la stessa Corte costituzionale non ha mancato di sottolineare come l’ente di governo della forma associativa debba disporre della «potestà di decidere in via definitiva, operando una sintesi delle diverse istanze e dei concorrenti, e in ipotesi divergenti, interessi» dei Comuni singoli, i quali sono «portatori di istanze potenzialmente frammentarie», di cui l’ente di governo «deve tener conto …, ma che non possono condizionar[n]e in modo insuperabile l’attività» [33].

A ciò ulteriormente si aggiunga che le stesse prerogative degli enti di governo sono state a loro volte erose, nei tempi più recenti, dalle competenze attribuite dalla legislazione statale alle autorità indipendenti di regolazione: se infatti originariamente tali competenze erano limitate, per quanto riguarda i servizi pubblici locali, al solo settore della distribuzione del gas naturale, ultimamente esse sono state estese anche ai settori del trasporto pubblico locale, del ciclo idrico e della gestione dei rifiuti urbani [34]. Nella funzione di organizzazione dei servizi pubblici di competenza degli enti di governo d’ambito si assiste, pertanto, a una separazione delle fasi di assunzione e di affidamento rispetto a quella di regolazione, che viene riallocata, in buona parte, in capo alle autorità indipendenti, onde garantirne maggiore tecnicità e imparzialità di eser­cizio, in vista dell’efficienza e dell’economicità delle gestioni [35].

La qualificazione come “locali” dei servizi pubblici in questione si rivela, dunque, ormai poco più che un’etichetta formale, che può salvare le apparenze, ma alla quale tendono a non corrispondere più, nella sostanza, prerogative significative dei Comuni singolarmente considerati nell’organizzazione dei servizi stessi, e cioè nell’esercizio di una funzione che, stando alle previsioni generali e di principio, ne dovrebbe connotare l’autonomia nel senso già sopra precisato [36].

Peraltro, se la scelta di allocare l’esercizio della funzione di organizzazione di tali servizi pubblici in capo a forme associative non vale, come detto, a preservarne la genuina “località”, essa sovente implica, d’altra parte, una qualche macchinosità decisionale e quindi un deficit di efficienza nell’esercizio della funzione stessa: la relazione di tipo associativo tra i Comuni non consente infatti di escludere un certo grado di conflittualità tra gli stessi e il rischio che alcuni di essi possano giovarsi, anche pretestuosamente, di poteri di interdizione e veto in ordine all’assunzione delle decisioni fondamentali di spettanza della forma associativa.

Inoltre, la previsione degli ambiti territoriali da parte di più distinte leggi di settore ha condotto (anche a causa, talora, della differente allocazione della funzione di loro delimitazione) a una proliferazione di circoscrizioni e di strutture differenti, a tutto discapito delle esigenze di razionalità, economicità e semplificazione organizzativa, costringendo i Comuni a districarsi tra più forme associative, spesso diverse per ciascun servizio pubblico locale regolato da leggi di settore [37].


10. Il principio di attribuzione alle Province della funzione di organizzazione dei servizi pubblici locali già affidati a forme associative pluricomunali obbligatorie

Quanto ora evidenziato induce a considerare maturi i tempi per giungere a un distacco ancor più netto dell’esercizio delle funzioni in discorso rispetto ai Comuni, prendendo atto del dato, ormai ineludibile, che i servizi pubblici a rilevanza economica oggi organizzati attraverso forme associative pluricomunali obbligatorie hanno perso il loro carattere autenticamente locale.

E invero, sembra di poter dire che tali funzioni, in applicazione del principio di sussidiarietà verticale in senso ascendente, ben possano oggi risultare più adeguatamente gestite, in modo unitario, a un livello istituzionale più elevato, in cui la maggiore dimensione dell’ente meglio corrisponda all’attuale natura degli interessi da perseguire.

In questo senso, del resto, è già chiaramente orientata una significativa disposizione di principio della più recente fonte organica di riforma dell’ordina­mento degli enti locali, e cioè la legge 7 aprile 2014, n. 56 (c.d. Delrio).

Ci si riferisce all’art. 1, comma 90 di tale legge, relativo, secondo l’espres­sione testuale usata dalla norma stessa, proprio allo «specifico caso» qui in esame, e cioè all’ipotesi in cui «disposizioni normative statali o regionali di settore riguardanti servizi di rilevanza economica prevedano l’attribuzione di funzioni di organizzazione dei predetti servizi, di competenza comunale o provinciale, ad enti o agenzie» operanti «in ambito provinciale o sub-provinciale».

In tale circostanza, la norma pone, per il competente legislatore di settore, statale o regionale, il principio – qualificato come principio fondamentale della materia e principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost. – di attribuire le funzioni in questione alle Province, sopprimendo gli enti o le agenzie già titolari delle funzioni stesse; ciò, ovviamente, ferme restando le attribuzioni delle autorità indipendenti di regolazione.

Questa previsione sancisce, in diritto positivo, quanto sopra rilevato, e cioè che, ogniqualvolta il legislatore di settore abbia superato la dimensione (mono)comunale di organizzazione di un dato servizio pubblico, prevedendo per l’esercizio della relativa funzione una forma associativa obbligatoria tra i Comuni, a base provinciale o anche infra-provinciale, tale funzione non può più essere considerata di stretta pertinenza comunale.

Traendo da ciò le dovute conseguenze, la norma stabilisce quindi, con disposizione di principio, la definitiva sottrazione dell’anzidetta funzione ai Comuni e la sua riallocazione in capo alle Province (o – si deve ritenere – alle Città metropolitane), salvo rimettere alle leggi di settore la concreta disciplina dell’organizzazione provinciale (o metropolitana) del suo esercizio, ivi comprese le «forme di coordinamento» con la Regione a monte e i Comuni a valle, e della conseguente successione tra gli enti interessati [38].

Ai sensi di questa disposizione, si può dunque affermare che le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici già conferite dalle leggi di settore ai Comuni, ma rese sovralocali in ragione dell’obbligo di esercizio in forma associata per abiti territoriali di dimensione provinciale (o anche infra-provinciale), sono oggi da considerare funzioni di spettanza provinciale (o metropolitana) [39].

Questo peraltro va detto, per logica e coerenza, non solo nel caso, al quale la norma fa testuale riferimento, in cui la forma associativa pluricomunale imposta dalle leggi di settore si sostanzi in una distinta figura soggettiva (ente o agenzia), ma anche laddove (come nel caso della disciplina di settore del servizio di distribuzione del gas naturale) essa sia rappresentata da una convenzione intercomunale con delega di funzioni in capo a uno dei Comuni partecipanti.

Inoltre, benché la norma si applichi alle forme associative previste dalle leg­gi di settore di dimensione al massimo provinciale e dunque non preveda, qualora gli enti di governo dell’ambito abbiano una circoscrizione più ampia (pluriprovinciale o regionale), un’analoga attribuzione alle Regioni delle funzioni di tali enti, nondimeno è da ritenere applicabile l’anzidetto principio di riallocazione in capo alle Province delle funzioni, attualmente assegnate ai Comuni, di concorso alla formazione degli organi degli enti in questione e di collaborazione procedimentale con i medesimi, eventualmente prevedendo forme associative obbligatorie tra le Province stesse (anziché tra una molteplicità, difficilmente governabile, di Comuni).


11. Segue: l'incerta attuazione del principio

Il principio di cui ora si è detto non è stato smentito dalla legislazione successiva; questo appare già di per sé un dato significativo, tenuto conto della rapida mutevolezza e dell’instabilità che connota la produzione normativa degli ultimi anni in materia di servizi pubblici locali.

Si noti, al riguardo, che la legge di stabilità di pochi mesi successiva alla legge n. 56/2014, e cioè la già ricordata legge n. 190/2014, pur introducendo – come si è illustrato – norme volte a rendere ancora più stringente l’obbligo per i Comuni di aderire agli enti di governo degli ambiti territoriali ottimali, e cioè pur operando per mettere in atto un assetto organizzativo che il principio suddetto intende superare, mantiene comunque espressamente fermo, in prospettiva, il principio stesso [40]-[41].

Tuttavia, a più di quattro anni dall’entrata in vigore della norma, il principio anzidetto risulta privo di significative applicazioni [42]. Solo alcune delle leggi regionali di riordino delle funzioni a seguito della legge n. 56/2014 ne tengono conto, ma unicamente per rinviarne l’attuazione a futuri disegni di legge, di cui non consta l’avvenuta approvazione [43]; in un caso, poi, la stessa norma che effettuava il rinvio a un futuro disegno di legge è stata successivamente abrogata [44].

Certo, l’innovazione è di impatto significativo, se si considera che – come si è detto – la funzione di organizzazione dei servizi pubblici in questione è sempre tradizionalmente appartenuta ai Comuni, ancorché, nei tempi più recenti, obbligatoriamente da esercitarsi in forma associata.

Inoltre, l’esitazione nell’attuazione del principio è stata senz’altro comprensibile nel periodo in cui era in corso l’approvazione di un progetto di revisione costituzionale che mirava alla soppressione delle Province.

Peraltro, una volta preso atto, con l’esito negativo del referendum confermativo della riforma costituzionale del 2016, che le Province continuano a fare parte dell’assetto dei poteri locali, il trapasso alle Province (o alle Città metropolitane) delle funzioni dei Comuni in attuazione del principio suddetto risulta indubbiamente agevolato, rispetto al passato, per la circostanza che, in forza della stessa legge n. 56/2014, le Province e le Città metropolitane, pur non essendo equiparabili a (mere) associazioni di Comuni (perché sono enti autonomi, anche ai sensi dell’art. 114, comma secondo Cost., capaci di esprimere un proprio indirizzo politico-amministrativo), sono oggi configurate quali enti in cui l’elettorato attivo e passivo per l’elezione degli organi fondamentali spetta agli eletti nei Comuni (Sindaci e consiglieri comunali) [45]; dunque, gli eletti nei loro organi di governo sono indirettamente rappresentativi anche degli interessi delle collettività comunali di cui i loro elettori sono a loro volta esponenziali.

A questo riguardo, è significativo che la norma in esame si premuri di precisare che la riallocazione delle funzioni di cui trattasi avviene in capo alle Province «nel nuovo assetto istituzionale», e cioè in capo a enti nel cui governo i Comuni sono assai più profondamente coinvolti che nel passato.

Nello stesso senso è la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha già avuto modo di precisare che l’attuazione di questa norma darà luogo a «un trasferimento delle funzioni [dei Comuni e dei relativi enti o agenzie di governo dell’ambito], per ragioni di esercizio unitario, presso le Province, attualmente caratterizzate come enti di secondo grado» [46]: nel pensiero della Corte è, cioè, anche la caratterizzazione delle Province quali enti di secondo grado a legittimare la riallocazione in capo a esse di funzioni comunali fondamentali.

A tutto ciò si aggiunga, in chiave retrospettiva, che la scelta di conferire in capo alle Province (o alle Città metropolitane) la funzione di organizzazione dei servizi pubblici in parola, per la ragione che questi hanno assunto una rilevanza di dimensioni provinciali (o metropolitane), non rappresenta una scelta anomala nel quadro ordinamentale dei servizi pubblici locali.

Va ricordato, infatti, che le norme di principio in materia di servizi pubblici locali – e cioè le medesime disposizioni di cui si è dato conto all’inizio di questo scritto con riferimento ai Comuni – hanno sempre consentito alle Province di istituire servizi pubblici di interesse provinciale. Per quanto si tratti di disposizioni scarsamente messe in atto, così disponeva già il r.d. 30 dicembre 1923, n. 3047, che integrò in tal senso le norme della legge c.d. Giolitti del 1903, e così tuttora stabilisce l’art. 112, comma 1, TUEL, la cui previsione, già sopra riportata, non vale solo per i Comuni, ma per tutti gli «enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze», e quindi anche per le Province e le Città metropolitane (che sono parimenti «enti locali» ai sensi dell’art. 2 TUEL).

Del resto, anche la già ricordata legge n. 244/2007 non solo richiedeva un dimensionamento degli ambiti territoriali per l’organizzazione del servizio idrico integrato e del servizio di gestione dei rifiuti urbani pari almeno al territorio provinciale, ma stabiliva anche, molto chiaramente, il principio per cui, in alternativa all’attribuzione delle funzioni in materia di organizzazione di tali servizi alle forme associative tra i Comuni, le leggi regionali potessero scegliere di assegnare dette funzioni alle Province ovvero, «in caso di bacini di dimensioni più ampie del territorio provinciale», alle Regioni o alle Province interessate sulla base di appositi accordi [47].

Coerente con quanto sopra è dunque, oggi, anche la previsione di cui all’art. 1, comma 44, legge n. 56/2014 che include tra le funzioni fondamentali delle Città metropolitane pure quella di «organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano». Questo significa che le Città metropolitane non solo sono da considerare titolari, come si è detto, delle funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica già conferite dalle leggi di settore alle forme associative tra i Comuni compresi nel territorio metropolitano, ma sono investite, quale loro funzione fondamentale (e quindi propria, nel senso già illustrato all’inizio di questo scritto), anche della facoltà di assumere l’organizzazione di ogni altro servizio pubblico ritenuto di dimensione metropolitana (con conseguente legittima sottrazione della relativa competenza ai Comuni singoli o volontariamente associati) [48].


NOTE

[1] Per questa definizione “soggettiva” di servizio pubblico v. G. CAIA, La disciplina dei servizi pubblici, in L. MAZZAROLLI ET AL. (a cura di), Diritto amministrativo, IV ed., vol. II, Monduzzi, Bologna, 2005, pp. 155-156.

[2] Corte Cost., 11 febbraio 2014, n. 22, punto 4.1.3 in diritto. Peraltro, sembra in contrasto con questa interpretazione la circostanza che il legislatore statale prescriva come «obbligatorio» l’esercizio da parte dei Comuni delle funzioni fondamentali (cfr. il comma 26 dell’art. 14 citato in testo).

[3] Il punto è stato testualmente confermato dal legislatore con riguardo alle funzioni fondamentali delle Province (ma è evidente che altrettanto debba dirsi circa le funzioni fondamentali dei Comuni): l’art. 1, comma 87, legge 7 aprile 2014, n. 56 (sulla quale cfr. amplius infra in testo) stabilisce infatti che dette funzioni, come elencate dal precedente comma 85, «sono esercitate nei limiti e secondo le modalità stabilite dalla legislazione statale e regionale di settore, secondo la rispettiva competenza per materia ai sensi dell’articolo 117, commi secondo, terzo e quarto, della Costituzione».

[4] Cfr. ancora Corte Cost., n. 22/2014, cit., sempre al punto 4.1.3 in diritto.

[5] Le funzioni fondamentali sono, cioè, «parte delle funzioni proprie» e, più esattamente, sono «la parte insopprimibile delle funzioni proprie»: così E. FOLLIERI, Le funzioni amministrative nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, in Regioni, 2003, p. 450.

[6] Corte Cost., n. 22/2014, ibidem.

[7] Così Corte Cost., 20 novembre 2009, n. 307, punto 5.2 in diritto (se ne veda la nota di F. MERLONI, Una “new entry” tra i titoli di legittimazione di discipline statali in materie regionali: le “funzioni fondamentali” degli enti locali, in Regioni, 2010, p. 794 ss.). Si noti invece che, in base alla medesima sentenza, non attiene a funzioni fondamentali dei Comuni la regolamentazione delle modalità di affidamento (e quindi di gestione) del servizio idrico (ivi, punto 6.1 in diritto). Nel senso della non attinenza della gestione dei servizi pubblici a funzioni fondamentali dei Co­muni, per difetto del carattere della “indefettibilità”, cfr. anche Corte Cost., 27 luglio 2004, n. 272, punto 3 in diritto, cui adde Corte Cost., 17 novembre 2010, n. 325, punto 7 in diritto, la quale ribadisce che la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali non è funzione fondamentale dei Comuni (richiamando, a sostegno, ambedue i precedenti costituiti da Corte Cost., n. 272/2004 e n. 307/2009, cit.).

[8] Cfr. l’art. 91, lett. C), n. 2) e n. 14) del r.d. 3 marzo 1934, n. 383. Si veda anche l’art. 248 del coevo testo unico delle leggi sanitarie (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), in base al quale ogni Comune doveva «essere fornito, per uso potabile, di acqua pura e di buona qualità» e poteva «essere, con decreto del prefetto, obbligato a provvedersene», qualora «l’acqua potabile manc[asse], … [fosse] insufficiente ai bisogni della popolazione o … insalubre».

[9] Per questi aspetti, tra i molti, M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e profili ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1998, p. 184 ss.; S. CASSESE, Regolazione e concorrenza, in G. TESAURO-M. D’ALBERTI (a cura di), Regolazione e concorrenza, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 11 ss.; F. MERUSI, Le leggi del mercato, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 59-87; L. DE LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Giappichelli, Torino, 2002; D. SORACE, La desiderabile indipendenza della regolazione dei servizi di interesse economico generale, in Merc. conc. reg., 2003, p. 337 ss.; G. NAPOLITANO, Regole e mercato nei servizi pubblici, Il Mulino, Bologna, 2005; S. TORRICELLI, Il mercato dei servizi di pubblica utilità, Giuffrè, Milano, 2007; F. GIGLIONI, L’accesso al mercato nei servizi di interesse generale, Giuffrè, Milano, 2008; E. BRUTI LIBERATI-F. DONATI (a cura di), La regolazione dei servizi di interesse economico generale, Giappichelli, Torino, 2010; G. CARTEI, Il servizio universale, in Enc. dir.Annali, vol. III, Giuffrè, Milano, 2010, p. 1057 ss.; M. RAMAJOLI, Liberalizzazioni: una lettura giuridica, in Dir econ., 2012, pp. 509-512; N. BASSI, Gli obblighi di servizio pubblico come strumenti polifunzionali di regolazione dei mercati, in questa Rivista, 2014, 2, p. 127 ss.; G. PITRUZZELLA, I servizi pubblici economici tra mercato e regolazione, in M.A. SANDULLI-L. VANDELLI (a cura di), I servizi pubblici economici tra mercato e regolazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, p. 5 ss.; A. MASSERA, I servizi pubblici tra regole della concorrenza e responsabilità pubblica, in Dir. pubbl., 2019, p. 439 ss.; E. BRUTI LIBERATI, La regolazione indipendente dei mercati, Giappichelli, Torino, 2019.

[10] Si veda l’art. 22, comma 2 del già citato d.lgs. n. 164/2000, nella sua versione originale, che rese tutti i clienti idonei dal 1° gennaio 2003, mentre in sede europea tale stesso effetto fu previsto solo a partire dal 1° gennaio 2007 [cfr. art. 23, par. 1, lett. c), direttiva 2003/55/CE].

[11] Corte Cost., 25 novembre 2016, n. 251.

[12] Si vedano, in particolare, gli artt. 5 e 6 dello schema di d.lgs. recante il testo unico.

[13] Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. h), TUSP per «servizi di interesse generale» si intendono «le attività di produzione e fornitura di beni o servizi … che le amministrazioni pubbliche, nel­l’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale»: appare evidente la sostanziale coincidenza di questa definizione rispetto a quella di servizio pubblico di cui al già ricordato art. 112, comma 1, TUEL

[14] Resta peraltro salvo il diritto dei Comuni di partecipare a «società quotate», come definite dall’art. 2, comma 1, lett. p), TUSP, nonché a «società da esse controllate», perché per tali società, in forza dell’art. 1, comma 5, TUSP, non valgono i limiti di oggetto di cui al successivo art. 4, e altresì, alle condizioni indicate dall’art. 4, comma 9-bis, TUSP, a società «che producono servizi economici di interesse generale a rete … anche fuori dall’ambito territoriale della collettività di riferimento».

[15] Nel senso che il superamento della frammentazione gestionale nei servizi pubblici locali serve a promuovere «la concorrenzialità e l’efficienza delle prestazioni» Corte Cost., 24 luglio 2009, n. 246, punto 12.2 in diritto (riferita al servizio idrico integrato).

[16] Art. 4, n. 5), legge n. 1643/1962, citata in testo.

[17] Art. 1, comma 1 e art. 9, d.lgs. n. 79/1999, citato in testo.

[18] Cfr. il comma 28 del già citato art. 14, d.l. n. 78/2010, come sostituito dalla lett. b) del già citato art. 19, comma 1, d.l. n. 95/2012. I termini di attuazione di queste previsioni, fissati dal comma 31-ter del medesimo art. 14, sono stati peraltro più volte prorogati, da ultimo al 31 dicembre 2019 ad opera dell’art. 1, comma 1120, lett. a), legge 27 dicembre 2017, n. 205. Per la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale del cit. comma 28, nella parte in cui non consente ai Comuni di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo della gestione associata, che «a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti», cfr. Corte Cost., 4 marzo 2019, n. 33.

[19] In argomento, G. CAIA, Concorrenza e qualità nel servizio pubblico di distribuzione del gas: le gare per l’affidamento in ambiti territoriali minimi, in Giust. amm., 2008, 3, p. 53 ss.; A. IUNTI, Le Autorità d’ambito tra normativa statale e scelte del legislatore regionale, in Ist. fed., 2008, p. 81 ss.; M. LEGNAIOLI, Le prospettive di riforma del governo dei servizi idrico integrato e di gestione integrata dei rifiuti dopo la soppressione delle Autorità d’ambito territoriali, in Foro amm.-CdS, 2011, p. 3315 ss.; E.M. PALLI, La (prorogata) soppressione delle Autorità d’ambito territoriale ottimale nei servizi pubblici ambientali, in Ist. fed., 2012, p. 881 ss.; A.M. ALTIERI, I servizi pubblici locali organizzati in ambiti territoriali ottimali, in Giorn. dir. amm., 2013, p. 1191 ss.; B. CARAVITA DI TORITTO, La definizione degli ambiti territoriali ottimali e i processi di aggrega­zione, in G. NAPOLITANO-A. ZOPPINI (a cura di), Annuario di diritto dell’energia 2014. Quali regole per il mercato del gas?, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 191 ss.; A. LUCARELLI, L’organizzazione amministrativa delle nuove autorità d’ambito tra principio di sussidiarietà verticale, ruolo delle regioni e vincoli referendari, in ID. (a cura di), Nuovi modelli di gestione dei servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2014, p. 47 ss.; M.P. GUERRA, Assetti istituzionali e ambiti territoriali ottimali nel processo di riforma dell’amministrazione locale, in M. MIDIRI-S. ANTONIAZZI (a cura di), Servizi pubblici locali e regolazione, Editoriale scientifica, Napoli, 2015, p. 91 ss.; M. PASSALACQUA, La regolazione amministrativa degli ambiti territoriali per la gestione dei servizi pubblici locali a rete, in ID. (a cura di), Il “disordine” dei servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2015, p. 35 ss.; L. AMMANNATI-A. CANEPA, Un difficile percorso verso la concorrenza. Gli ambiti di gara per la distribuzione locale del gasivi, p. 83 ss.; J. BERCELLI, La riorganizzazione per ambiti ottimali del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani. Il caso del Veneto, in Ist. fed., 2016, p. 227 ss.; M.R. MAZZOLA, La delimitazione degli ambiti territoriali ottimali nella disciplina di settore, in A. VIGNERI-M. SEBASTIANI (a cura di), Società pubbliche e servizi locali, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2016, p. 377 ss.; S. PAPA, La governance e la regolazione del servizio idrico integrato alla luce del principio di sussidiarietà, in M. ANDREIS (a cura di), Acqua, servizio pubblico e partecipazione, Giappichelli, Torino, 2016, pp. 131-142; M. DE BENEDETTO, Gli Ambiti territoriali ottimali e la programmazione locale. Il ruolo delle Autorità di bacino e degli Enti di governo d’ambito. I rapporti con l’Aeegsi, in L. CARBONE-G. NAPOLITANO-A. ZOPPINI (a cura di), Annuario di diritto dell’energia 2017. Il regime dell’acqua e la regolazione dei servizi idrici, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 131 ss.; F. CAPORALE, I servizi idrici. Dimensione economica e rilevanza sociale, Franco Angeli, Milano, 2017, pp. 267-275; F. GIGLIONI, La determinazione degli ambiti ottimali e le Autorità di governo locale nell’organizzazione e gestione del servizio rifiuti, in L. CARBONE-G. NAPOLITANO-A. ZOPPINI (a cura di), Annuario di diritto dell’energia 2018. La gestione dei rifiuti tra ambiente e mercato, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 225 ss.

[20] Art. 2, comma 38, legge 24 dicembre 2007, n. 244.

[21] Art. 2, comma 186-bis, legge 23 dicembre 2009, n. 191, inserito dall’art. 1, comma 1-quinquies, d.l. 25 gennaio 2010, n. 2, conv. con modif. in legge 26 marzo 2010, n. 42. Per la costituzionalità di questa norma si è pronunciata Corte Cost., 13 aprile 2011, n. 128 (se ne veda la nota di F. CAPORALE, La soppressione delle Autorità d’Ambito e la Consulta: le prospettive nella regolazione locale dei servizi idrici, in Munus, 2012, p. 269 ss.).

[22] Il termine di decorrenza della soppressione, originariamente fissato al 1° gennaio 2011, è stato più volte prorogato, da ultimo al 31 dicembre 2012 per effetto dell’art. 13, comma 2, d.l. 29 dicembre 2011, n. 216, conv. con modif. in legge 24 febbraio 2012, n. 14.

[23] Inserito dall’art. 25, comma 1, lett. a), d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. con modif. in legge 24 marzo 2012, n. 27.

[24] Parzialmente modificato dall’art. 53, comma 1, lett. a), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. in legge 7 agosto 2012, n. 134.

[25] Inserito dall’art. 34, comma 23, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. in legge 17 dicembre 2012, n. 221, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 609, lett. a), legge 23 dicembre 2014, n. 190.

[26] L’inclusione del servizio di gestione dei rifiuti urbani tra quelli interessati alle disposizioni dell’art. 3-bis e alle «altre disposizioni, comprese quelle di carattere speciale, in materia di servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica» è confermato anche dal comma 6-bis del medesimo art. 3-bis, inserito dalla lett. e) del già citato art. 1, comma 609, legge n. 190/2014.

[27] Si vedano i testi degli artt. 147 e 149-bis, d.lgs. n. 152/2006, come modificati o inseriti dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 133/2014 citato in testo.

[28] Si vedano il D.M. 19 gennaio 2011, che ha individuato gli ambiti, e il D.M. 18 ottobre 2011, che ha elencato i singoli Comuni in essi inseriti.

[29] Art. 2, D.M. 12 novembre 2011, n. 226.

[30] E altresì in quanto servizio «sottopost[o] alla regolazione ad opera di un’autorità indipendente» (e cioè l’ART), agli effetti del comma 6-bis del medesimo art. 3-bis citato in testo.

[31] Corte Cost., n. 246/2009, cit., punto 12.1 in diritto.

[32] In particolare, per quanto ad esempio riguarda il servizio idrico integrato, sono in maggioranza le Regioni che hanno optato per l’ambito unico regionale: non solo quasi tutte le Regioni di minori dimensioni (Valle d’Aosta, Trento [Provincia autonoma], Friuli-Venezia Giulia, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata), ma anche molte di quelle maggiori (Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Puglia, Calabria, Sardegna).

[33] Corte Cost., 28 marzo 2013, n. 50, punto 5.2 in diritto; la pronuncia ha pertanto dichiarato l’incostituzionalità di una norma di legge regionale (Regione Abruzzo) che sottoponeva le decisioni dell’ente di governo dell’ambito al parere vincolante dell’assemblea dei Sindaci dei Comuni appartenenti all’ambito.

[34] All’odierna ARERA-Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (in origine AEEG-Autorità per l’energia elettrica e il gas), che in virtù della legge istitutiva (legge 14 novembre 1995, n. 481) era competente nel campo dei servizi pubblici locali, solo per la regolazione del servizio di distribuzione del gas naturale, è stata successivamente affidata la regolazione del servizio idrico integrato (con ridenominazione in AEEGSI-Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico: cfr. art. 21, comma 19, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 conv. con modif. in legge 22 dicembre 2011, n. 214; art. 13, comma 13, d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv. con modif. in legge 21 febbraio 2014, n. 9) e poi anche del servizio di gestione dei rifiuti urbani (art. 1, commi 527-528, legge 27 dicembre 2017, n. 205). La regolazione dei servizi di trasporto pubblico locale rientra, invece, tra i compiti dell’ART-Autorità di regolazione dei trasporti (art. 37 del citato d.l. n. 201/2011).

[35] In argomento, G. NAPOLITANO, La rinascita della regolazione per autorità indipendenti, in Giorn. dir. amm., 2012, p. 229 ss.; F. MERUSI-S. ANTONIAZZI (a cura di), Vent’anni di regolazione accentrata di servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2017; G. NAPOLITANO-A. PETRETTO (a cura di), La regolazione efficiente dei servizi pubblici locali, Editoriale scientifica, Napoli, 2017; E. BOSCOLO, Il modello di regolazione indipendente nel settore idrico, in L. CARBONE-G. NAPOLITANO-A. ZOPPINI (a cura di), Annuario di diritto dell’energia 2017, cit., p. 235 ss.; E. BRUTI LIBERATI, Regolazione indipendente dei trasporti e poteri delle regioni e degli enti locali: prime considerazioni critiche, in F. ROVERSI MONACO-G. CAIA (a cura di), Il trasporto pubblico locale, vol. I, Editoriale scientifica, Napoli, 2018, p. 59 ss.; M. DUGATO, Regolazione e gestione del trasporto pubblico locale tra principi generali e discipline di settoreivi, vol. II, p. 19 ss.; G. BAROZZI REGGIANI, Servizi di pubblica utilità, Authorities ed Enti di governo d’ambito: fra istanze accentratrici e (necessaria) garanzia della rappresentatività, in AA.VV., Diritto amministrativo e società civile, vol. I, Studi introduttivi, Bononia University Press, Bologna, 2018, p. 305 ss.; A. BENEDETTI, Disciplina europea e regolazione dei servizi pubblici locali tramite autorità indipendenti, in questa Rivista, 2019, 1, p. 21 ss.

[36] In proposito parla, appunto, di «de-municipalizzazione dei servizi pubblici locali» G. PIPERATA, I servizi pubblici locali tra ri-municipalizzazione e de-municipalizzazione, in Munus, 2016, 1, p. X; in senso analogo, T. BONETTI, Servizi pubblici locali di rilevanza economica: dall’“insta­bilità” nazionale alla “deriva” europea, in Munus, 2012, p. 432.

[37] A quanto consta, solo nelle Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Basilicata è stato creato un unico ente di governo sia per il servizio idrico integrato sia per il servizio di gestione dei rifiuti urbani.

[38] Sono previste anche «misure premiali» per le Regioni che approvano le leggi indicate, disponendo la soppressione di uno o più enti o agenzie.

[39] La norma si pone in «controtendenza» [G. CARUSO, Le competenze delle “nuove” Province, in A. STERPA (a cura di), Il nuovo governo dell’area vasta, Jovene, Napoli, 2014, p. 210] rispetto al ridimensionamento del ruolo delle Province voluto dalla legge n. 56/2014 e prefigura «un processo di concentrazione di funzioni in materia di servizi a rilevanza economica in favore delle nuove province di dimensioni amplissime» [F. PIZZETTI, La riforma degli enti territoriali, Giuffrè, Milano, 2015, p. 166], assegnando alle stesse, in tale materia, un «ruolo centrale» [F. FABRIZZI, Le Province, in F. FABRIZZI-G.M. SALERNO (a cura di), La riforma delle autonomie territoriali nella legge Delrio, Jovene, Napoli, 2014, p. 71].

[40] Ci si riferisce al già ricordato art. 3-bis, comma 1-bis, d.l. n. 138/2011, come da ultimo modificato, appunto, dalla legge n. 609/2014, il quale stabilisce che i Comuni «partecipano obbligatoriamente» agli enti di governo dell’ambito, ma «fermo restando» quanto previsto dall’art. 1, comma 90, legge n. 56/2014.

[41] Anche il già ricordato schema di d.lgs. recante il testo unico delle norme sui servizi pubblici locali di interesse economico generale aveva previsto che le funzioni dell’ente di governo dell’ambito fossero svolte dalla Città metropolitana o dall’ente di area vasta (e cioè dall’ente che poteva prendere il posto della Provincia, nell’assetto della riforma costituzionale del 2016), qualora il perimetro dell’ambito territoriale coincidesse con il territorio della Città metropolitana o dell’ente di area vasta.

[42] La perdurante mancata attuazione del principio si deve anche al fatto che l’art. 1, comma 90, legge n. 56/2014 non fissa termini per la sua applicazione e non prefigura poteri sostitutivi (sul punto v. P. BARRERA, Commento al comma 90, in L. VANDELLI, Città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni. La legge Delrio, 7 aprile 2014, n. 56 commentata comma per comma, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2014, p. 169).

[43] Si vedano, ad esempio, l’art. 6, comma 3, legge reg. Veneto 29 ottobre 2015, n. 19 e l’art. 6, comma 7, legge reg. Marche 3 aprile 2015, n. 13.

[44] Art. 7, legge reg. Piemonte 29 ottobre 2015, n. 23, abrogato dall’art. 37, comma 1, lett. k), legge reg. Piemonte 10 gennaio 2018, n. 1.

[45] Art. 1, commi 19, 25, 58 e 69, legge n. 56/2014.

[46] Corte Cost., 7 luglio 2016, n. 160, punto 6 in diritto.

[47] Si veda la lett. a) del già citato art. 2, comma 38, legge n. 244/2007.

[48] Per i servizi pubblici a vocazione metropolitana, la Città metropolitana, pertanto, «agisce da titolare del servizio»: così F. LIGUORI, I modelli organizzativi e gestionali dei servizi metropolitani: prime considerazioni, in Munus, 2014, p. 456.